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biografia

Cent'anni fa moriva Ferruccio Busoni, pianista prodigioso che fu ponte verso la modernità

Mattia Rossi

Ricordare Busoni, nelle cui mani lo spartito diventava strumento per traghettare la musica verso il futuro

C’è un passo de “Il mago possente”, libretto mai musicato, che tratteggia perfettamente lo spirito inquieto e l’indole visionaria di Ferruccio Busoni: “Che cercate? Dite! E che aspettate? – Non lo so: io voglio l’ignoto! Ciò che mi è noto è illimitato. Io voglio saperne ancora. L’ultima parola mi manca”. Morto cent’anni fa, nel luglio del 1924, pochi mesi prima del ben più celebre collega Giacomo Puccini, Busoni rappresentò davvero quella che si può definire la transizione tra classicità e l’ignoto della modernità: modernità, però, mai intesa come sterile sperimentalismo, ma, al contrario, come innovazione nella tradizione.

  

Nato a Empoli nel 1866, compositore cosmopolita, pianista prodigioso, Busoni riuscì a ritagliarsi un posto di prestigio europeo (nel 1907 la National Zeitung scrisse che “è una delle più luminose apparizioni della nostra vita musicale”: attestazione per nulla scontata nella Germania di Wagner) come fecondo trascrittore grazie alle sue “traduzioni” nelle quali non mise in atto mere trascrizioni di note, ma plasmò sul pianoforte brani trasfigurati in nuove creazioni: “Ogni notazione è già trascrizione di un’idea astratta”, è la tesi busoniana di partenza.

  
Come molti colleghi del suo tempo, anche Busoni veicolò la sua estetica e le sue teorizzazioni non solo attraverso la composizione, ma, forse soprattutto, con le esecuzioni. Lo spartito, nelle mani di Busoni, diventa strumento per traghettare la musica verso il futuro: “Solo chi guarda innanzi ha lo sguardo lieto”, scrive nel libretto del “Doktor Faust”. Ma quale futuro? Non certo quello prospettato da Stravinskij (che “crea un’immagine sbagliata di quel che deve essere il progresso della musica”, scrisse in una lettera alla moglie del 25 novembre 1919). Per Busoni la modernità sta, in realtà, nella capacità di lettura del presente: calare l’antico nelle leggi della contemporaneità.

  

Replicando a una recensione di un suo concerto del 1902, scrisse che suo intento non era “modernizzare” le opere suonate, ma “ripulirle dalla polvere della tradizione”: “Mi sono fatto un ideale, che erroneamente si definisce ‘moderno’, e che in realtà non è se non ‘vivente’”. Tesi ribadita nel 1910 nel suo “Abbozzo di una nuova estetica della musica”: “Il moderno non esiste – in arte esiste solo il nato prima e il nato dopo; ciò che fiorisce a lungo e ciò che in breve appassisce”.

  

La musica moderna, dunque, lungi dall’essere rappresentata da rotture radicali: il fatto che il modernismo di Busoni passasse attraverso Bach, Beethoven e Chopin la dice lunga. Raccontò lo scrittore Bruno Goetz che il compositore, un giorno, gli confidò: “Chi lotta per il nuovo e quello che mai si è sentito, a volte oltrepassa la meta. Certo sono sperimentazioni e un esperimento non è ancora un’opera. Nell’opera deve essere tutto perfetto. Questo non vuol dire attenersi a regole astratte. Significa seguire quelle particolari leggi che sono insite in ogni struttura sonora. Chi ci riesce, è un maestro”.

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