Una volta entrato a Downing Street, per prima cosa si occupò del fronte francese e volò a Parigi dal primo ministro Paul Reynaud (foto LaPresse) 

LO STATISTA MODERNO /3

L'ora più bella di Churchill

Carlo Nordio

Il fronte francese cedeva e il re nominò Winston primo ministro, che andò a letto tranquillo e dormì di un sonno profondo. Aspettava quel ruolo da decenni e si sentiva perfettamente in grado di ricoprirlo al meglio

Il prossimo 30 novembre saranno 150 anni dalla nascita di Winston Churchill, primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia e appassionato di Churchill, di scrivere quattro puntate sulla storia dell’ex primo ministro inglese per il Foglio. Qui potete leggere la prima puntata “Churchill eroe di guerra”; qui la seconda "Winston Churchill, il leone indomito".
 



Quando, il 1° settembre 1939, Winston ritornò nella sua vecchia sede dell’Ammiragliato, tutto era come prima, comprese le navi. Si trattava sempre della flotta più numerosa e potente del mondo, ma per la più parte comprendeva corazzate obsolete. Gli incrociatori da battaglia costruiti negli anni Venti erano eleganti, veloci e bene armati, ma privi di protezione. Lo Hood sarebbe saltato in aria alla seconda salva sparata dalla Bismarck. Nuove ed efficienti erano le portaerei, peraltro munite di vecchi biplani. L’ardimento degli ammiragli e dei piloti sopperì alla vetustà dei velivoli, che  avrebbero affondato mezza flotta italiana  a Taranto,  e inferto un colpo mortale a quella stessa Bismarck che aveva distrutto lo Hood. In compenso la flotta  tedesca era una pallida ombra di quella che 25 anni prima aveva sfidato con esito dignitoso la Royal Navy nello scontro dello Jutland. Le uniche due corazzate erano ancora in allestimento, e soltanto i sommergibili erano numerosi e moderni. Il vero fastidio al dominio marino britannico era costituto da un paio di “corazzate tascabili” che agivano come corsari affondando il naviglio mercantile. La Graf Spee aveva già provocato gravi perdite. Churchill mobilitò contro di lei varie formazioni di incrociatori: una di queste la intercettò al largo di Rio de La Plata e le  inflisse seri danni. Il comandante Langsdorff si  rifugiò a Montevideo per le riparazioni, che si rivelarono lunghe e incompatibili con la breve sosta concessa alla nave da un paese neutrale. Sapendosi braccato dagli inglesi, Langsdorff affondò la sua nave, e si suicidò. Churchill rese onore all’avversario, ma disse che sarebbe stato meglio se fosse morto combattendo.
 

Nel frattempo Hitler aveva invaso la Polonia: con la nuova tattica della blitzkrieg, impegnando carri armati appoggiati dall’aviazione, penetrò facilmente in quel paese piatto e indifeso. La cavalleria polacca fu tanto generosa quanto sconsiderata, e fu decimata dai blindati di von Bock e di von Rundstedt, gli stessi che ritroveremo tra poco. Varsavia cadde dopo appena un mese, l’ultimo suo messaggio radio fu una sonata di Chopin. I sovietici nel frattempo avevano divorato la loro parte, concessa dal famigerato patto Molotov-Ribbentrop. Soddisfatto e temporaneamente appagato, Hitler propose la pace.
 

Gran Bretagna e Francia rifiutarono. Ma nessuna delle due nutriva uno spirito combattivo. La prima era protetta dalla Manica e dalla flotta, la seconda dalla linea Maginot. Quest’ultima era un complesso di fortificazioni di cemento, acciaio e artiglieria, che copriva il confine dalla Svizzera al Lussemburgo. Era costata molti soldi, ma avrebbe risparmiato molte vite. Per tutto l’inverno del ’39-’40 gli eserciti contrapposti si fronteggiarono scambiandosi qualche colpo e persino qualche cortesia, in quella che i francesi chiamarono “drôle de guerre”: una guerra strana. In realtà mentre loro sonnecchiavano dietro quella barriera ritenuta inespugnabile, Hitler preparava la più fulminea campagna militare dai tempi di Annibale: un misto di genialità strategica, intuito tattico e audacia operativa che avrebbe sbalordito il mondo.
 

