Harold Lentz “The Pop-Up Pinocchio” New York, 1932 (Molteni Motta/Universal Images Group via Getty Images) 

L'atlante della fantasia ha un solo re: l'immortale Pinocchio. Il viaggio del Burattino nel mondo

Come rendere il Grillo parlante nell'Iran che non conosce grilli? E la Volpe nell'Africa che conosce solo sciacalli? Affascinanti storie editoriali

Maurizio Crippa

L’opera della Treccani che racconta di traduzioni e adattamenti. Perché Collodi parla a tutti, ben oltre le identificazioni nazionali.  Ed è una miniera di simboli e significati per scrittori e poeti

C’era una volta… – Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori”. Eccetera eccetera, l’inizio della storia di Pinocchio – che da sempre divide i critici: è un bonario scherzetto “ai piccoli lettori”, o è uno sberleffo molto più serio, il primo indizio che si tratti di un libro tutt’altro che per bambini, ma per iniziati di opere alchemiche? – la conosciamo tutti. Ma in questo caso no, avete sbagliato ancora una volta: c’era una volta un Atlante. Uno di quei libroni grossi e scritti in piccolo, erudizione e informazioni storiche e critiche a ogni pagina. Ma anche un “atlante” come quelli geografici, quelli con tutte le cartine fisiche e politiche colorate, regione per regione e paese per paese. Insomma uno di quei libroni di grande formato che si usavano a scuola e che ogni famiglia aveva in casa, e che facevano sognare luoghi incantati. Almeno fino all’avvento di Google Maps.

   
In questo caso, l’atlante ricco di illustrazioni e grosso quasi settecento pagine – un abbecedario che il Burattino avrebbe subito venduto per comprarsi un biglietto per la felicità – ha come argomento proprio Pinocchio. E dunque: c’era una volta un Atlante Pinocchio. E se il capolavoro di Carlo Lorenzini detto Collodi portava per titolo “Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino”, questo Atlante racconta un’altra straordinaria avventura, il gran viaggio nel mondo del Burattino: “La diffusione del romanzo di Carlo Collodi nel mondo”.

  
È un tale viaggio, una tale corsa a perdifiato quella del Burattino nato nel 1881 – la prima puntata sul Giornale per i bambini, supplemento del Fanfulla, uscì il 7 luglio 1881 e poi nato una seconda volta in volume (non è forse quella di Pinocchio una storia di nascite e ri-nascite?) per la prima volta nel 1883, dalla Libreria Felice Paggi – che ha raggiunto in pochi decenni tutto il mondo, si è trovato a parlare in tutte le lingue, qualche volta ha cambiato persino nome, s’è travestito da cinese o da africano, ha preso movenze russe o latinoamericane. E ha lasciato ovunque una traccia di sé che è il segno di una particolarità della letteratura italiana nel mondo.
Le avventure di Pinocchio è il libro italiano più tradotto nel mondo, e uno di quelli in assoluto più tradotti.

  
Per rintracciarne i percorsi, per catalogare tutto o quasi tutto di quella avventura globale ante litteram era necessario un lavoro enorme, scientifico, d’equipe. Non ci sarebbe riuscita – da sola – La Fondazione Nazionale Carlo Collodi, non ci sarebbero riusciti i dotti della Biblioteca Collodiana, dove sono raccolti oltre seimila libri collegati alla vita e all’opera di Collodi e una gran quantità di edizioni italiane e straniere. Non sarebbero riusciti, da soli, i professori delle università.

  
Ci voleva un’iniziativa nazionale, promossa e coordinata da una grande istituzione, specialista per antonomasia in grandi opere, dizionari e sommamente l’Enciclopedia. Questo Atlante Pinocchio è il frutto di un grande lavoro collettivo promosso dall’Istituto Treccani, oggi ente “di diritto privato di interesse nazionale” e sostenuto da azionisti: dalla Zecca di stato a Banca d’Italia, da Leonardo a Telecom a Generali, da Intesa Sanpaolo a Unicredit. L’impresa è stata compiuta, “siamo orgogliosi” ha giustamente detto il direttore generale dell’Istituto Enciclopedia italiana, Massimo Bray, per un lavoro (96 saggi) che ha coinvolto 140 studiosi da ogni parte del mondo per catalogare tutte le traduzioni che si è riusciti a censire, dall’Albania al Vietnam, e di ognuna spiegare con rigore filologico le caratteristiche, le varianti, le invenzioni linguistiche. Perché “Pinocchio è un cittadino del mondo e del tempo” come scrive il presidente della Fondazione Nazionale Carlo Collodi, Pier Francesco Bernacchi.

