Roosevelt e Churchill - foto via Getty Images

Lo statista moderno /4

Winston Churchill e i grandi alla resa dei conti

Carlo Nordio

Il primo ministro inglese confidava che l’Impero britannico non avrebbe mai perso la guerra, ma sapeva che senza l’aiuto americano non l’avrebbe mai vinta. Intuì subito le mire sull’Europa di Stalin, a differenza del miope Roosevelt

Il prossimo 30 novembre saranno 150 anni dalla nascita di Winston Churchill, primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia e appassionato di Churchill, di scrivere quattro puntate sulla storia dell’ex primo ministro inglese per il Foglio. La prima puntata, “Churchill eroe di guerra”, è uscita mercoledì 3 luglio. La seconda, “Winston il leone indomito”, il 10 luglio. La terza, “L’ora più bella a Downing St.”, il 17 luglio.
 



"The finest hour", l’ora più bella, arrivò dal cielo. Hitler progettava di invadere la Gran Bretagna: un’impresa riuscita a Cesare e a Guglielmo il Conquistatore, ma fallita da Filippo II e da Napoleone. La Manica era di per sé stessa un ostacolo formidabile, per via delle correnti e delle improvvise tempeste, e il presidio della Royal Navy sembrava rassicurante. Ma era una sicurezza precaria, perché i primi scontri in Norvegia avevano già dimostrato – e ancor di più lo avrebbero fatto in seguito – che anche le corazzate più solide erano vulnerabili agli attacchi aerei. Ora, decollando dalla vicina Francia occupata, gli Me-109 e gli Stukas tedeschi avrebbero potuto spazzar via l’orgoglio della marina britannica. Tutto quindi, come disse Churchill, dipendeva dall’aviazione. I velivoli, secondo le sue stesse parole, si equivalevano nelle prestazioni, anche se per caratteristiche diverse: quelli tedeschi erano più veloci e avevano una maggiore velocità ascensionale, quelli inglesi erano più maneggevoli e meglio armati. Ma il rapporto numerico era di due a uno a favore della Luftwaffe. Quanto ai piloti, entrambi erano il meglio del meglio al mondo.
 

Tuttavia Churchill aveva alcuni vantaggi: il primo era di combattere in casa propria, con maggiore autonomia, minori rifornimenti, e soprattutto con il recupero dei piloti salvatisi con il paracadute. Il secondo era una rete radar, provvidenzialmente fatta costruire da Hugh Dowding, il responsabile del comando caccia. Questo consentiva con un buon anticipo l’avvistamento delle squadriglie ostili. L’ulteriore originalità era stata la concentrazione delle informazioni nel centro di Stanmore, da dove venivamo impartiti ordini ai vari gruppi secondo le zone di competenza. Il sistema funzionò: i tedeschi trovarono sempre una resistenza accanita, con un rapporto perdite doppio a favore degli inglesi. Presto l’impulso propulsivo della Luftwaffe si affievolì, mentre Hitler commetteva un errore fatale. Per rappresaglia contro un bombardamento di Londra – frutto peraltro di une errore di un equipaggio – i Lancaster inglesi bombardarono Berlino. Furibondo, il dittatore decise di radere al suolo la capitale britannica. Questo sviamento di obiettivi concesse a Dowding di riparare i propri aeroporti, ormai quasi inagibili dopo settimane di attacchi. Londra, che Churchill definì come “un mostro preistorico nella cui corazza possono essere lanciate molte frecce”,  sopportò stoicamente questa brutale aggressione. Il 15 settembre Goering giocò il tutto per tutto, mandando in missione i resti della sua flotta. La Royal Air Force fece altrettanto,e alla fine della giornata aveva abbattuto un’ottantina di aerei nemici. Goring, indispettito, chiese ai suoi piloti superstiti  di cosa avessero bisogno. Adolf Galland, l’asso degli assi, gli rispose: “Di uno Spitfire, signore”. Il panciuto ed eroinomane gerarca se ne andò deluso  e Hitler ritirò le centinaia di chiatte che aveva radunato a Boulogne in vista dell’invasione. Churchill glorificò l’impresa con una delle sue uscite più celebri: “Mai nella storia dei conflitti umani, tanto fu dovuto da tanti a così pochi”. Fu l’apice della sua oratoria.
 

