La scuola di Atene - foto via Getty Images

Estate metafisica

La forza selvaggia dell'essere

Simone Regazzoni

Dopo le innumerevoli svolte linguistiche in filosofia, è ora di tornare al cuore pulsante della natura. Prima di ogni logos, un pensiero carnale. Sulla via di Platone e Derrida, Dioniso e la fisica quantistica

Simone Regazzoni ha insegnato presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Pavia. Attualmente è docente presso l’Irpa (Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata) di Milano e collabora con la Scuola Holden di Torino. Ha scritto tre romanzi. Prosegue con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi, il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone, il 16 luglio “Via la polvere dalla filosofia” di Rocco Ronchi.
 



Ogni epoca ha la sua metafisica, anche quando non usa o critica questa antica parola greca che si incontra, per la prima volta, in Nicola di Damasco – storico e filosofo vissuto durante l’età di Augusto – ed indica le opere di Aristotele di “filosofia prima” che, nelle antiche liste bibliografiche, venivano dopo quelle di fisica. Ogni epoca, in questo senso, è un’epoca storico-metafisica. Perché in ogni epoca domina una certa interpretazione dell’essere inteso non come una parola vuota, e neppure come una cosa, ma come la dimensione originaria a partire da cui si apre il tutto: tutte le cose, tutti gli enti, tutti i viventi che sono.
 

Se la filosofia oggi ha ancora un senso, al di là della sua riduzione a piccola sociologia apocalittica, essa non può mancare di radicarsi nella dimensione di questa apertura originaria e di interrogarla. Ciò non significa evitare di pensare la concretezza del proprio tempo per perdersi in vuote astrazioni. Pensare l’essere è quanto di più concreto e reale vi sia, perché si tocca in questo modo il cuore del tutto: non semplicemente la totalità delle cose, ma ciò che le fa essere e ne determina l’articolazione. Per questo uno tra i più importanti filosofi italiani viventi, Roberto Esposito, nelle prime pagine del suo Pensiero istituente. Tre paradigmi di ontologia politica (Einaudi), ha potuto sostenere, a ragione, che c’è un legame essenziale tra “essere e politica”, e che il diverso rango delle filosofie politiche, antiche e moderne, si misura sulla consapevolezza che i filosofi hanno di tale implicazione.
 

È chiaro tuttavia come oggi, dopo Nietzsche, Heidegger, Merleau-Ponty, Derrida, continuare a usare il vecchio nome di “metafisica” per indicare il movimento di pensiero che interroga non semplicemente ciò che c’è, ma l’apertura che rende possibile il tutto, è improprio. Per quanto mi riguarda preferisco parlare di “ontologia”, pur con tutti i limiti che questo termine, che indica il “pensiero dell’essere”, può avere. Per una precisa ragione filosofica: oggi il pensiero di questa apertura, che non abbia nostalgia di un fondamento forte del tutto, si muove necessariamente in uno scenario di ripensamento radicale dell’essere o di una sua decostruzione al di là di tutte le determinazioni dell’essere come idea, sostanza, fondamento, Dio, ecc. con cui la metafisica si è identificata nelle varie epoche della sua storia. Con un’efficace formula di Merleau-Ponty possiamo dire: “La metafisica è un’ontologia ingenua, è una sublimazione dell’Essente” perché riduce l’essere a un qualche cosa di identico a sé, di presente, di stabile.
 

Si potrebbe obiettare che il compito di indagare l’essere spetti in realtà oggi alla fisica, e non più alla filosofia; ma si dimenticherebbe così che, nel momento in cui ci si immerge al cuore della realtà, le stesse nozioni di “cosa” e di “essere cosa di una cosa” vengono investite da una sollecitazione inaudita, e la fisica teorica ha vitale bisogno di dialogare con la filosofia per forgiare nuove categorie concettuali in grado di dare senso alle nuove scoperte. Per questo Carlo Rovelli in Helgoland (Adelphi), che ricostruisce con grande maestria la teoria dei quanti mostrando come ci obblighi ad abbandonare “l’idea di un mondo fatto di cose”, scrive: “Nei miei tentativi di trovare un senso ai quanti, mi sono aggirato fra i testi di filosofi alla ricerca di una base concettuale per comprendere la strana immagine del mondo offerta da questa incredibile teoria”. Non a caso Rovelli nel suo libro cita proprio una famosa e illuminante definizione di essere data da Platone nel Sofista – “l’essere è forza (dynamis)” – per poi aggiungere: “In una frase Platone aveva già detto tutto”.
 