L’anziano e prestigioso generale – poi feldmaresciallo – Gerd von Rundstedt aveva ammonito che le difese fisse servono solo per essere aggirate. Questo non era del tutto vero. Le fortificazioni come la Maginot, e più tardi, a parti invertite, il Vallo, avrebbero consentito di controllare i confini con forze limitate, risparmiando preziose truppe per costituire una riserva strategica, tale da colpire il nemico dove questo avesse attaccato. I francesi, commisero qui il primo errore: impiegarono un terzo del loro esercito per difendere questa lunga corazza che si proteggeva da sola. Il resto dell’Armée la spedirono a nord, dove si riteneva che i tedeschi avrebbero cercato di sfondare, come avevano fatto nel 1914 quando erano arrivati quasi a Parigi. E questo fu il secondo errore. Qui, alla frontiera con il Belgio, disposero le loro truppe migliori, compreso il British Expeditionary Corps,  con trecentomila soldati di Sua Maestà. Tra questa formidabile ammucchiata e la Maginot stava la foresta delle Ardenne, considerata – terzo errore – impenetrabile. E qui, il 10 maggio 1940, Hitler sferrò il colpo. L’idea era stata di Erich von Manstein, che Liddell Hart definì il più brillante generale del Fuhrer. Fu accolta da von Rundstedt, che comandava quel settore, e fu attuata da Guderian, teorico dell’impiego dei corazzati in autonome divisioni di sfondamento.
 

Nel frattempo erano accadute altrove varie cose. Impaziente nell’inattività della “drôle de guerre”, Churchill aveva patrocinato l’invasione della Norvegia, sia per prevenire un attacco già programmato da Hitler, sia per tagliare i rifornimenti di ferro dalla Svezia alla Germania. Le due operazioni si incrociarono in aprile, e gli Alleati sembrarono avere il sopravvento. Imprudentemente, Chamberlain disse ai Comuni che “Hitler aveva perso l’autobus”. Pochi giorni dopo fu smentito dall’invasione tedesca. I Comuni insorsero, e il 7 maggio Leo Amery apostrofò l’inebetito primo ministro con le terribili parole di Cromwell: “Troppo a lungo avete occupato quel posto per quel poco di bene che avete fatto. Andatevene, e sia finita con voi. In nome di Dio, andatevene!”. L’eco di questo monito non si era ancora spenta quando i nazisti attaccarono l’Olanda e il Belgio, violandone la neutralità. Gli Alleati andarono in loro soccorso, spostando lungo quel confine tutte le loro armate. Era proprio quello che i generali di Hitler si aspettavano. Mentre gli Alleati si aprivano a ventaglio, come un avambraccio che fa perno sul gomito, von Rundstedt attaccò questa giuntura, proprio nella foresta delle Ardenne.  Era il 10 maggio 1940. Quel giorno Chamberlain rassegnò le dimissioni.
 