Mentre infuriava la battaglia per la sopravvivenza, Churchill tuttavia pensava alla riscossa. Per prima cosa si liberò della flotta francese, che rischiava di finire nelle mani di Hitler. Dopo una intimazione puramente formale, l’ammiraglio Somerville fece aprire il fuoco contro le corazzate francesi a Mers el Kebir: i morti furono più di un migliaio, e le relazioni tra i due ex alleati toccarono il punto più basso. Ma De Gaulle, che già si era autoproclamato rappresentante del governo in esilio, approvò (o comunque non condannò) il gesto, e la supremazia navale nel Mediterraneo rimase prerogativa della Royal Navy. C’era, è vero, la nostra flotta, anche più potente di quella britannica, ma era scarsa di iniziativa, di protezione aerea e di nafta. Nella notte del 10 novembre 1940 una squadra di vecchi biplani decollati dalla portaerei Illustrious affondò metà delle nostre navi ancorate a Taranto, e intimidì le rimanenti costringendole a restare prudentemente nei porti. Quando uscirono, come sarebbe accaduto a Gaudo e Matapan, sarebbero state ancora una volta strapazzate dagli inglesi. Fu, come disse l’ammiraglio Iachino, il tramonto di una grande marina. Qualcuno insinuò il tradimento. In realtà i britannici, a Bletchley Park, intercettavano tutti i messaggi tedeschi, quindi anche i nostri.
 

Non pago di tante iniziative, Churchill convocò il responsabile dell’Economia, sir Hugh Dalton, per affidargli un incarico che con quel settore aveva ben poco a che fare: costituire il Soe, lo Special operation executive, con il compito di “set Europe ablaze” mettere il continente a ferro e a fuoco, spedendo dietro le linee nemiche spie e sabotatori. Il Soe si rivelò tanto geniale quanto spietato verso sé stesso e il nemico. Furono mandate anche quaranta donne, tredici di queste furono catturate, torturate e uccise dalla Gestapo. Il Soe operò anche in Italia, rifornendo i partigiani di armi e assicurando i collegamenti con gli alleati. L’ultima eroina vivente si chiama Paola Del Din e io ho avuto l’onore di assistere al suo compleanno di centenaria. È decorata di medaglia d’oro, che i partigiani comunisti volevano toglierle qualche anno fa perché non era dei loro. Per fortuna questa vergogna fu evitata.
 

Il 1940 finì con Londra sotto le bombe, mentre  l’indomito primo ministro fremeva per qualche rivincita. La ebbe nel nord Africa, dove Wavell distrusse l’armata di Graziani catturando oltre centomila prigionieri, e in Abissinia, dove il nostro effimero impero fu liquidato in pochi mesi. Nel 1941 Hitler spedì Rommel a risollevare in Libia le sorti dell’Asse, e la Volpe del deserto diventò una leggenda. Nel frattempo, in Atlantico, la nuovisima Bismarck, ritenuta inaffondabile, dopo aver fatto saltare in aria lo Hood fu a sua volta presa di mira dai biplani della Ark Royal e da una massiccia concentrazione di corazzate che circondarono, e finirono, la belva ferita. Ma queste erano scaramucce. La vera svolta avvenne il 21 giugno, quando tre gruppi di armate con i soliti Von Leeb, Von Bock e Von Rundstedt invasero l’Unione sovietica. Stalin avrebbe dovuto immaginarselo,  se solo avesse letto, come Churchill, il “Mein Kampf”. Ma il sanguinario bolscevico rifornì di materie prime il suo compagno di merende fino all’ultimo giorno, con il plauso dei comunisti europei. Solo quando i nazisti dilagarono oltre il confine della Polonia occupata dall’Armata Rossa, Stalin comprese il suo errore e per qualche giorno sparì, paranoico e depresso. Poi si riprese e indirizzò ai compatrioti un discorso quasi incredibile: non più “compagni”, ma “fratelli”, non più “Unione sovietica”, ma “Santa madre Russia”, e via così.
 

