Le truppe italiane entrano nella capitale dell'Etiopia Addis Ababa - foto via Getty Images

L'analisi

È inutile ridurre il colonialismo a fenomeno sostanzialmente criminale

Giovanni Belardelli

La nuova storiografia assume sempre più spesso il punto di vista delle vittime. Se alla luce dei propri princìpi morali non può che essere così, si tratta tuttavia di un approccio che rischia di limitare la ricostruzione del passato. Ecco perché
 

Montanelli, partito volontario nel 1935, fu per qualche mese in servizio come sottotenente in Etiopia, al comando di un battaglione di ascari. Ma possiamo annoverarlo per questo tra le “figure compromesse con il colonialismo”? Eppure è quello che si legge in un recente libro (Valeria Deplano-Alessandro Pes, Storia del colonialismo italiano, Carocci), rappresentativo di tendenze storiografiche che si stanno affermando, non solo in Italia, con gruppi di ricerca, convegni, libri, allestimenti di mostre (a Londra, nei mesi scorsi, ce n’è stata una sugli Entangled Pasts, i passati intrecciati, che si presentava come un ribaltamento della prospettiva coloniale nell’arte). Siamo dunque di fronte a un crescente numero di studi – significativo che gli ultimi tre fascicoli di una rivista del Mulino, “Memoria e ricerca”, siano dedicati precisamente a questi temi – che mettono al centro il colonialismo. Lo fanno però non soltanto al fine di integrare o correggere il vecchio racconto storiografico – che dava poco risalto alle violenze compiute ai danni delle popolazioni indigene, alla loro storia e alla loro cultura – ma anche con una malcelata finalità polemica, di denuncia del carattere intrinsecamente criminale del colonialismo. Ha senso? C’è da dubitarne.
 

Il punto non è che certi crimini non vi siano stati e che dunque non debbano essere fatti conoscere dagli storici. Nel caso dell’Italia, ad esempio, molti ancora ignorano le feroci rappresaglie compiute dai militari italiani in Etiopia dopo l’attentato al generale Graziani del 1937; o anche, qualche anno prima, le deportazioni di massa in Cirenaica, che andavano attuate – scriveva l’allora governatore Pietro Badoglio – “anche se dovesse perire tutta la popolazione”. Fanno dunque bene Deplano e Pes nel loro libro a dare adeguato spazio a questi episodi, e in generale alla vicenda coloniale dal punto di vista delle popolazioni indigene. Ma trattare il colonialismo come un fenomeno sostanzialmente criminale non serve a farci meglio conoscere il passato. Per almeno due ragioni.
 

In primo luogo per l’errore di anacronismo che così si compie. Deplano e Pes insistono ad esempio sul razzismo della classe dirigente liberale, e sui processi di “razzializzazione” a esso collegati, cioè sull’attribuzione di uno status inferiore ai popoli che si volevano colonizzare, così da giustificare la conquista ma anche da confermare la propria identità di popolo superiore. Ma quegli uomini avevano la loro cultura, non la nostra; fossimo vissuti 150 anni fa, tutti noi avremmo probabilmente considerato normale un sentimento di superiorità nei confronti di altre “razze”.
 

C’è poi un’altra questione, meno evidente forse ma molto rilevante. La nuova storiografia – e in generale tutto il mainstream “decoloniale” – assumono il punto di vista delle vittime. Se alla luce dei propri princìpi morali non può che essere così, per quel che riguarda la ricostruzione del passato questo porta fuori strada poiché lo storico deve cercare di comprendere le motivazioni di tutti gli attori. Quelle dei colonizzatori non sono riconducibili soltanto a interessi economici, politica di potenza, presunzione d’essere portatori di civiltà. Nel condurre alla conquista dell’Etiopia furono certamente decisivi i progetti e le decisioni di Mussolini; ma a determinare l’ampio consenso che quella guerra riscosse nel paese fu soprattutto il sentimento di fascinazione per l’Africa quale terra misteriosa, esotica, ancora in parte sconosciuta, che troviamo espresso da tanti contemporanei. Ad esempio da Dino Buzzati, che in una delle sue tante corrispondenze dall’Etiopia osservò: “L’Africa nuovamente apriva dinanzi a me le sue porte favolose, autorizzandomi a credere ancora nella verosimiglianza dei sogni”. Ed era una convinzione radicata: ancora negli anni ’70 avrebbe paragonato la sua esperienza africana a un “western favoloso”. Posizioni come queste vanno comprese, non denunciate, se vogliamo capire fino in fondo cos’è stata la storia del colonialismo.

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