In “Beethoven” di Lionello Balestrieri, Giuseppe Vannicola al violino esegue la “Sonata a Kreutzer” 

Biografie dispari

Enciclopedia di uomini molto illustri ma quasi sconosciuti

Francesco Palmieri

Rivetta pensò a un fiocco sui portoni dei neonati, l’ipnotista Gabrielli coniò il motto “a me gli occhi!”. Il successo di queste idee abolì gli ideatori. L’abate del Bel Paese, il mago che doveva ipnotizzare D’Annunzio, il direttore che Karajan considerava il migliore. Vite in un bizzarro rapporto con la volubilità del destino

Trovati nel tempo senza cercarli, gli eterogenei personaggi di queste pagine sono accomunati dal bizzarro rapporto con la volubilità del destino. Alcuni furono notissimi e repentinamente dimenticati, altri conquistarono il ricordo per ragioni estranee alle loro ambizioni: un napoletano creduto ungherese, un geologo emblema di un formaggio, un musicista perché stava in un quadro. Qualcuno di loro poteva rivendicare il copyright di un motto celebre o di una popolare abitudine, invece proprio il successo dell’idea ne abolì l’ideatore. Uomini sfuggiti alle gustose gallerie compilate da Geminello Alvi (che un po’ a loro somiglia), sembrano epigoni delle Vite immaginarie di Schwob o della Sinagoga degli iconoclasti di Wilcock. Quasi un genere letterario con così tanti candidati che il numero chiuso della dozzina elencata ne ha lasciati fuori parecchi, come gli sconsolati cittadini romani quando pretendono di rinnovare la carta d’identità. S’adegua, anche questa esclusione, alle loro biografie dispari o sparigliate dalla morte.

 
Non rispondono, le schede che leggete, all’iniquità dell’ordine alfabetico né alla pilatesca neutralità della cronologia, quanto a una logica di contiguità sentimentali che è forse in fin dei conti più imparziale. 

  
Antonio Stoppani

Abate di Lecco, tra i padri della geologia contemporanea, fu tra i personaggi più noti dell’Italia postunitaria, che desiderò più unita attraverso la conoscenza delle bellezze naturali e le escursioni fuori città. Scrisse perciò Il Bel Paese, libro popolare quanto o più di Cuore, di cui nel 1876 precedette di dieci anni l’uscita. L’abate teneva lezioni sulle meraviglie della Penisola come oggi fa con la storia Alessandro Barbero, però coi toni gravi dello zio addottorato più che con quelli del cugino sovreccitato dalla propria bravura. Si spense nel 1891 ma la sua fama gli sopravvisse diversi anni, perché nel 1906 il cavalier Egidio Galbani chiamò Bel Paese un formaggio che doveva competere con i prodotti francesi e tuttora è in commercio (intanto i francesi si sono presi Galbani). Sulla confezione, con la cartina d’Italia, apparve il serafico viso dell’abate che col passare del tempo ha suscitato in salumerie e supermercati il temperato interesse di sapere chi fosse.

 
Oltre che un formaggio e i ricordi accademici, la sua figura ispirò con qualche ironia nel 1907 Luigi Bertelli, alias Vamba, per Il giornalino di Gian Burrasca, non a caso battezzato all’anagrafe Giannino Stoppani. Per i più anziani di noi avrà sempre la faccia e la voce di Rita Pavone (con musica di Nino Rota, che trasse da Mozart la canzoncina Viva la pappa col pomodoro).

 

Pietro Silvio Rivetta alias Toddi
Se ancora interessa sapere, in pieno inverno demografico, chi inventò l’uso del fiocco ai portoni dei neonati, diciamo che fu Pietro Silvio Rivetta conte di Solonghello. Lanciò l’idea in un articolo nel 1927 e il successo fu tale che sovrastò l’autore. Se si dovesse stampare su un biglietto da visita chi fu Rivetta, scegliendo una definizione sola si peccherebbe di troppe omissioni. Nato a Roma da lombi astigiani, si segnala molto giovane come nipponista: a ventiquattro anni, nel 1910, insegna giapponese al Regio Istituto Orientale di Napoli e resta in cattedra un lustro. Da chi avesse imparato la lingua rimase un mistero, ma produsse studi specialistici e una rispettabile grammatica. E’ certo che nel ‘10 si era laureato in Giurisprudenza, però il titolo non gli servì perché aveva spiegato le ali da poliglotta: il curriculum lo accreditava anche conoscitore di francese, inglese, tedesco, greco, svedese, danese, norvegese e in grado di tradurre da romeno, russo, portoghese e olandese. Pubblicò libri sulle lingue, un testo divulgativo di matematica e s’avventurò nel teatro con l’atto unico Io non sono io rappresentato da Petrolini. La peculiarità era il finale a sorpresa patteggiato col pubblico.

