facce dispari

Oleg Caetani, l'amarcord di un direttore d'orchestra

Francesco Palmieri

Figlio di Igor Markevitch, originario di Kyiv poi naturalizzato italiano, è uno dei più grandi direttori del nostro paese. "La guerra in Ucraina? Putin ha commesso un errore pazzesco. Ma è un'idiozia aver proibito a Gergiev di dirigere in Occidente"

Nato in una famiglia dalle sfaccettature multicolori come un cubo di Rubik da ricomporre, Oleg Caetani intuì presto quale fosse per lui la soluzione del rompicapo. Sarebbe diventato direttore d’orchestra sfidando i rischi che tormentano coi paragoni i figli d’arte. Ma lo avrebbe fatto con il cognome della madre, donna Topazia: più per evitare l’estinzione di un insigne casato senza eredi che per distanziarsi dal padre Igor Markevitch, originario di Kyiv poi naturalizzato italiano, genero in prime nozze del leggendario ballerino Nijinsky, ucraino ma di prima lingua francese, quella che anche Oleg apprese da subito.

Nacque a Losanna nel ’56, studiò in Francia, in Italia e nell’allora Unione Sovietica dove imparò il russo. Nutre profondo amore per Firenze ma risiede da molti anni a Genova. In quarant’anni di carriera ha diretto a Milano e Melbourne, a Tokyo, Londra e per il Papa, dal repertorio sinfonico a quello operistico; ha lavorato con grandi solisti e realizzato incisioni tra cui l’unico ciclo completo delle sinfonie di Shostakovich registrato in Italia; ama la filosofia di Montaigne. Tra novembre e dicembre tornerà in Cina per un ciclo di concerti e una master class a Shanghai.

Chi fu il suo primo maestro?

Mio padre, ma all’inizio esitai a studiare con lui. Quando era direttore stabile della Filarmonica di Montecarlo tenne un corso e chiesi di partecipare. Per osservare meglio gli allievi sedeva tra il primo flauto e il primo oboe. Al mio turno di dirigere l’ouverture dell’Egmont ero concentratissimo, ma a un certo punto lo intercettai con lo sguardo e sorrideva, cosa rarissima. Poi andammo a pranzo con mia madre e le mie sorelle e annunciò: ‘Devo darvi una buona notizia. Oleg è un direttore nato e sarà più completo di me, perché io non ho diretto l’opera e lui lo farà”. Fu un giorno fantastico, ma la frase fu accolta con scetticismo.

Perché?

Un amico di famiglia, il pianista Nikita Magalov, aveva convinto mamma che fossi negato per la musica. All’epoca mio padre abitava a Saint-Cézaire, vicino a Grasse, e quando andavo a trovarlo gli piaceva passeggiare. Poi si sedeva su un sasso e diceva: “Dirigimi il primo tempo dell’Eroica”. Andavo a memoria e ogni tanto m’interrompeva: “Qui hai dimenticato di dare l’attacco al secondo flauto… qui hai dato il fortissimo a tutti una battuta prima…”. Proseguii gli studi a Santa Cecilia con Irma Ravinale, severissima allieva di Petrassi, e con Franco Ferrara.

Il geniale maestro che sveniva sul podio.

Uomo adorabile, straordinario virtuoso del violino e non solo. Una volta sostituì un insegnante di piano e suonò lo Studio in sol bemolle maggiore di Chopin in modo meraviglioso. Era diventato direttore per caso, come mio padre, che era compositore. Nato da padre ucraino e madre russa, allo scoppio della Seconda guerra mondiale restò bloccato a Firenze, dove lavorava a una cantata su testo di Lorenzo il Magnifico. Poi arrivarono gli angloamericani e lo convinsero a dirigere il primo concerto con l’orchestra del Maggio, perché i maestri antifascisti erano all’estero e quelli fascisti non li volevano. Da lì cominciò la sua carriera e andò alla Royal Opera House. A Firenze viveva con Vaslav, figlio avuto con Kyra Nijinsky, morto a gennaio scorso.

Musicista anche lui?

Pittore, ma con la fisicità del ramo materno: sciava e nuotava benissimo e malgrado il nome aveva una spiccata calata fiorentina. Mio padre stava con lui in una pensioncina finché un giorno fece amicizia in un Caffè con lo storico dell’arte Bernard Berenson, che gli mise a disposizione un villino a Fiesole.

Per lei è stato fondamentale il soggiorno in Unione Sovietica. Perché ci andò?

Richiamo delle origini. Fui due anni a Mosca da Kirill Kondrashin e scoprii un repertorio che non conoscevo, studiai musicologia e poi mi diplomai con il grande Ilya Musin a San Pietroburgo che ancora si chiamava Leningrado. Si diceva che Musin potesse fare persino di una sedia un direttore d’orchestra, insuperabile per gesto e morbidezza.

Come vive la guerra in Ucraina chi ha le sue origini?

Putin ha commesso un errore pazzesco: le guerre non si fanno più con le armi. Mio padre auspicava l’indipendenza dell’Ucraina e con Gorbaciov la ottenne, ma purtroppo non prevedo un lieto fine. Il Paese rischia di sparire tra la Russia e la Polonia. Peccato per il suo passato straordinario: mi commuove pensare a Gogol’, che dall’Ucraina va a San Pietroburgo e Puskin gli schiude le porte del successo.

Di questa guerra ha fatto spese anche la musica.

Ritengo una idiozia avere proibito a Gergiev di dirigere in Occidente. Non era mai successo un fatto simile.

È felice di tornare in Cina?

Felicissimo. Sono decenni che lavoro in Giappone, Cina, Taiwan e sono convinto che il futuro della nostra musica classica sia lì. Rispetto a quarant’anni fa i giapponesi sono molto cambiati, ho scoperto un popolo con un senso dell’umorismo stupendo. È cambiata anche la Cina, con un’attività orchestrale enorme. Mi trovavo a Shenzhen mentre si celebrava l’anniversario della rivoluzione e sul canale tv in inglese chiedevano a un tizio: “Siete comunisti ma siete ricchi?”. Risposta: “Né Marx né Lenin hanno mai detto che i comunisti debbano essere poveri”.

Perché Caetani e non Markevitch?

Ci sono diversi Markevitch, tra cui i figli di Vaslav, mentre i Caetani sarebbero spariti. Però Vittorio Emanuele III, pessimo sovrano, una cosa positiva la stabilì: se l’ultimo discendente di un casato è una donna, può dare al figlio maschio i titoli e il cognome.

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