L’alternativa a questo onesto ma debole aristocratico era Lord Halifax, pacifista e propenso a un accordo con Hitler. Era sostenuto dall’apparato del partito conservatore, da Chamberlain  e dallo stesso sovrano. Ma i laburisti, che a suo tempo erano stati inetti e rinunciatari quanto lui, erano adesso esasperati e inferociti. Dissero che non avrebbero mai accettato Halifax come guida di un gabinetto di guerra. Era arrivata l’ora di Churchill. Convocato dal re, e ottenuto l’incarico,  mentre il fronte francese stava cedendo, Churchill andò a letto tranquillo, e (disse) dormì di un sonno profondo e senza sogni. Aspettava quel ruolo da decenni, e si sentiva perfettamente in grado di ricoprirlo al meglio. Il 13 maggio si presentò ai Comuni con uno dei suoi discorsi più celebri. Altri ne sarebbero seguiti, e avrebbero riempito un volume. Con la sua voce pastosa e borbottante, avvertì gli inglesi: “I have nothing to offer but blood, tears, toils and sweat!”. Non era un’improvvisazione. Il suo amico Lord Birkenhead disse maliziosamente che “Winston ha dedicato i migliori anni della sua vita a preparare i suoi discorsi improvvisati”; e in effetti nessun cervello umano, per quanto alimentato da vigorose quantità di champagne, può essere così effervescente da distillare tanta genialità senza una riflessione adeguata. Tuttavia ebbe la sua efficacia. Il vecchio leone, si sentiva ora suo agio, perché poteva domare la situazione anche se era quasi disperata. E per prima cosa si occupò del fronte francese.
 

Qui il primo ministro Paul Reynaud era in uno stato prostrazione, e comunicò al collega inglese che i tedeschi stavano dilagando. Churchill volò immediatamente a Parigi e incontrò il comandante dell’esercito, Gamelin, al Quai d’Orsay, mentre i militari bruciavano nel cortile cataste di documenti riservati. Il generale mostrò una carta che raffigurava un bozzo allarmante: era la penetrazione dei carri nazisti che avanzavano velocemente trascinandosi dietro la più lenta fanteria. Churchill rispose che la situazione poteva essere capovolta: se il nemico – disse – si allungava troppo per isolare noi, noi possiamo contrattaccare isolando lui. Confidando in questa strategia elementare, Churchill chiese nel suo francese sommario: “Où est la masse de manoeuvre?”: al che l’ imperturbabile ufficiale rispose alzando le spalle: “Aucune”: Nessuna. Winston rimase impietrito, tornò a Londra mugugnando e cominciò a pensare di proteggere l’Inghilterra. Per fronteggiare un’eventuale invasione aveva bisogno di due cose: quel che restava dell’esercito, e soprattutto l’aviazione. Anche se la sua marina dominava la Manica, la Luffwaffe minacciava la marina: senza la superiorità aerea, l’isola sarebbe stata vulnerabile. Ma forse c’era ancora spazio per la speranza: il 19 maggio, parlando alla radio, ribadì la sua fiducia nell’“indomitable Monsieur Reynaud”, e concluse con una delle sue tante citazioni bibliche “arm yourselves, and be ye men of valour”, perché “è meglio morire in battaglia che assistere all’oltraggio della nostra nazione e dei nostri altari”. Un monito che oggi molti tendono a deridere. E infatti, forse prevedendo il futuro pacifismo in tonaca, terminò sereno: “Comunque sia fatta la volontà di Dio”.
 

Il 20 maggio i tedeschi arrivarono al mare, tagliando fuori metà dell’esercito francese e l’intero Corpo britannico. Quest’ultimo si ritirò ordinatamente verso Dunkerque, protetto da reggimenti inglesi e francesi che si sacrificarono per arrestare o rallentare l’avanzata nemica. A qualche decina di chilometri dal porto, dove si era riunito quasi mezzo milione di uomini, i blindati  nazisti si fermarono. Fu un ordine di Hitler, sulle cui ragioni gli storici discutono e discuteranno a lungo: la necessità di preservare i carri, logorati dalla lunga corsa; oppure le assicurazioni di Göring che la Luftwaffe avrebbe finito il lavoro da sola; o infine il desiderio di non umiliare troppo l’Inghilterra, in vista di una pace onorevole. Forse un po’ di tutto. Comunque sia,  Churchill fece mobilitare dall’amico ammiraglio Bertrarm Ramsay tutto il naviglio disponibile, compresi yacht e battelli di  pescatori. I recenti film non rendono piena giustizia di questa impresa titanica. In sei giorni, furono riportati i  patria quasi tutti i soldati britannici, più centomila francesi. Avevano perso tutto l’equipaggiamento ma avevano salvato la pelle e il morale. Quel reimbarco fu definito un miracolo,  con una serie di ossimori: brillante ritirata, vittoriosa sconfitta, ecc ecc. Churchill ne ammise il carattere straordinario, ma il 4 giugno ai Comuni rilevò che quello era un “colossal military disaster”, e che “wars are not won by evacuations”. Ma l’epilogo di quel discorso rimase e rimarrà, come quello di Enrico V ad Agincourt, nella storia militare e letteraria degli inglesi: “We shall go on to the end. We shall fight in France, we shall fight on the seas and oceans, we shall fight with growing confidence and strength in the air, we shall defend our Island whatever the cost may be, we shall fight in the beaches, we shall fighr in the landind grounds, we shall fight in the hills, we shall never surrender...”. Un crescendo eroico come l’ultimo tempo della Terza di Beethoven. Questo discorso da solo gli sarebbe valso il premio Nobel per la letteratura, che avrebbe ottenuto tredici anni dopo. E tuttavia, nei pochi momenti neri, Winston mormorava che sulle spiagge avrebbero potuto affrontare i tedeschi solo con le lattine di birra. Poi riprendeva vigore e organizzava le difese.
 