 
L’infiorescenza biografica si arricchisce con l’aggiunta di Toddi, pseudonimo che utilizzò da narratore, disegnatore e umorista. Diresse il settimanale Il Travaso delle idee e più tardi il mensile Yamato, laboratorio culturale dell’idillio Roma-Tokyo. Dopo la guerra, messo da parte dalla intellighenzia per il passato fascista, elaborò uno yoga mediterraneo fondando la S. B. I., Scuola del Benessere Integrale, con lezioni nella sua casa ai Parioli. Tra le ultime fatiche il ponderoso trattato Geometria della realtà e inesistenza della morte, che egli stesso a quanto pare smentì lasciando questo mondo il primo luglio del ‘52. Esercitava ancora un carisma sull’opinione pubblica se l’anno prima, durante una epidemia influenzale, suggerì di fronteggiarla respirando sette volte a pieni polmoni dinanzi a una finestra aperta e “mezza Roma gli credette”, sottolineò l’obituary su La Stampa. Per rimanere in tema, in un racconto visionario del 1929 Toddi immaginò il futuro successo della Euthanasia Co Ltd, che avrebbe messo in commercio “un semplice apparecchio” per consentire “a qualunque ammalato di morire senza sofferenze, non solo, ma quasi con un senso di godimento”. Frattanto in America sarebbe stata varata una legge puritana che vietava “ai cittadini degli Stati Uniti di guardare il mondo a occhio nudo”, obbligandoli a vedere la realtà con occhiali regolamentati.

  

Valerio Pignatelli (principe del Sacro Romano Impero)
L’alacrità compunta con cui molti si sbarazzano dei libri ereditati, raccolti in una vita di passioni, fisime e letture professionali, concede al flâneur scoperte minime sulla bancarella, luogo da cui si giudica, diceva Bobi Bazlen, l’editoria di un paese. Giorni fa si vendevano a due euro cadauno, con copertina rigida e sovraccoperta in stile Domenica del Corriere, i romanzi Danican-Bey e G.M. 44 usciti per Sonzogno rispettivamente nel 1934 e 1941 (costavano 4,50 lire l’uno e 5 l’altro). Autore: Ppe (che sta per principe) V. Pignatelli. La prima immagine che di lui rimanda internet è tuttavia quella di un austero ufficiale con la croce di ferro tedesca. Fu più romanzesca la sua vita che i suoi romanzi. Partecipò al conflitto italo-turco, fu capitano degli arditi nella Grande guerra e combattente tra i “bianchi” contro i bolscevichi, come il leggendario barone von Ungern. Diventò quindi imperatore in Messico per dieci giorni (la fonte, per i legittimi scettici, è lo storico Giuseppe Parlato), ma rimasto vedovo fuggì negli Stati Uniti dove si risposò. Sempre avido di adrenalina, divorziò dalla signora, tornò in Italia e aderì al fascismo litigando però con il ras di Cremona, Roberto Farinacci. Regolarono la faccenda a duello. Non mancò, da volontario, il conflitto di Etiopia e quello in Spagna per un totale di cinque medaglie. Tra una guerra e l’altra continuò a pubblicare volumi. Nel ‘42 prese la terza moglie, Maria Elia, intellettuale chic, ma il duce lo sottrasse ai salotti l’anno seguente per metterlo a capo di una struttura segreta che doveva sabotare l’invasione dell’Italia, sicché alla caduta del fascismo operò clandestinamente contro gli Alleati. Le vicende qui s’ingarbugliano, perché principe e consorte cominciarono ad avere rapporti anche con i servizi angloamericani nel Meridione. Lei viaggiò fino a Salò per incontrare Mussolini, passando le linee grazie all’Office of Strategic Service. Al termine della guerra la coppia finì in carcere, ma presto godette dell’amnistia. Il principe fu tra i fondatori del Movimento sociale italiano dove replicò i litigi che gli avevano travagliato i rapporti con il Pnf. Morì nel suo letto a Sellia Marina nel 1965. La morale biografica è forse in una frase sfilata da un suo libro: “Finii in ogni modo per cavarmela”.