Toccò il cuore di quei sudditi che a lungo aveva umiliato, affamato e in parte sterminato, e li chiamò a raccolta in difesa delle tradizioni della Patria eterna. Il metodo funzionò e i comunisti francesi, con la consueta acquiescenza supina, iniziarono la resistenza armata, confidando nelle rappresaglie degli occupanti, e nell’odio che ne sarebbe derivato. I nazisti caddero nella trappola, e la Francia, ben prima dell’Italia, subì le crudeli rappresaglie della Gestapo. Nonostante questi appelli patriottici, la Wehrmacht sfondò facilmente le linee, catturando due milioni di uomini privi di strategia e di comando, visto che Stalin aveva fatto fucilare la gran parte dei suoi generali. I nazisti furono accolti come liberatori nelle repubbliche baltiche e in Ucraina,  ma la loro insipienza fu pari alla loro crudeltà: cominciarono i massacri, i pogrom e gli arresti arbitrari. Dietro alle divisioni dell’esercito  stavano  le Ss e gli Einsatzkommando, bande di assassini professionisti che massacravano ebrei, commissari politici e sospetti partigiani. A Babij Jar furono sterminati in due giorni trentatremila innocenti, comprese donne e bambini. Stalin, disperato, chiese aiuto a Churchill, che lo concesse volentieri. Era un gesto necessitato dalle regole della guerra, e quando chiesero al vecchio leone anticomunista perché soccorresse il suo ex nemico, rispose: “Se Hitler invadesse l’inferno, spenderei ai Comuni una buona parola nei confronti del diavolo”. Così l’Oceano artico si riempì di convogli inglesi diretti a Murmansk, per aiutare il traballante alleato.
 

Nel frattempo Churchill coltivava i rapporti con Roosevelt. Confidava che l’Impero britannico non avrebbe mai perso la guerra, ma sapeva che senza l’aiuto  americano non l’avrebbe mai vinta. Il presidente era tendenzialmente d’accordo, ma aveva le mani legate dall’isolazionismo del Congresso e della maggioranza del suo popolo. La questione fu risolta dai giapponesi, che il 7 dicembre 1941 attaccarono  Pearl Harbor, distruggendo l’intera flotta americana, escluse le portaerei opportunamente assenti. La Germania seguì l’alleato giapponese e dichiarò guerra agli Stati Uniti. Churchill convinse Roosevelt che prima del Mikado bisognava sconfiggere Hitler, e così nel novembre del 1942 le prime truppe yankee sbarcarono in nord Africa, proprio quando Montgomery sconfiggeva Rommel a El Alamein. Fu la prima grande vittoria inglese, che Churchill coronò con l’ennesima geniale battuta “It is not the end. It is not the beginning of the end. But it is the end of the beginning”. In effetti, se prima non vi erano che sconfitte, poi vi sarebbero state solo vittorie.
 

Dopo una salutare lezione di umiltà a Kasserine, gli americani, con il supporto britannico, fecero piazza pulita in Africa, catturando oltre duecentomila prigionieri. Ma la vittoria tattica fece emergere le differenze strategiche. Roosevelt, e il suo stato maggiore, avevano incaricato Eisenhower di “distruggere l’esercito tedesco”. Il comandante supremo decise che, da un punto di vista militare, la via più ovvia era l’invasione dal nord della Francia. Churchill, ragionando da politico, aveva già intuito le mire espansionistiche di Stalin, e patrocinava un attacco dal “ventre molle dell’Europa”, cioè dai Balcani o dalle coste del Veneto, per arrivare fino a Vienna e Budapest, tagliando fuori i tedeschi ma fermando i sovietici. Militarmente era una follia, che rischiava di replicare Gallipoli, vista la distanza dalle basi di partenza, la limitatezza della copertura aerea e le asperità dei terreni. Ma politicamente Churchill era arrivato dove Roosevelt peccava di miopia. "Di una cosa sono sicuro – disse il presidente ormai malato – Stalin non ha mire imperialistiche". Finita la guerra, il satrapo del Cremlino si sarebbe mangiato l’intera Europa dell’est, con il vergognoso plauso dei suoi valletti occidentali, Togliatti compreso. Una delle ironie della storia è che questo asservimento spregevole sia oggi dimenticato.
 