Ma che ne è oggi dell’essere? La nostra epoca che ormai volge al termine è stata segnata da un privilegio del soggetto e del linguaggio umano come condizioni di possibilità di apertura del mondo, del darsi delle cose. L’epoca della metafisica del soggetto è stata, nella sua ultima fase, l’epoca della metafisica del linguaggio in cui essere e linguaggio si sono saldati in una sutura storica. In molti campi si è detto che l’essere è linguaggio, sottintendendo “linguaggio umano”. Il grande limite di un filosofo come Martin Heidegger è stato quello di aver privilegiato il linguaggio dei viventi umani come “casa dell’essere”. Senza linguaggio umano non si apre il mondo, per Heidegger, non si costituisce la realtà, quindi tutto ciò che “è” è in virtù del linguaggio come dimensione originaria in cui si dona l’essere delle cose, lasciandole apparire mentre si sottrae. Più in generale, l’epoca della metafisica del linguaggio è stata l’epoca della domesticazione dell’essere, assoggettato al potere linguistico del vivente umano. Le ultime propaggini di questa interpretazione dell’essere hanno portato a dire che l’intera nostra soggettività, compresa la sua dimensione corporea e biologica, naturale, è linguaggio: da qui l’idea di una sessualità come effetto di atti linguistici teorizzata da Judith Butler. In questo senso Judith Butler, con il suo tentativo di domesticazione linguistica del corpo e della sessualità, è forse l’ultima e più radicale esponente del logocentrismo antropocentrico.
 

I limiti di quest’epoca erano già stati individuati da Jacques Derrida alla fine degli anni Sessanta quando, nelle prime pagine di Della grammatologia (Jaca Book), scriveva: “Comunque si pensi a questo proposito, il problema del linguaggio certamente non è mai stato un problema fra gli altri. Mai però quanto oggi esso aveva invaso come tale l’orizzonte mondiale dei più diversi tipi di ricerca e dei discorsi più eterogenei nella loro intenzione, nel loro metodo, nella loro ideologia. Ne dà testimonianza la stessa svalutazione della parola ‘linguaggio’, tutto ciò che, nel credito che gli si fa, denuncia la viltà del vocabolario, la tentazione di sedurre a poche spese, l’abbandono passivo alla moda, la coscienza d’avanguardia cioè l’ignoranza. […] Questa crisi è anche un sintomo. Essa indica quasi suo malgrado che un’epoca storico-metafisica deve infine determinare come linguaggio la totalità del suo orizzonte problematico”.
 

Questa idea tutta linguistica e antropocentrica del mondo ha mostrato i segni della sua crisi con l’emergere di un’alterità che non si contrappone semplicemente all’uomo e al linguaggio, ma li comprende come un proprio momento e aspetto: la natura, la natura al di là di qualsiasi opposizione tra natura e cultura, la natura come essere non addomesticabile. La grande attenzione per tematiche ecologiche e per il pensiero dei viventi non umani ha fatto sorgere l’interesse per un “fuori” al di là del linguaggio umano con cui oggi si tratta di misurarsi. È interessante rilevare come i primi passi verso questo fuori siano stati fatti nell’ambito di un’antropologia che si è spostata oltre l’umano, con la precisa consapevolezza filosofica di dover mettere in discussione un vecchio paradigma metafisico. È il caso dell’importante lavoro di Eduardo Kohn, Come pensano le foreste (nottetempo) che si presenta apertamente con l’intento filosofico di mettere in discussione “quell’insieme di conoscenze che formano la base della metafisica occidentale” e che hanno portato a un “cataclisma ecologico di portata planetaria”.
 

Ora, questo tipo di interrogazione che si muove dichiaratamente a livello di ontologia è orientata verso il fuori, al di là del linguaggio umano; con le parole di Kohn: “Che genere di mondo si trova là fuori, oltre il simbolico?”. La risposta di Kohn, in consonanza con quella di altri antropologi e filosofi contemporanei, è che il fuori è un tutto vivente che pensa e comunica, un tutto animato. E’ una proposta che presenta aspetti interessanti, ma anche un grosso limite: in questo modo si rischia di non andare davvero fino in fondo nel pensiero del fuori, di inglobare ancora una volta il fuori nel dentro di un logos, di un pensiero che comprende in sé il tutto senza resto e cede al panpsichismo. Si tratta piuttosto con Schelling di “pensare” una natura primordiale, barbara, selvaggia, non coestensiva al pensiero.
 