 

Giuseppe Vannicola
Marchigiano, talento precoce, primo violino alla Scala, dismise il promettente avvenire per un’artrite e un temperamento scapigliato incline all’autodistruzione. Fu attratto dalla vita eremitica quanto da quella dissipata e la seconda prevalse. Tra i suoi scritti il più noto – esagerando – è il fosco poemetto De profundis clamavi ad te. Tradusse Oscar Wilde, abusò di diverse sostanze, fu popolare nel fiorentino Caffè Giubbe Rosse e consumò la bohème con un pittore, Lionello Balestrieri, al quale ispirò il quadro più famoso: Beethoven, esposto al Museo Revoltella di Trieste e che l’artista replicò in formati ridotti a grande richiesta. La tela raffigura Vannicola al violino che esegue la Sonata a Kreutzer dinanzi ai compagni della scabra soffitta parigina dove avevano vissuto.

 
Stanco degli amici e stancatili tutti, Vannicola s’addormentò per sempre, a trentanove anni, in un giorno d’agosto del 1915 su un assolato muretto nei pressi del cimitero di Capri. Chi lo conosceva disse una prece per il dandy, gli altri la recitarono per un barbone.

  

Mario Giobbe
I ciranisti d’Italia devono sempiterna gratitudine a chi rese nella nostra lingua il capolavoro di Rostand facendolo, si dice, più bello dell’originale. La traduzione del Cirano di Bergerac firmata da Giobbe nel 1898 resiste ancora nella Bur. Roberto Bracco lo definì “un ometto”, un “solitario napoletano”, ma non per sminuirlo. Giobbe fu davvero uno scricciolo però capace di incantare Matilde Serao che gli implorava appuntamenti romantici nella sua carrozza, dove la mole vantaggiosa della signora dovette sgomentarlo. La sua rovina fu Ermete Zacconi, che gli commissionò la traduzione dell’Edipo re di Sofocle e del Sardanapalo di Byron, ma alle fatiche non seguirono i compensi promessi. Giobbe s’ammalò di nervi e venne tormentato con continui bagni caldi in una clinica. Tornato a casa, si sentì oppresso dalla vigilanza della moglie e della sorella. Un pomeriggio che erano distratte si buttò dalla finestra. Bracco arrivò prima che lo portassero via e gli ravviò i capelli che da quando era malato non aveva più tagliato e nascondevano la testa rotta. “E malgrado il terrore d’imputridire al suolo, / vuol che nella caduta sia la grazia d’un volo!”. Come Cirano.

  

Vittorio Monti
Con il gulash, Orbán e la puszta, la ciarda è tra le cose che si sanno dell’Ungheria quando se ne ignora tutto. Senonché la più famosa delle ciarde, che ciascuno avrà ascoltato con diletto o fastidio secondo le virtù del violinista, fu opera di chi in terra magiara non mise mai piede: il napoletano Monti, che nacque nel giorno dell’Epifania 1868 e morì nella sua città il 20 giugno 1922. Diplomato in violino e composizione, col senno di poi avrebbe potuto scrivere quel solo brano perché è l’unico che lo ha consegnato ai posteri pur negandogli la popolarità: per i più resterà sempre creazione di qualche impronunciabile artista zigano. Eppure il meglio di sé Monti lo spese in Francia, con la nutrita pattuglia di musicisti italiani che al pari dei pittori furono sedotti dalla Ville Lumière tra i due secoli. Più appassionato al mandolino che al violino, direttore di un apprezzato ensemble, si esibì e diresse un memorabile concerto a plettro alla Salle Berlioz il 30 aprile 1910. Nel programma, ovviamente, la ciarda. 

