Zero Mostel in “A Funny Thing Happened on the Way to the Forum” di Richard Lester, trasposizione cinematografica del musical di Stephen Sondheim (Olycom) 

La prevalenza della risata

Damiano Michieletto

Da Plauto a Offenbach a Sondheim, quante volte la tragedia muta in commedia. Così gli dèi scendono dall’Olimpo

“Tragedy tomorrow, comedy tonight!”, così suona l’incalzante ritornello di un musical di Stephen Sondheim dal titolo particolarmente elaborato, A Funny Thing Happened on the Way to the Forum, dove prendendo spunto da Plauto il compositore americano si inventò una storia maliziosa e piccante ambientata tra i colli romani in cui lo schiavo di nome Pseudolus compie una serie di peripezie per cercare di ottenere la libertà. Il titolo è elaborato ma prendiamone  solo l’inizio e capiremo di cosa si tratta, A Funny Thing…  promette bene, ci possiamo accomodare a teatro con l’aspettativa di un bel divertimento.

 
Pseudolus, rivolgendosi al pubblico nel prologo, dichiara “Tragedy tomorrow!”, cioè per oggi lasciamo fuori dalla porta le cose drammatiche, perché questa invece è la serata della maschera con le labbra piegate all’insù, la maschera della commedia, della farsa, dell’eccitazione, del dionisiaco. La maschera che sa ridere di tutto, perfino delle disgrazie e della morte. La maschera insolente e oscena in grado di ribadire, attraverso la risata, l’assoluta insensatezza dei destini umani e l’indifferenza verso ogni tentativo religioso di moralizzarne i costumi. Curioso che a impersonare Pseudolus fosse l’attore Zero Mostel, finito nella lista nera di Hollywood durante il maccartismo e costretto ad interrompere la sua carriera cinematografica per una quindicina d’anni. Ma il palcoscenico era un luogo più libero e Mostel fu in grado di debuttare con questo lavoro che gli portò poi molta fortuna.
  
Tragedia e commedia sono due facce della stessa identica medaglia, sorta di yin e yang che dominano tutta la storia della letteratura teatrale, laddove chi riesce a tenerle insieme, vince su tutti. E su tutti a vincere è sempre stato William Shakespeare, per la sua inarrivabile bravura a mescolare queste due maschere. Nelle sue tragedie si ride; nelle sue commedie si piange.

 
Quando disperatamente Macduff bussa al portone del castello scozzese del re Duncan, ecco che ad inveire contro quei colpi è un portiere ubriaco che, lento e inoperoso, tarda ad aprire perché sta disquisendo col pubblico sui suoi problemi di erezione, dovuti probabilmente all’eccesso di vino. La gente ride, ma un secondo dopo Duncan entra, scopre il cadavere del re trucidato e insanguinato a opera di Macbeth e la risata ammutolisce in un silenzio a bocca aperta. Tragedia e commedia insieme.

 
Plauto invece non ritrae i lati misteriosi e cupi dell’animo umano, ma ci invita a godere della sua tavola, sulla quale allestisce un ricco banchetto che, per non infastidire troppo il potentato romano, sceglie sempre di ambientare nella Grecia del passato.

 
Plauto è il portabandiera del vessillo comico e farsesco: un autore che prepara i suoi ingredienti all’insegna di una cucina gustosa e conviviale, dove il servo sembra entrare in scena smoccolando un Ècchime!  e scodellando piatti di abbacchio, frattaglie o coda alla vaccinara.

 
Non a caso Pasolini lavorò a una traduzione di Plauto trasformando il latino originale in un romanesco di borgata, creando una sorta di equivalenza espressiva perché il romanesco è probabilmente il registro linguistico più affine ai personaggi della commedia palliata. Nacque così Il vantone che prende il latino di Plauto e lo immerge nel Tevere del Belli per restituirlo all’Italia del secondo dopoguerra come fosse un pezzo di avanspettacolo, genere negletto dalla critica ma in grado di corroborare lo spirito italiano.