Intanto i tedeschi, dopo una pausa di respiro e di rifornimento, puntarono su Parigi. Non vi fu una nuova mobilitazione, come quella del 1914. Difettavano la volontà della forza e la forza della volontà. Il 14 giugno le truppe di Hitler entrarono nella capitale. Il 10 giugno Mussolini aveva attaccato la Francia con quella che fu giustamente definita una pugnalata alla schiena. Una vergogna indelebile, che ci trascinò in una guerra tanto sciagurata quanto rovinosa. Ma il bottino che il fascismo cercava di acquisire con questa vile aggressione fu condiviso: “Allo sciacallo, scrisse Churchill,  si aggiunse l’orso”. L’orso era l’Unione sovietica, che plaudì all’invasione della Francia, e ordinò ai partiti comunisti occidentali di allinearsi alla chiesa madre moscovita. Quasi tutti ubbidirono, e gli ultimi superstiti di questa ideologia macabra farebbero bene a rifletterci. Churchill cita i rapporti dell’ambasciatore nazista a Mosca, conte Schulenburg: “Molotov ha espresso le più vive congratulazioni del governo sovietico per lo splendido successo delle forze armate germaniche”. Lo stesso 14 giugno, Mosca mandò un ultimatum alla Lituania, e il giorno dopo la invase. Lettonia ed Estonia subirono poco dopo lo stesso destino. A chi obietta che l’adesione alla Nato di questi paesi è una provocazione alla Russia putiniana, sarebbe bene ricordare anche questi precedenti. Quanto alla Francia, il 16 giugno Reynaud fu sostituito da Pétain, che chiese l’armistizio. Questo fu siglato all’interno del vagone dove ventidue anni prima si erano arresi i tedeschi. Con questa umiliazione, si concluse la campagna di Francia.
 

Churchill aveva già anticipato questa fine nel suo discorso del 18 giugno. Anche qui, uno strepitoso cocktail di Gibbon e di Shakespeare: “Mi attendo ora che stia per iniziare la battaglia di Inghilterra. Da questa dipende la sopravvivenza della nostra civiltà cristiana. Se perdiamo, il mondo intero, inclusi gli Stai Uniti, incluso tutto ciò in cui abbiamo creduto sprofonderà nell’abisso di un nuovo medio evo, reso più sinistro, e forse più duraturo, dai lumi di una scienza perversa. Faccia dunque ognuno di noi il proprio dovere, e comportiamoci in modo tale che se l’Impero britannico dovesse vivere mille anni, gli uomini dicano un giorno: ‘This was their finest our’”. In effetti, come ammise nelle sue memorie, quella fu l’ora più bella anche per lui.

Winston Churchill, lo statista moderno. Di Carlo Nordio

Di più su questi argomenti: