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La parola giusta. Da Kerouac a Leopardi, quando la scrittura è “approssimazione”

Stefano Picciano

I grandi autori ci insegnano che la bellezza dello scrivere risiede soprattutto nel meditare ogni parola, nel tornare a più riprese a modellare, lavorando sui sinonimi, il testo e le sue trame

Presto troverò le parole giuste, e saranno semplici”, scrisse un giorno Jack Kerouac nei suoi appunti. C’è qualcosa di misterioso nel tornare a più riprese su un testo, nei giorni precedenti la pubblicazione, per valutare di nuovo l’una o l’altra espressione, per modificare magari una singola parola se si individua un sinonimo più adeguato, pertinente, preciso. C’è qualcosa di indefinibile in questa pazienza mai stanca, in questo continuo modificare, correggere, limare, quando emerge una formulazione più consona, un’espressione migliore, o solamente quella parola tanto attesa che, finalmente, si affaccia d’un tratto. E poi la pagina bianca, quel vertiginoso spazio così privo di confini da mettere l’animo in subbuglio, tanto è vasto e illimitato. Tutto consiste allora nell’individuare dei confini che, limitando uno spazio che ha le sembianze della notte di Ciaula in Pirandello, possano indicare una strada da seguire.

E soppesare ogni termine fino a sceglierne uno e uno solo, decidendo quale parola, fra i duecentosessantamila lessemi della nostra lingua, si avvicina di più a una piccola verità intuita. I grandi autori ci insegnano che la bellezza dello scrivere risiede soprattutto nel meditare ogni parola, nel tornare a più riprese a modellare, lavorando sui sinonimi, il testo e le sue trame. Che meraviglia scoprire che quel che si vuole dire non è qualcosa di posseduto interamente a priori, ma qualcosa che si fa via via più chiara mentre diviene parola: è all’atto di scrivere – e non prima – che il pensiero si definisce, si chiarisce, si illumina un poco di più. Perché, come scrive il linguista Edward Sapir, “appena abbiamo la parola noi sentiamo istintivamente, con qualcosa di simile al sollievo, che possiamo maneggiare il concetto”. Ecco allora questo scrivere che somiglia un poco al gesto del pittore quando mette sulla tela diversi strati di colore (in fondo la scrittura, come la pittura, vive di sfumature), un poco a quello del sarto – perché il “testo” non è diverso da un “tessuto” – e anche a quello del falegname che leviga pian piano la sua opera per rifinirla. La scrittura è un viaggio, un’approssimazione continua verso una verità intravista che si fa tanto più nitida quanto più, proprio attraverso la parola, ci avviciniamo a essa. Come confidava Italo Calvino: “È verso la verità che corriamo, la penna ed io, la verità che aspetto sempre che mi venga incontro, dal fondo di una pagina bianca”. Consola rileggere Ungaretti, che scriveva: “Si sa che tra le parole e ciò che si vuol dire c’è sempre un divario enorme”; è bello immaginare il poeta alla ricerca della parola assoluta, lottando strenuamente per conseguire “l’approssimazione meno imprecisa, la riduzione di quanto possibile di quel divario ineliminabile che c’è tra le cose da dire e il modo di dirle”. Allora capiamo che forse lo scrivere non è altro che la ricerca di noi stessi, di ciò che siamo davvero. Ignazio Silone esprime con suggestive parole questa ricerca irrequieta: “Se dipendesse da me, passerei volentieri la mia vita a scrivere e riscrivere lo stesso libro: quell’unico libro che ogni scrittore porta in sé, immagine della propria anima, e di cui le opere pubblicate non sono che frammenti più o meno approssimativi”. Ricordo bene, in università, i passaggi nel corridoio del dipartimento di Lettere, sulle cui pareti erano state poste le copie di alcuni autografi di celebri poeti.

Era affascinante riguardare, a ogni passaggio, quella correzione ne L’Infinito di Leopardi, perché mi offriva d’un tratto intatta l’umanità del poeta, le sue fatiche, la sua improvvisa vicinanza: “E questa siepe, che da tanta parte / del celeste confine il guardo esclude”, dove celeste confine sarebbe stato trasformato, com’è noto, in ultimo orizzonte. Straordinaria correzione, perché l’etimologia comune tra le parole “confine” e “orizzonte” (horizein, delimitare) ci svela qualcosa di prezioso: che ciò che ci limita è, al tempo stesso, ciò che ci spalanca all’infinito. 

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