Facce dispari

Da Zeman a Pizzul alla ricerca del carisma. Intervista a Giuseppe Sansonna

Francesco Palmieri

Regista e documentarista, due cose lo ispirano più delle altre: la Puglia e i tipi irregolari. "Non trovando il bandolo della matassa alla mia esistenza, mi sento attratto dalle vite labirintiche altrui. Il prossimo lavoro? Una lunga intervista a Pizzul che non racconta solo il suo passato di telecronista, ma tutta un’esistenza"

La galleria dispari di Giuseppe Sansonna s’infoltisce lentamente di volti che più passa il tempo più traspirano umori levigati dall’inattualità. Nato nel ’77, l’anagrafe lo data ad Asti ma è figlio di emigrati pugliesi che si conobbero a Canosa, tornando d’estate sui terrazzi dove non c’era bisogno del dj per ballare. Sansonna frequentò il Dams a Torino poi andò a Roma e fu per circa cinque anni stagista a ‘Fuori Orario’ prima di intraprendere la regia. Due cose lo ispirano più delle altre: la Puglia e i tipi irregolari. Per la Rai ha raccontato diverse città, ma paventando la retorica gira più per le strade laterali che in ztl. Esercita con i suoi personaggi lo stesso sistema e non piacque solo ai tifosi del Foggia il suo documentario su Zeman, scampato alla barocca tentazione di miscelare il calcio con i quartetti di Brahms, i motti dei Blues Brothers e l’esistenzialismo francese secondo il frullato dei narratori narcisofantasisti degli anni Duemila.

Su chi sarà il prossimo documentario?
Su Bruno Pizzul. Uscirà a dicembre. Una lunga intervista che non racconta solo il suo passato di telecronista, ma tutta un’esistenza. Nasce a Udine, figlio di un macellaio, e diventa grazie al calcio un nuovo maestro Manzi per il pubblico televisivo, elargendo una lingua da narratore manzoniano. Era un carisma lessicale che mi colpiva già da bambino e rende impietosa la comparazione con molti attuali telecronisti, sospesi tra il tecnicismo e l’enfasi caricaturale. Ma Pizzul non era il solo: Sandro Ciotti, Luigi Necco, Beppe Viola possedevano un patrimonio per esprimere la complessità del mondo. Erano uomini a più dimensioni, e a loro volta le fiutavano negli altri.

Carmelo Bene, Rodolfo Valentino, il trombettista Michele Lacerenza, Zdenek Zeman allenatore del Foggia dei miracoli, che arriva a lambire la zona Uefa muovendo dagli inferi. Nei suoi docufilm c’è la Puglia in molteplici declinazioni. C’è la vita salentina giovanile di Bene tra preti, messe e manicomio, raccontata da lui stesso in voice over. C’è Castellaneta che celebra il mito del compaesano Rodolfo Valentino, niveo e siderale, con un culto quasi grottesco su cui aveva ricamato Gualtiero Jacopetti in ‘Mondo cane’, inserendo nelle scene di inaugurazione del monumento al divo le facce apocrife che ci aveva portato lui stesso. Lacerenza, poi, è la Puglia delle bande musicali che viaggiavano per paesini sugli “sciaraballi” e da cui lui, figlio d’arte, arriva agli apici della rivista e nel cinema, scelto da Morricone per il famoso assolo in ‘Per un pugno di dollari’ di Sergio Leone.

E ‘Zemanlandia’?
Zeman mi attirava non tanto nella veste di Savonarola antidoping del calcio  italiano, ma in quanto artefice della meravigliosa illusione regalata alla provincia assieme a un uomo diversissimo, il patron del Foggia e “re del grano” Pasquale Casillo. Che dopo tredici anni di calvario giudiziario, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, fu pienamente scagionato ma devastato per sempre. Ebbi l’intuizione di mettere a sedere sullo stesso divano Casillo e Zeman in un dialogo tra opposti: l’uno loquace e strabordante, l’altro laconico però tagliente. L’effetto fu esilarante. E se Zeman ha lanciato molti calciatori, lanciò anche un giovane documentarista come me, dandomi fiducia senza chiedere mai un soldo. Cercava una dimensione pedagogica nel calcio, quel pizzico di sacralità sportiva del tutto mancato alla nostra Nazionale negli ultimi Europei.

Lei è tifoso?
Interista da sempre, ma mi emozionano le cose belle anche se toccano gli altri. Quell’epopea del Foggia o l’ultimo scudetto del Napoli, che ho raccontato in un documentario per la Rai.

Nulla ha a che fare con la Puglia il documentario ‘The Cuban Hamlet’ su Tomas Milian. Una biografia da grande romanzo.
Figlio dell’alta borghesia cubana, il padre generale fedele a Machado che dopo l’avvento di Batista si spara davanti a Tomas dodicenne. Lui va in America per entrare all’Actors Studio, ma Menotti se ne innamora e lo porta a Spoleto. Gli fioccano le proposte di grandi registi, poi passa al cinema popolare dei western, a quello del commissario Giraldi e del “monnezza”, ma dopo trentasette anni, imbolsito, torna negli Stati Uniti e recita a Hollywood suggellando il sogno giovanile.

Lei lo riportò a L’Avana.
Nel 2014. Lo avevo conosciuto l’anno prima a Miami, dove viveva, e dopo una settimana diventammo amici. Tutte le sere sul divano ascoltava la radio cubana, quasi come un rito. La sua era stata una famiglia anticastrista, lui avrebbe avuto grosse difficoltà a rientrare e infine aveva rinunciato. Quando lo convinsi ci mancava dal ’56 e l’emozione di rivedere casa sua dopo tutto quel tempo fu fortissima. Ne ho tratto anche la sceneggiatura di un fumetto che sarà pubblicato l’anno prossimo.

Che gusto danno queste biografie?
Non trovando il bandolo della matassa alla mia esistenza, mi sento attratto dalle vite labirintiche altrui, viaggio sulle loro montagne russe e m’accorgo che al termine di certe curve sinuose o di apparente insensatezza si aprono spiragli di senso che vale la pena cercare tra contrasti e paradossi.

Come evitare la retorica?
Facendo lo sgambetto a se stessi appena si subodora il rischio. Evitando il presepismo e le ovvietà. Tra i modelli, l’intervista di Viola a Gianni Rivera sul tram e quella di Giancarlo Fusco a Sergio Leone. Infine, riguardare i documentari di maestri come  Raffaele Andreassi e Mario Soldati.

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