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Letture

Wodehouse torna in libreria: umorismo chic contro la bruttezza dell'estate italiana

Alberto Mattioli

"Alla buon’ora, Jeeves!" dello scrittore inglese ritorna sugli scaffali grazie a Sellerio. Come in passato, anche oggi i suoi romanzi offrono un antidoto elegante e raffinato contro la scarsità di opere valide nel periodo estivo. C'è da imparare

C’è sempre bisogno di P. G. Wodehouse, questo benefattore dell’umanità che per lei si è accollato la missione più fondamentale e difficile: divertirla. Benissimo, quindi, che una casa editrice chic come Sellerio abbia deciso di ristamparlo, iniziando da Alla buon’ora, Jeeves! con la traduzione e l’introduzione di Beatrice Masini (assai buone entrambe). Di Wodehouse, com’è noto, non ne avremo mai abbastanza: questo Right ho, Jeeves! è poi uno dei titoli migliori della saga infinita di Bertie Wooster e del suo impagabile maggiordomo. Chi non ride pazzamente alla scena della consegna dei premi alla scuola media di Market Snodsbury, in un’atmosfera “intrisa di un misto di Giovane Inghilterra e di manzo bollito con carote” da parte di Augustus Fink-Nottle detto “Gussie”, allevatore di tritoni normalmente astemio e in questa circostanza invece completamente sbronzo, non può che essere un uomo malvagio o, appunto, un tritone. In un’estate torrida è più rinfrescante Wodehouse dell’aria condizionata a mille: e inquina certamente di meno.
 

E tuttavia, se “Plum” Wodehouse è sempre stato utile, mai come adesso è indispensabile. Nell’evo della Volgarità, in questa poco gaia apocalisse fatta di gente che ciabatta in infradito, turisti in canotta, influencer che straparlano su TikTok e poi si scazzottano al bar, Briatori che elogiano Trump, Salvini che concionano sudati, insomma nella grande bruttezza dell’estate italiana, il Sommo ci ricorda la virtù dell’eleganza. E non solo, come si potrebbe pensare, per i modi forbiti che i suoi giovin signori decerebrati mantengono anche nelle situazioni più inverosimili, e per la flemma cattedratica dei loro servitori-salvatori (e qui, ennesimo colpo di genio: il sottoposto, Jeeves, parla in maniera molto più colta e precisa del padrone Bertie. Esattamente come Figaro e il Conte d’Almaviva secondo l’abate Da Ponte, ma Jeeves è meglio perché non ha alcuna velleità rivoluzionaria). Alla nostra sgangherata vita pubblica farebbe benissimo un corso veloce di buone maniere dell’età edoardiana, e pazienza se, com’è stato più volte notato, il mondo di Wodehouse non è in realtà mai esistito, è un’Arcadia fittizia e atemporale, una “merry old England” molto verde, molto educata, molto irreale. Proprio come quella raccontata dai gialli campagnoli della Christie, soltanto con il delitto, peraltro “sterilizzato” anche lui, al posto dei pasticci sentimental-mondani dello sventato Bertie.
 

No. La vera grandezza di Wodehouse è in primo luogo stilistica. Non conta “cosa” viene raccontato, che poi sono complicatissimi ingranaggi di fidanzati che litigano, zie prepotenti, scambi di persona, sempre diversi ma alla fine sempre uguali, happy end compreso. Conta il “come”, cioè questa scrittura precisa, tornita, “fredda”, mai un aggettivo di troppo, perfino nei nonsense più esilaranti. E infatti Wodehouse, pur nell’alluvionale produzione, quasi cento romanzi per tacere dei racconti, dei musical, delle canzoni e via scrivendo, era precisissimo e pignolissimo, capace di arrabbiarsi per un punto esclamativo sbadatamente collocato dove ne sarebbe bastato uno semplice. Finito di leggere e di ridere, rifletteteci. Questi romanzetti non sono solo intrattenimento, ma possono diventare una lezione di vita, o almeno di stile. Misura, eleganza, humour, ironia, compostezza, sprezzatura, un retrogusto di insospettata tenerezza e perfino una certa qual stoica accettazione del mondo come va: c’è tutto quello che manca alla nostra sgangherata contemporaneità. E l’estate sbracata, in senso proprio e figurato, diventa immediatamente più tollerabile.

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