 
“La storia di un burattino”, fu il primissimo titolo. E fu subito anche storia di un viaggio. Giovanni Capecchi, direttore scientifico dell’Atlante, nonché docente presso l’Università per stranieri di Perugia, nel suo saggio introduttivo ci porta subito in una dimensione che è quasi di fiaba, già oltre le strettoie della storia e delle biografie. È la sera del 26 ottobre 1890, quando “dopo una giornata di sereno umore” Carlo Lorenzini si sentì male nella sua casa di Firenze. Scrisse molti anni dopo Alberto Savinio, che Collodi rimase lì “stecchito come un grosso burattino”. Ma Savinio, che prendeva spunto per il suo scritto su Pinocchio dalla notizia (era il 1942) che il romanzo era stato tradotto in afrikaans, e già duecento erano le traduzioni, annotava: “Aveva iniziato il suo cammino verso l’immortalità”.

 
La strada verso l’immortalità il suo personaggio l’aveva intanto già iniziata, racconta Capecchi spigando di “quando Pinocchio cominciò a prendere la rincorsa”.  Ma per ogni grande balzo in avanti (“‘Una, due, tre!’ gridò il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall’altra parte”) bisogna fare qualche passo indietro.
Al momento della morte di Carlo Lorenzini, giornalista e poligrafo di una qualche notorietà, molto meno come romanziere e novellista, escono qua e là ricordi e necrologi. Ma praticamente nessuno ricorda Collodi come l’autore di Pinocchio. Addirittura, c’è chi lo ricorda di più per altre opere per ragazzi, come il Giannettino. Pinocchio è come un clandestino nella pancia del pescecane.  E questo nonostante già quattro edizioni in volume, iniziate subito dopo la fine del racconto a puntate e 25 mila copie del Giornalino vendute, una tiratura da record per l’Italia post unitaria in cui la scuola dell’obbligo era stata introdotta cinque anni prima della nascita di Pinocchio e il paese restava in gran parte analfabeta.

 
Eppure con le sue gambette di legno e il suo vestitino di carta, il Burattino aveva già iniziato a girare per ogni borgo dello Stivale, a diventare amico di un paio di generazioni di bambini (“Carissimo Pinocchio”, canterà nel 1959 Johnny Dorelli trasformando in una hit una canzoncina che invece era finita terz’ultima alla prima edizione dello Zecchino d’oro) e a trasformarsi in un piccolo classico per l’infanzia.  


La prima traduzione straniera fu quella in inglese di Mary Alice Murray, Story of a Puppet or the adventures of Pinocchio, datata 1892. Il “pezzo di legno che piangeva e rideva come un bambino” aveva appena compiuto dieci anni. Nel 1901 ebbe gran successo un’edizione negli Stati Uniti, la Francia seguì nel 1902, la Svezia nel 1904, la Germania nel 1905, nel 1908 il Burattino era già arrivato fino a Pietroburgo e nel 1912 era di ritorno in Spagna. In capo a due decenni era uno dei libri più internazionali nella letteratura per l’infanzia, nel 1907 le tirature delle diverse edizioni italiane avevano raggiunto le 500 mila copie, che diventeranno un milione nel 1921 e 6 milioni nel 1951. Pinocchio correva ormai con le sue gambe, ma che fosse soltanto il personaggio di un romanzo (“una bambinata”, secondo lo stesso Collodi) e chi ne fosse l’autore, era già stato dimenticato.


Ma non è forse questo il vero segreto di tutte le fiabe, parenti non certo povere ma accessibili anche ai bambini del mito, e dunque anche di Pinocchio? “Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa, saltò nella strada e si dette a scappare. E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso, come venti paia di zoccoli da contadini”. Non essere, fin dal primo momento, il personaggio di un libro ma un personaggio vero che se ne va per la sua strada. È l’origine di ogni mito.


Fatto sta che invece, come ricorda Capecchi, il mondo dei letterati ci mise molto di più dei bambini di tutto il mondo ad accorgersi che un capolavoro era nato. Per arrivare alla prima “svolta critica” bisogna aspettare, in Italia, il 1921. Un articolo sul Secolo di Milano del critico Pietro Pancrazi, “Elogio di Pinocchio”, ma già in Francia erano stati pubblicati saggi sulla letteratura italiana per l’infanzia: era nata l’inseparabile coppia oppositiva tra Collodi e il Cuore di De Amicis. Ma mentre Cuore è un manuale narrativo per la scuola e l’educazione italiana, Pinocchio è di tutti e per tutti. Lo scrisse persino Benedetto Croce, e si era nel 1937, quando ancora l’esplosione del successo non era definitiva. Pinocchio “racconta la vita umana, fatta di bene e di male, di errori e ravvedimenti, di tentazioni e capricci ma anche di resistenze e di riprese, di sventatezza e di prudenza: “Il legno, in cui è tagliato Pinocchio, è l’umanità”. Dirà lo stesso il premio Nobel per la letteratura peruviano Mario Vargas Llosa, “uno di quei personaggi fabbricati dalla fantasia che sono riusciti a infrangere le barriere spazio-temporali”. Pinocchio agli occhi di poeti e scrittori inizia a diventare una miniera di simboli e significati che erano da sempre dentro di lui, un “potere genetico” per Italo Calvino, ma che si manifestano a poco a poco, a ogni lettura sempre di più. E questo, è il miracolo, accade in ogni parte del mondo, sotto ogni cielo. Come ha scritto Luigi Malerba: “Pinocchio corre dunque oltre le nostre identificazioni nazionali, il suo genio è polivalente e persino le sue ambiguità e contraddizioni contribuiscono a farne un personaggio destinato a viaggiare nel mondo. Perché ha qualcosa da dire a tutti, sotto tutti i cieli anche i più tempestosi”.