 
“Nothing with gods, nothing with kings: Comedy tonight!”, così canta in Sondheim l’astuto schiavo Pseudolus che sogna la libertà. Come a dire: i busti e le statue di marmo restino pure nei cimiteri, qui portiamo in scena la ciccia!  
  
Ma qualcun’altro sceglie invece anche di ridere e deridere le statue greche e uno degli esempi più brillanti è senza dubbio Offenbach che con il suo Orfeo all’inferno deride la mitologica vicenda del grande e incantevole Orfeo sceso negli inferi per salvare la sua innamorata Euridice. Anche per Offenbach è di sicuro “Comedy tonight!”. La vicenda del viaggio di Orfeo è quanto di più straziante e commovente il teatro ci possa regalare. La consapevolezza della perdita, la condizione di spaesamento in cui si trova l’essere umano messo di fronte alla caducità delle cose, al senso della fine e, in definitiva, allo strappo irreversibile della morte. In quella storia c’è il coraggio di osare un tentativo impossibile, il rischio del ridicolo, l’incanto della melodia come salvezza rispetto allo scorrere della clessidra, l’illusione di poter fermare il tempo, di arrestare il declino a cui è costretta il corso dell’esistenza. E ancora, la condanna della solitudine, l’impossibilità di comunicare. Ma su tutto, forse, la dolce e terribile irrazionalità offerta dall’amore come risposta e tentativo estremo di ribadire la meraviglia miracolosa del sole che sorge e tramonta, ogni giorno. Tutta una serie di temi stupendi che il mito ci presenta e che hanno dato ispirazione alla creatività di pittori, musicisti e scrittori.  Offenbach invece li prende tutti insieme, ci sparge sopra lo zucchero a velo della sua musica e poi agita il sacchetto come si fa col pandoro. Ne esce una dissacrante parodia che prende in giro il mito di Orfeo, ma la sua non è solo una parodia della vicenda e dei personaggi: è una operazione più sottile e profonda, arriva a ridere della musica stessa, fa un’operazione coltissima citando passi di un’altra opera precedente sempre ispirata a Orfeo, quella di Christoph Willibald Gluck.
    
Orfeo ed Euridice di Gluck è un vero capolavoro che, con un taglio sintetico e incalzante, riesce a dare al mito un passo narrativamente modernissimo e commovente. E’ un’opera spirituale, con momenti corali che davvero sanno restituire il senso dell’incanto prima e della catarsi poi: la liberazione dei dannati dall’inferno è la scena in cui percepiamo l’emozione di una rinascita, di una nuova alba: il ritrovare la luce dopo essere stati smarriti nel buio doloroso; il cielo che cambia colore, la possibilità che dopo la sofferenza possa esserci un’altra possibilità. Tutto questo è estremamente toccante e il modo in cui Gluck costruisce la sua architettura drammaturgica e musicale non lascia indifferenti.
  
Ma Offenbach se la ride alla grande. Euridice, ad esempio, nella vicenda originale sta fuggendo tra i boschi inseguita da un bifolco che la vuole violentare. Un inizio drammatico, la fuga di una donna che cercando la libertà affronta un incidente ancora più devastante: è morsa da un serpente velenoso che nella fuga ha incautamente calpestato. Il morso è letale,  Euridice si spegne lasciando Orfeo nello strazio. In Offenbach invece Euridice non sta affatto scappando da un tentativo di violenza, ma anzi sta trascorrendo un tranquillo pomeriggio in compagnia di quel tizio, ed è proprio Orfeo che ha nascosto volutamente un serpente nel campo di grano per vendicarsi di lei  che sembra non apprezzare la sua musica, lui che si crede narcisisticamente il più sublime degli artisti e che vive in funzione solo dell’opinione pubblica. Sei l’uomo più noioso del mondo! Euridice non ha paura di dirlo in faccia a Orfeo. Ecco forse il motivo per cui, al suo debutto, quest’opera di Offenbach venne distrutta dalla critica, perché osava liquidare l’aulica figura di Orfeo, il simbolo della musica stessa, qui ridotto a un permalosissimo violinista da quattro soldi. E’ come se oggi, per trovare un paragone in grado di dare l’esempio, qualcuno provasse in Argentina a mettere in scena uno spettacolo che deride Leo Messi, o se a Roma venisse proposto un musical che demolisce in parodia l’immagine di Francesco Totti: non credo avrebbe vita facile, non credo troverebbe spettatori pronti a pagare un biglietto o ad applaudirlo, perché il mito non si tocca. Al massimo si lascia che si arruginisca un pò da solo, a colpi di Rolex rubati e liti famigliari. Ma, come dice il barista alle cui spalle campeggia una foto del Capitano, “Totti resta sempre Totti”, perché oggi è il mondo dello sport professionistico l’ambito che più di tutti si avvicina a questo tipo di idolatria, in grado di nazionalizzare le masse.
  