 
Firmò un metodo per mandolino, articoli per il giornale musicale Le Médiator e s’ingraziò i consensi d’Oltralpe con l’opera pantomima Noël de Pierrot.

  

Mario Maciocchi alias contessa Olga Delys
Romano de Roma con il senso degli affari, subì anch’egli il richiamo di Parigi. Vi fondò a fine 1905 il quindicinale musicale L’Estudiantina – dove firmava con lo pseudonimo M. de Rome – e l’anno dopo varò un concorso internazionale a Monaco che vedeva in giuria gente del calibro di Massenet e Saint-Saëns. La prima edizione incoronò il cesenate Ugo Pizzi per Le Roman de Pierrot (la lacrimosa maschera era in gran voga). Forse per accattivarsi il pubblico, Maciocchi licenziò alcuni tanghi, valzer e mazurke con l’ambiguo nom de plume di contessa Olga Delys. Le orchestre a plettro eseguono ancora il valse brillante intitolato a Les Grisettes, giovani parigine che pencolavano tra romanticismo bohémien e libero mercimonio, tra la soffitta di Mimì e i cantoni di Montmartre. Nel 1921 un concerto di Maciocchi alle Arènes de Lutèce contò 300 orchestrali e settemila paganti. Oggi quasi dimenticato in patria, il suo ricordo (e della contessa Delys) perdura in Giappone, dove ne eseguono sovente il repertorio.

 
Spiccano tra gli altri emigrati in Francia che acquisirono fama il mandolinista napoletano Eduardo Mezzacapo, animatore di un quartetto famigliare (il Quatuor Mezzacapo) e il catanese Salvatore Leonardi, il quale insegnò anche in Egitto e a Malta e di cui resistono al tempo Souvenir de Sicile, Souvenir de Naples e un Angeli e Demoni oggi più evocatore del romanzo di Dan Brown che di lui.

  

Franco Ferrara
Si narra che una sera Herbert von Karajan s’innervosì, perché prima di dirigere un concerto lo informarono della presenza di Ferrara in platea. Si racconta pure, ed è vero, che quando Ferrara soffrì un ictus Leonard Bernstein gli spedì un’enorme somma per finanziare le cure. La spiegazione è semplice: lo reputavano il più bravo tra tutti i direttori d’orchestra. Se ciò non fu noto anche ai comuni mortali è per colpa di un inesorabile disturbo che afflisse il maestro. Dopo un fulgido avvio di carriera, incensato dai recensori e corteggiato dai direttori artistici d’Italia e d’Europa, Ferrara divenne vittima di sempre più frequenti crolli nervosi. Lo coglievano solo sul podio. All’acme di una esecuzione s’irrigidiva e perdeva i sensi. I professori di viola, seduti più vicini, si tenevano pronti ad afferrarlo per evitare che cadendo si ferisse poiché non poteva aggrapparsi al leggìo: dirigeva senza partitura grazie alla portentosa memoria. Avendo consultato decine di luminari e passato decine di esami, risultò chiaro che il “fattaccio”, come lo chiamava lui, non dipendeva da cause organiche ma da insondabili radici emotive refrattarie alle terapie. 

 
La lucidità che manteneva durante i mancamenti gli acuiva la vergogna. Si congedò dalla conduzione sinfonica nel 1948, mentre con l’orchestra Rai eseguiva La Giara di Casella. Prima di cadere, esasperato, fermò la musica e disse: “Signori, non arrivederci, addio: è finita per me. Niente più concerti”. Poté dedicarsi solo alla registrazione di colonne sonore e all’insegnamento: i suoi corsi all’Accademia Chigiana furono seguiti nell’arco di diciotto anni da cinquecento partecipanti, secondo un calcolo della biografa Silvia Tosi. Tra gli allievi Roberto Abbado, Oleg Caetani, Riccardo Chailly, Riccardo Muti, Giuseppe Sinopoli. Perciò Ferrara, nato a Palermo il 4 luglio 1911, violinista prodigio a undici anni, fu chiamato “il maestro dei maestri”. Perfezionista e collerico sul podio, nella quotidianità amava i fumetti, raccontare barzellette e le partite a carte. Il suo intelletto musicale non fu mai intellettuale. Secondo Chailly la causa del male è che inseguì l’arte “in sfere di perfezione impossibile”. Ferrara stesso non seppe spiegarselo e confidò: “Anche cinque minuti soli prima di morire vorrei riuscire a capire cos’è successo”. Chissà se accadde tra le 5,15 e le 5,20 del 7 settembre 1985, quando spirò all’ospedale fiorentino di Santa Maria Nuova per un infarto che lo aveva colpito di notte.

