Letture

La costante e insopprimibile ricerca di senso nella poetica di Jon Fosse

Riccardo Canaletti

La raccolta antologica del Nobel per la letteratura: la sua poesia si interroga sulla trascendenza e la connessione tra vita e altrove e morte

"Così sai che esiste / l’incomprensibile”, “allora al contrario siamo presenti / nelle belle oscurità della pioggia / nella luce nera della pioggia”. Jon Fosse ha nell’orecchio Dio, quello di Niccolò Cusano, che esiste nel mistero, oltre la coltre di nebbia, in questa caligo, nebula, tenebra seu ignorantia, dove il senso si conquista per via negativa. Cusano, filosofo della prospettiva, è anche l’epistemologo della conoscenza congetturale, mentre Fosse ne diventa il poeta. Nella raccolta antologica delle sue poesie, Ascolterò gli angeli arrivare (Crocetti, 2024), i riferimenti espliciti sono altri, Derrida su tutti, come viene segnalato nella prefazione.
 

Ma questa incomunicabilità che sopravvive anche nelle intercapedini del quotidiano (“l’eterno silenzio del cane”, “il treno nel cuore è lungo / come il vento, lungo / come un albero nero”), questo andare per tentativi, sembra risalire ad antenati ben più illustri, a partire dal teologo del cucchiaio di legno, dell’artigiano ignorante che la sa più lunga dello scolastico. È, anzi, essenziale individuare in questa teologia negativa e umana la radice della poesia di Fosse, proprio perché è grazie a essa che il poeta non si trasforma in mistico o aforista, ma resta fermo all’interno di una realtà che vede sfilacciata e che, tuttavia, avverte in tensione, e lo spinge a cercare la visione di insieme. Ciò che è incomprensibile, in Fosse, non è infatti essenzialmente incomunicabile. Non c’è, a differenza di altri scrittori sedotti dalla “grammatologie” derridiana, uno sforzo fine a se stesso di risultare oscuri e, per estensione, inutili. Al contrario, in Fosse i versi, come nei suoi racconti e nelle sue opere teatrali, testimoniano la costante ricerca del senso e non l’abbandono a se stessi, a un universo impossibile da spiegare. Aiuta citare anche il suo ultimo lavoro in prosa, da poco pubblicato da La Nave di Teseo, Un bagliore, in cui un uomo si perde sapendo di perdersi in una radura, in un bosco, e ora cerca un bagliore.
 

È ancora una volta Cusano, il baluginio divino oltre il muro del principio di non contraddizione. Vale la pena di identificare Fosse con i suoi fiordi, con le asperità e la chiusura dell’orizzonte di qualche insenatura, l’obbligo di guardare in alto, che è un altro modo di affrontare la profondità, scalandola. Ne vale la pena perché è lì la poetica di Fosse, semplice e chiara, dove la domanda è una ed è chiedersi il senso della trascendenza, sia essa declinata nella religione o nel significato della morte, cioè nel giro perpetuo tra vita e altrove, solo apparentemente spezzato ma ogni volta ricomposto da qualsiasi tentativo di discorso: “nient’altro / basta andare e forse vedere / che tutto è come la separazione / tra oceano e cielo // (e la tua voce / che prova a dire qualcosa)”.

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