Una scena del film La ballata di Narayama

il libro

La vecchiaia e il fine vita scandagliato nel mito di un Giappone senza tempo

Maurizio Crippa

La storia di Orin che si prepara a morire sul monte Narayama per non sottrarre risorse ai giovani. In libreria Le ballate di Narayama, il “capolavoro sgradevole” di Fukazawa

 

Meglio spaccarsi i denti in anticipo, spaccarseli da soli, per evitare l’accusa infame che i bambini del villaggio cantano nella ballata crudele: “Mia nonna in un angolo del magazzino  / ha raccolto i suoi trentatré denti del diavolo”. L’accusa di essere troppo vecchi ma di avere ancora denti buoni per mangiare il cibo che spetterebbe ai giovani. Meglio prepararsi per tempo per intraprendere il viaggio sul monte Narayama, alla casa del dio, il viaggio a cui si è destinati e da cui non si torna. Meglio compiere tutti i riti. La cerimonia degli addii sia silenziosa, dignitosa. Poi il primo giorno dell’anno il figlio la prenderà sulle spalle e la condurrà sul monte. Questo pensa la vecchia Orin, la vedova che guida la famiglia e ha sistemato tutto: la nuova sposa per il figlio vedovo, le istruzioni per il cibo nell’inverno.

Orin compie settant’anni, limite invalicabile. E’ la protagonista di uno splendido e tragico romanzo breve giapponese, Le ballate di Narayama di Fukazawa Shichiro, pubblicato da Adelphi (in Italia proprio nei giorni scorsi è arrivata l’importante sentenza della Consulta sul “fine vita”: le scelte editoriali di Adelphi non sono mai inattuali). Le ballate di Narayama è ambientato in un poverissimo villaggio montano del Giappone, in un tempo indefinito e ancestrale (ma potrebbe forse essere l’Ottocento). Lì è tradizione che vecchie e vecchi siano mandati a morire, una bocca in meno, un impiccio di cura in meno. Una società dominata dalla necessità e della sopravvivenza. Lo stile affonda nel mito, scandito nel tono degli antichi racconti orali, la cadenza delle “ballate” che tramandano le leggende del popolo. Una potenza a tratti sconvolgente, ma trattenuta come nell’antica poesia giapponese. In realtà non ci sono certezze e indicazioni antropologiche che esistesse in Giappone una pratica diffusa di soppressione dei vecchi. Anche se i miti non nascono a caso. Nel saggio che accompagna il romanzo, Giorgio Amitrano, studioso di cultura giapponese, ricorda che il primo traduttore in occidente accostò la vicenda a quella di Pollicino: la soppressione dell’infanzia per la sopravvivenza del gruppo. La storia di Narayama non nasce nel nulla, è diffusa e tramandata in varie leggende codificate, soprattutto quella del monte Obasute, la montagna nella provincia di Nagano “su cui venivano abbandonate le donne anziane”. 

Quando comparve, nel 1956 in un Giappone appena uscito dalla occupazione di MacArthur, il libro ebbe un effetto dirompente, Fukazawa era un esordiente estraneo all’ambiente letterario (era chitarrista in un locale di Music hall e striptease di Tokyo). Ripiombare il paese nel suo passato di fame, violenza e misticismo era sferrare un pugno. Colpì anche il giovane Mishima, che lo definì un “capolavoro assoluto”, ma allo stesso tempo un “capolavoro sgradevole”, “la nostra idea di umanità calpestata”. Fra i molti motivi della sgradevolezza c’è la lotta per la sopravvivenza in un mondo rituale e gerarchico, tutto ciò che il Giappone voleva lasciarsi indietro. Ma i decenni successivi hanno reso di drammatica attualità un’altra domanda: che farne, dei vecchi? E della propria vita invecchiata? Da Narayama sono stati tratti due film. Il più recente, di realismo selvaggio, di Shohei Imamura, vinse nel 1983 la Palma d’oro a Cannes. Ma vale la pena ritrovare su YouTube il film del 1958 di Keisuke Kinoshita, girato in un teatro di posa, che trasforma il racconto in una messinscena rituale da teatro Nō, in cui la musica tradizionale e il canto delle ballate accentuano il richiamo a un mito fondativo e disturbante. Per Fukazawa, cui certo non è estranea la ribellione verso la cultura tradizionale, è più forte il sentimento del sacro: si sale dal dio della montagna, del quale null’altro si conosce se non che possa essere benevolo o meno (sarà benevolo se scenderà la neve, immagina Orin). Ma che benevolenza c’è di fronte alla scelta obbligata di morire? A essere “disturbante” è la domanda sulla fine della vita che attraversa la cultura giapponese molto più di quanto abbia attraversato (fino a qualche decennio fa) la nostra, in cui il pensiero giudaico-cristiano ha reso tabù l’eutanasia (e l’infanticidio: nella casa di Orin c’è anche un bambino che sta per nascere, nessuno si tira indietro all’idea di gettarlo in un burrone). Oggi quelle domande alle nostre latitudini sono spesso banalizzate nella melassa mediatica e nello scontro puramente politico. 

La compassione e la cura. Il figlio di Orin, Tatsuhei, non vuole portarla sul monte, abbandonarla ai corvi. Lo farà, nel rispetto della volontà della madre e di imperscrutabili dettami. Ma infrangerà i riti, e tornerà sulla montagna, per dirle che la neve è caduta: il segno della benevolenza del dio tanto agognato dalla madre. E se un vecchio non vuole morire? Nel racconto c’è un uomo, Matayan, che si oppone disperato. Ma suo figlio ha già deciso per lui, appellandosi alla legge dell’utile, lo butterà nel burrone dei corvi neri. Per nessuno e in nessun caso è una “dolce” morte, come nel nostro lessico edulcorante. Il tema dell’eutanasia, dell’ingombro degli anziani che rubano la vita ai giovani, è oggi cruciale in Giappone dove l’invecchiamento è enorme, la solitudine pure e nelle librerie ci sono scaffali intitolati al “memento mori” e a come attrezzarsi di conseguenza. E’ stato un caso nel 2022 il film 75 Plan, segnalato a Cannes e agli Oscar, che racconta la storia nemmeno così irreale di un Giappone futuro in cui si vara l’eutanasia di Stato: chi ha più di 75 anni può farne richiesta, anche se sano. Una donna anziana e sola, altruisticamente preoccupata del bene dei giovani, accetta. Ma sarà davvero convinta?  Nel racconto di Fukazawa il dilemma non è “bioetico” né politico né di puro utilitarismo sociale. E’ un dramma insito nell’essere umano, nel significato da attribuire a vita, morte, affetto. Si può scandagliare solo attraverso il mito, il rischio esistenziale, una religiosità senza tempo né codificazione. C’è il senso di sacrificio per la famiglia che guida la fede cosmica di Orin. C’è la pietà filiale di Tatsuhei, la stessa di Enea che porta sulle spalle Anchise. C’è la sopravvivenza. Il fine della vita e la fine della vita non sono soltanto una scelta individuale che si può esaurire in una sentenza.

 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"