Gli incontri bilaterali e trilaterali tra i leader degli Alleati si intensificarono: a Casablanca, a Teheran fino a Yalta. Churchill dovette subire se non l’umiliazione, certo la verifica della subalternità. In guerra contano solo i rapporti di forza, e sul campo e sugli oceani ormai dominavano russi e americani. Ma il vecchio leone non si arrendeva. Una volta accettata, con riluttanza, la strategia di Eisenhower, Churchill si dedicò anima e corpo allo sbarco in Normandia, e qui ancora una volta manifestò il suo genio leonardesco. Patrocinò le innovazioni più fantasiose, dai condotti sottomarini che rifornivano le truppe di carburante, ai carri armati muniti di flagelli per sminare il terreno. Ma la sua idea più brillate fu la costruzione di un porto artificiale davanti alle spiagge normanne, sprovviste di moli sufficienti allo sbarco di truppe e materiali. Si inventò dei cassoni di cemento trasportabili, che avrebbero costituito una Dover in miniatura ad Arromanches e a Omaha beach. Il progetto fu realizzato a tempo di record, e consentì il successo delle prime fasi dell’operazione. Alcuni di questi giganteschi parallelepipedi sono ancora lì.
 

Quando, il 6 giugno 1944, gli Alleati sbarcarono in Normandia, gli inglesi mantenevano ancora la supremazia marittima. Due terzi delle cinquemila imbarcazioni impiegate battevano infatti una bandiera dell’Impero. Anche tre spiagge su cinque furono occupate da anglo-canadesi, contro le due appannaggio degli americani. Churchill voleva assistere da vicino alla più grande operazione bellica della storia: fu dissuaso dal re, che minacciò di affiancarlo nella pericolosa avventura. Pochi giorni dopo, consolidata la testa di ponte, Montgomery accolse con riluttanza la presenza del primo ministro. Il resto è noto. Dopo una furiosa resistenza nel “bocage” normanno, il fronte cedette, e George Patton galoppò in trenta giorni da Avranches fino ai confini del Reich. Ormai il campo era dominato dagli americani e la disfatta di Arnhem non aiutò la strategia inglese. Nel dicembre del ‘44 Hitler, con l’eterno Von Rundstedt, ormai comandante solo nominale, sferrò nelle Ardenne il suo ultimo colpo di coda. Le truppe di Eisenhower resistettero bene, l’offensiva fu respinta, e i britannici vi ebbero un ruolo marginale. Poco dopo, i “Tre Grandi” si trovarono a Yalta, e questo ruolo subalterno apparve in tutta la sua malinconica evidenza.
 

Stalin aveva organizzato tutto con l’astuzia e la diavoleria di un brigante levantino. Il suo obiettivo era di separare Roosevelt, ormai defedato nel corpo e nello spirito, dal suo ingombrante alleato inglese. Purtroppo entrambi avevano un altro obiettivo comune: indebolire, o dissolvere, l’Impero britannico. Ma mentre l’americano agiva (anche) per un ideale principio di autodeterminazione, lo spietato georgiano mirava solo a un’egemonia politica, ideologica e militare. Stalin provò persino a far ubriacare Churchill, brindando ripetutamente a vodka, che nei suoi bicchieri veniva sostituita con acqua. Impresa impossibile, perché Winston era esercitato nell’alcol più dell’intera corte bolscevica. Ma Roosevelt, moribondo, cedette da solo, e così i due nuovi padroni del mondo si divisero l’Europa, a cominciare dalla Polonia, che Churchill aveva tanto strenuamente difeso. Ma il peggio dove ancora venire. Tre mesi dopo gli Alleati vinsero la guerra, e Churchill perse le elezioni.

Winston Churchill, lo statista moderno. Di Carlo Nordio

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