La musica di Offenbach, comunque, è così ispirata e così elettrizzante da aver sostenuto e superato tutte le critiche e la sua risata oscena continua a scintillare. Quando Euridice è all’inferno non è affatto il ritratto di una donna in pena, di una donna addolorata e abbandonata. Anzi, al contrario, Euridice sta benone e si diverte come una matta a ballare con i diavoli: l’inferno è il posto più “caldo” del mondo! E lei se la spassa con le code di quei diavoletti, al galoppo in quell’orgia libertina. La musica che Offenbach scrive per raccontarci quel delirio indiavolato è in effetti proprio un galop, poi divenuto il famosissimo emblema del can-can, adottato successivamente dai celebri cabaret parigini come il Moulin Rouge, il Folies Bergère o il Lido. Euridice non ha nessuna intenzione di essere salvata o di essere portata via da quel luogo. “Comedy tonight!” risuona anche per lei. Non c’è nulla di tragico in quel luogo. Nulla che abbia l’acre odore dei terribili gironi danteschi, nulla che sappia di condanna: l’inferno è il dolce luogo della perdizione, dell’eccesso, della follia, della perdita di controllo. Esattamente come, in quegli anni,  i locali notturni parigini sopra citati dove l’assenzio scorreva tra sete e velluti illuminati da lampade fioche che preservavano il necessario chiaroscuro.
 
Offenbach tira giù dall’Olimpo tutti gli dèi riducendoli a esseri fragili, vittime di invidie e ricatti, normalissimi individui in lotta con se stessi alla ricerca di una stabilità sempre precaria. Come noi tutti che ogni mattina quando ci svegliamo non abbiamo idea se al pomeriggio ci troveremo a sorridere, nutriti magari da una piccola soddisfazione personale, o a piangere per una telefonata inaspettata o un imprevisto che arriva di traverso a tutto. Aspiriamo al marmo perché siamo fatti di pelle. Aspiriamo all’assoluto perché siamo relativi, insicuri e vacillanti. Offenbach ci invita a ridere di noi stessi, come fa con Giove e Platone che nella trama di Orfeo all’inferno si mandano piacevolmente e vicendevolmente a quel paese. Non si salva nessuno. Il dissacrante Offenbach dà scandalo con la sua operetta, un genere nobilissimo e ingiustamente bollato con un diminutivo. Operetta: non una casa, una casetta; non un bosco, un boschetto; non una piazza, una piazzetta. Un suffisso che la relega a stare in panchina, evidentemente non ritenuta all’altezza di una maglia da titolare.
 
Ma da Plauto a Offenbach a Sondheim il filo rosso è ben visibile e scorre attraverso tutti questi secoli, immutabile, a ridere delle cose serie: si ride del dramma e Offenbach esiste perché c’è stato Gluck prima di lui. Di nuovo eccoci qui, di fronte a questi yin e yang, dove una cosa non si dà senza la presenza dell’altra. Come i mascheroni ellenistici dove la piega delle labbra decreterà se è comedy o tragedy quella che spunterà sull’orizzonte della nostra giornata, così come sulla ribalta del palcoscenico.