 

Cesare Gabrielli
Tra le due guerre assurse a tale rinomanza da ispirare Gabriele D’Annunzio, Eduardo De Filippo, Thomas Mann e Vittorio De Sica. Riportarono contrastanti impressioni del “professore” di Pontedera, che riempì per decenni i teatri con esperimenti di ipnosi misti a numeri di prestidigitazione. Se è vero quel che riferisce Silvan ne La nuova Arte Magica, persino il capo del governo Giovanni Giolitti ne domandò i servigi per ipnotizzare il Vate e forzarlo a mollare l’impresa fiumana. Gabrielli non solo non ci provò, ma aderì alla causa di D’Annunzio che lo insignì per gratitudine di una medaglia e un soprannome, l’Artefice magico, di cui Eduardo si servì perfidamente per un atto unico che metteva alla berlina un prestigiatore maldestro.

 
Breve di statura, ossuto, sbilenco dopo un incidente di palcoscenico che gli aveva rovinato la schiena, Gabrielli riusciva a imporsi sul pubblico per i modi imperiosi, per la voce che qualcuno definì da falso baritono e grazie a un frustino con cui schioccava i comandi alle cavie scelte in sala. La sua popolarità fu vasta come i guadagni e sfumarono assieme. Negli ultimi tempi si esibiva per piccoli gruppi in cambio di una bottiglia di rhum e cento sigarette, che consumava tutte nella serata. Morì nel 1943 e una ventina d’anni dopo Dino Buzzati viaggiò a Pontedera per il Corriere della Sera cercando tracce del “vecchio fantasma” e una risposta alla domanda: “Dopo così breve tempo i suoi sguardi magnetici sono svaniti nel nulla del nulla?”. Parlò con un paio di testimoni, poi capì che in paese l’epopea della Piaggio aveva abolito quelle di ipnotizzatori e maghi quali “remote assurde fanfaluche”. Se ne spiacque e considerò che il mistero è una “bellissima cosa senza della quale la nostra vita sarebbe un totale schifo”.

 
Di Gabrielli sono comunque rimaste indelebili quattro parole. Coniò il motto “A me gli occhi!”, poi patrimonio di tutti al pari dei modi di dire e di certe massime evangeliche.

 

Giuseppe Palomba
Ordinario di economia politica all’università di Napoli, fu autore di densi trattati di cui uno recensito in termini entusiastici dal più convinto stroncatore di ogni modernità, René Guénon. Integrò le teorie di Pareto e le equazioni matematiche con cabala, alchimia, taoismo e l’islam sufi al quale si convertì per tornare, successivamente, alla fede cattolica. Fu massone e forse adepto di fratellanze di ispirazione egiziana, venerato da alcuni studenti e da altri ritenuto un eccentrico. “Cos’è il Graal?” era la prima domanda che spesso poneva agli esami. Nella Morfologia economica ora quasi introvabile auspicò l’assorbimento dell’homo oeconomicus nell’homo ecumenicus, bollando come “incivile tendenza” il pan-economismo contemporaneo. Il suo più devoto discepolo fu Ferdinando Ventriglia, futuro deus ex machina del mondo bancario, che si rivelò meno incline del maestro alla mistica. Nella sua biografia, Ventriglia ricordò di avere visto un giorno il professore in ateneo, verso le 20.15, confabulare fittamente con un tracagnotto commesso del Banco di Napoli. Quando questi frettolosamente s’allontanò, Palomba gli confidò trattarsi di uno fra i massimi iniziati della Rosacroce che aveva un appuntamento in Tibet alle 21. Ovviamente in corpo astrale, mentre il suo involucro fisico avrebbe atteso a letto vigilato da due cani per evitare che spiriti vaganti lo possedessero in assenza.