Un’ontologia “della” natura non può misurarsi solo con la dimensione dei segni, anche se questo orizzonte eccede i limiti del logos dei viventi umani, ma deve toccare la dimensione pulsionale dell’essere refrattaria a ogni segno e al pensiero: una dimensione opaca, primordiale, selvaggia, “stoffa fondamentale di ogni vita e di ogni esistente, qualcosa di spaventoso, un principio barbaro che si può superare, ma mai accantonare”, per usare le parole di Schelling.
 

Per fare questo non sono sufficienti il pensiero come riflessione su o rappresentazione di: occorre mettere in gioco la nostra corporeità come momento primo di apertura all’essere, dimensione originaria e dinamica del nostro sentire e pensare incarnato. Ecco un elemento centrale oggi per un’ontologia che deve fare tesoro dell’ontologia della carne di Merleau-Ponty: il pensiero attraverso il corpo, un pensiero incarnato non della natura che ci starebbe di fronte come oggetto di interrogazione, bensì un pensiero immerso nella natura stessa che, ripiegandosi su di sé, differenziandosi in sé da sé, si percepisce e pensa senza tuttavia essere già pensiero e senza mai esaurirsi nel pensiero perché in origine il suo essere è forza, forza che si differenzia in un campo di forze.
 

Il corpo diventa così l’elemento necessario di un’ontologia che non può semplicemente rappresentare la natura nella sua dimensione selvaggia, ma deve esperirne le forze con l’azione, il movimento, la creazione come crescita attraverso una “unione di forze” per citare l’illuminante idea dell’antropologo Tim Ingold sviluppata in Making (Cortina). Per questo non si potrà semplicemente parlare di “ontologia della natura” bensì di “ontologia con la natura” o ontologia selvaggia che altrove (La palestra di Platone e Oceano, Ponte alle Grazie) ho chiamato filosofia carnale. Questa filosofia o ontologia sente, opera, pensa, agisce, crea attraverso il corpo immerso nella forza differenziale dell’essere come natura.
 

È qualcosa che Derrida aveva colto, senza tuttavia trarne tutte le conclusioni: la questione di una “forza differenziale” come articolazione del tutto, come physis (natura) travagliata dalla differenza a cui nulla si sottrae. In uno dei primi saggi pubblicati, Forza e significazione del 1963, poi posto in apertura della raccolta La scrittura e la differenza (Einaudi), Derrida scrive: “La differenza non fa semplicemente parte né della storia né della struttura. Se con Schelling è necessario dire che ‘tutto non è che Dioniso’, è anche necessario sapere […] che come la forza pura, Dioniso è travagliato dalla differenza”. È un tema che attraversa tutto il pensiero di Derrida e che diventa centrale nell’ultimo seminario tenuto presso l’EHESS di Parigi tra l’autunno e la primavera 2002-2003.
 

Si trattava della prosecuzione del seminario su La bestia e il sovrano cominciato nell’anno accademico 2001-2002. Frequentai, come l’anno precedente, il seminario di Derrida a Parigi. E ricordo ancora la sorpresa di molti di fronte a un tema all’apparenza difficile da decifrare e da collocare nella mappa del pensiero derridiano: il tema della forza. In molti restarono spaesati di fronte all’evocazione della forza in un seminario che procedeva commentando in parallelo Robinson Crusoe di Defoe e I concetti fondamentali della metafisica di Heidegger. la forza evocata da Derrida non era semplicemente un altro modo per esprimere il concetto teologico-politico di “sovranità”, bensì il tentativo, da parte di Derrida, di pensare una dimensione archi-originaria che apre il tutto seguendo le tracce della riflessione heideggeriana sulla nozione di physis, di natura. Nel quaderno in cui conservo gli appunti del seminario, alla data 29 gennaio, c’è una formula che ho sottolineato. Derrida parla di una “forza archi-originaria, di un potere, di una violenza, prima di qualsiasi determinazione fisica, psichica, teologica, politica, direi anche ontica o ontologica”, come si può leggere anche nella versione stabilita per la pubblicazione.
 

Ho sempre pensato, e penso ancora, che questo sia uno dei lasciti più importanti di Derrida, per una filosofia che abbia ancora l’ambizione di misurarsi con la questione dell’essere; un lascito da ereditare, come sarebbe piaciuto a Derrida, in modo libero, autonomo, e sufficientemente infedele perché questa forza possa generare qualcosa di nuovo, di altro, di totalmente inaudito.

L'Estate Metafisica del Foglio

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