Ed è proprio così. Dalla Persia (la prima traduzione è nel 1955) al Sudamerica, all’Africa all’Asia Pinocchio assume spesso le caratteristiche somatiche e ambientali della sua nuova patria. E la ricca documentazione di illustrazioni e copertine che l’Atlante presenta è la migliore testimonianza. Il che, a ben pensarci, è davvero straordinario per un racconto fatto di cascinali, di carretti e giostrai, di gendarmi e di paesaggi tipicamente toscani e campagnoli. Del resto le migliori trascrizioni italiane per lo schermo, quella televisiva di Luigi Comencini e quella cinematografica di Benigni, accentuano e celebrano la toscanità, e da quel mondo non si discosta anche l’artificio ben speso dell’animazione digitale di Matteo Garrone. Ma il burattino è cittadino del mondo. Anche se la disastrosa trasformazione disneyana in una sorta di cugino tirolese di Heidi ha prodotto un danno globale inenarrabile, lui sa rimanere sé stesso in ogni trasformazione. Del resto, non è rimasto lo stesso bambino anche trasformato in ciuchino, o messo alla catena come un cane da cascina? Persino il Pinocchio di Guillermo del Toro, che si chiama proprio così, Pinocchio di Guillermo del Toro, come il Casanova di Federico Fellini, a segnalare l’autorialità, non ha esaurito le trasformazioni disponibili alla fantasia. Attorno a lui, possono cambiare anche tante altre cose e tanti compagni di viaggio. In Iran, dove nelle grandi città i grilli sono sconosciuti, ma invece pullulano gli scarafaggi, il Grillo parlante diventa appunto scarafaggio. In Cina il Gatto e la Volpe tendono il loro inganno sulla Grande Muraglia, in Africa non conoscono le volpi, ma gli sciacalli sì. 


È affascinante scoprire, nei saggi che analizzano la storia editoriale paese per paese, che del Burattino e della storia cambiano a volte, almeno in parte, anche le psicologie e l’attitudine. Se nell’ex Ddr, in una cospicua serie di edizioni, la supervisione pedagogica si è sempre mantenuta fedele alla forma del racconto, ma come anestetizzandone la carica anarchica, a Ovest negli anni Ottanta ha avuto grande impatto la vera e propria riscrittura, Il nuovo Pinocchio, della celebre scrittrice austriaca Christine Nöstlinger, che ha attualizzato le sfide educative del burattino ribelle.


Un capitolo a parte merita l’avventura corsa di Pinocchio in Russia, ai tempi di Stalin. Protagonista di un grande successo fu la “reinvenzione”, con elementi di fedeltà e molta invenzione, operata da un celebre e raffinato scrittore, Aleksej Nikolaevic Tolstoj, che chiamò il suo personaggio “Buratino”. Negli anni del realismo socialista, Buratino diventa un allegro capobanda, un combattente onesto e idealista per il bene, insomma un perfetto personaggio positivo capace di incarnare, nel gioco e nella fiaba, i valori del socialismo. Nelle traduzioni ucraine, invece, e per i bambini ucraini, negli stessi anni, Pinocchio è un simbolo di libertà contro i soprusi. 
Il lavoro realizzato dall’Istituto Treccani è davvero enorme, e destinato a riempire un vuoto informativo, e a essere una base per gli studiosi del futuro. Non è certo un libro per il grande pubblico, ma uno strumento di lavoro, di consultazione e di conservazione di informazioni. In 96 capitoli, con l’acribia che si richiede a opere di questo tipo, si parla paese per paese della diffusione del romanzo, si tenta un non sempre possibile censimento delle edizioni, si mettono a confronto le tipologie delle traduzioni. Si analizzano i problemi posti dagli zoonimi, – come rendere Gatto e Volpe in un mondo che non ne ha dimestichezza? Come rendere certi giochi di parole che erano evidenti a bambini italiani dell’Ottocento (e oggi chissà), oppure i toponimi della fantasia – come il Paese del Barbagianni e il Paese dei Balocchi – di cosa si ingozzeranno il Gatto e la Volpe all’osteria, quali cibi sono paragonabili con un’abbuffata in Somalia o in Perù? Allo stesso tempo Pinocchio rimane un libro per ragazzi, di cui gli adulti non smetteranno mai di indagare le simbologie nascoste – alchemiche, massoniche, cattoliche o semplicemente “infernali” – ma che resta pieno di fascino perché interpreta come nessun altro prima aveva fatto l’animo infantile. A disposizione, come diceva Gianni Rodari, di “ragazzi che si sono liberati della loro divisa da scolari”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"