 
Il professore abitava nel quartiere elegante di Monte di Dio, in un appartamento tappezzato di icone. Qualche frequentatore giurò di averlo visto, contemporaneamente, riposare in camera da letto e camminare in corridoio ed ebbe paura di tornare nella casa.

 
Nato a San Nicola la Strada in provincia di Caserta il 9 maggio 1908, fu allievo di Corbino, Barbagallo e Niceforo e si perfezionò alla London School of Economics. Parte dei suoi libri fu donata alla biblioteca del paese, che dunque porta il nome di Palomba. Morì il 30 gennaio 1986, giorno in cui Phenomena di Dario Argento risultava primo film italiano per incassi e la Madonna di Medjugorje rilasciava il seguente messaggio: “Cari figli, non permettete che Satana si impadronisca dei vostri cuori, così da diventare la sua immagine anziché la mia”. Coincidenze che il professore avrebbe interpretato meno banalmente di noi.

 

Ermanno Bronzini
Combatté la seconda battaglia della vita per difendere i giardini zoologici dalla prima ondata di animalisti, che con la furia tipica delle avanguardie ne avrebbero voluto la totale e subitanea soppressione. Direttore dello zoo di Roma, il più antico d’Italia esclusi i capricciosi serragli dei sovrani preunitari, Bronzini spiegò come l’istituzione fosse “un centro di attività naturalistiche che alla funzione istruttiva ed educativa unisce un significato più profondo di istituto culturale e scientifico che di solito sfugge al grande pubblico”. “Per amare e rispettare un altro essere”, osservò, “è indispensabile prima conoscerlo”, argomento cui potevano inchinarsi i fanatici di allora non essendo ancora onniscienti grazie all’uso dei social.

 
La prima battaglia della sua vita, dagli esiti ben più cruenti, Bronzini l’aveva combattuta dall’8 al 24 settembre 1943 con il grado di capitano nella divisione Acqui, sterminata dai tedeschi sull’isola di Cefalonia. Fu tra i 37 ufficiali miracolosamente scampati alla fucilazione di massa, una tragedia su cui si è scritto tanto senza capire tutto, che ispirò pure un romanzo e un omonimo film nel 2001, Il mandolino del capitano Corelli. Chissà se Bronzini lo vide e quanto si riconobbe nel personaggio interpretato da Nicolas Cage. Nato a La Spezia nel 1914, morì nel 2004 lasciando in un cassetto il diario di quei giorni infernali, che sarebbe stato pubblicato nel 2019.
Le foto sul web lo ritraggono pacioso con un giovane elefante e con un sussiegoso uccello becco a scarpa fuggito dal recinto. Sul suo scrittoio spiccavano il berretto della Acqui e la fotografia di Giorgio, lo scimpanzé cui Bronzini serbò affetto anche dopo il pensionamento, tornando spesso allo zoo per offrirgli il caffè.

 

Giorgio Matteucig
Mosso da Ferecide di Siro maestro di Pitagora, e da altri sapienti antichi, approfondì la relazione tra eventi naturali e previsioni sismiche. Concentrò le indagini sulla possibilità di premonire i terremoti osservando i comportamenti animali, perché aveva notato alcune stranezze fra i serpenti friulani negli anni 1974/76, con una migrazione della fauna ofidica nelle Valli del Natisone che aveva sbigottito i contadini. Professore di Zoologia all’università di Napoli, membro dell’Accademia Pontaniana, dopo il terremoto irpino del 1980 estese le ricerche alle condotte di varie specie, istituendo nello zoo partenopeo una stazione sperimentale denominata Before Day. I suoi studi stimolarono interesse nella comunità scientifica e fu invitato a riferirne in California e in Cina Popolare. Imponente come sono certi friulani, il volto paffuto da Buddha felice, infondeva fiducia in uomini e animali. Una tigre di Sumatra del giardino zoologico di nome Alfonsina lo riempiva di feste, cingendo con le zampe il professore che non ne aveva paura. Ora Matteucig trascorre la vecchiaia come un Buddha contemplativo. Alfonsina non c’è più.