Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944). Foto colorata di Harlingue/Roger Viollet via Getty Images 

Il mistero di Saint-Exupery

Marco Archetti

Ottant’anni fa moriva uno degli autori più idolatrati, letti e identificati con ciò che hanno scritto. Anche se lui non si considerava affatto uno scrittore. E i detrattori, a distanza di tempo, restano moltissimi

“Preferisco la tempesta della notte alle conversazioni nei caffè di Parigi”. Così disse, dopo pochi anni di matrimonio e una manciata di mesi nella capitale francese, Antoine de Saint-Exupéry. Lo disse alla moglie Consuelo Suncín Sandoval, che in “Mémoires de la rose”, libro scritto non per essere pubblicato ma troppo scritto perché non lo si immaginasse letto, raccontò, di lei e di lui, tutto o quasi. “Posso salvarmi solo coi miei aerei, non devi odiarli”, tagliò corto lo scrittore fresco di premio letterario per “Volo di notte” mentre chiudeva la porta a una mondanissima vita parigina che mai aveva tollerato. Era da poco diventato vicino di casa di Gide ma la sua vita si svolgeva a casa d’altri, tra feste, ricevimenti e balli. Nel frattempo, gli effetti della notorietà e del successo: sconosciute cugine di vari e dispersivi gradi si facevano vive all’improvviso con pretese, una squadra di produttori americani lavorava a un film tratto dal romanzo premiato, e intanto lui, tra monumentali debiti di sonno, quando non era chiuso al cesso col telefono in mano, faceva avanti e indietro da Tolosa per mettere a punto un prototipo di aereo che, fino a quel momento, vantava la gloriosa caratteristica di essere sempre in panne. “Senti, è ora. Ti chiedo scusa ma devo essere in volo tra dieci minuti!” aveva alla fine cesoiato il discorso senza tanti giri di parole, sordo alle suppliche coniugali e smanioso per l’ennesima partenza, a differenza di Consuelo, moglie e vedova di professione, già relegata al penelopismo che caratterizzò gran parte della sua vita da maritata – maritata dietro insistenze della cattolicissima suocera, che avrebbe anche sopportato che la fanciulla non fosse di nobile sclatta, ma una vita nel peccato no, impensabile per il suo Re Sole (lo chiamava davvero così, con buona pace di Freud e del consorzio delle nuore in perpetua crisi di nervi).

  
Stazza da albero e nessuna cognizione della propria statura, del proprio peso e del proprio ingombro, Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, terzogenito del visconte Jean de Saint-Exupéry – morì nella sala d’aspetto di una stazione ferroviaria quando il figlio aveva quattro anni – e della pittrice e acquerellista Marie Boyer de Fonscolombe, visse un’infanzia dorata nel castello di una zia a Saint-Maurice, vicino a Le Mans. Grandi sale, parquet liscio come un vassoio, e una biblioteca che, coi suoi mobili signorili e i feltri rossi, sembrava uscita da una favola. Fece il primo volo a undici anni disobbedendo alla mamma e l’ultimo ottant’anni fa, precisamente il 31 luglio 1944, durante la nona e ultima missione di ricognizione che gli fu affidata: a bordo di un Lockheed P 38 Lightning venne abbattuto da un caccia tedesco tra la Corsica da cui era partito, e Lione, dove non atterrò mai. La vicenda restò a lungo un mistero e il suo corpo non venne mai ritrovato. La sparizione nei cieli del poeta delle stelle, delle volpi addomesticabili e dei principini venuti da pianeti lontani a saputelleggiare nel deserto, generò, da parte della fandom trasversale a ogni epoca, escalation poetico-visionarie sul suo destino, spin-off immaginari di vite ulteriori, leggende allegoriche con struggenti glassature sapienziali. E anche dopo che, nel 2008, l’ex pilota della Luftwaffe Horst Rippert confessò di essere responsabile di quell’abbattimento, poco o nulla è cambiato: a oggi Antoine de Saint-Exupéry resta uno degli scrittori più idolatrati, letti e identificati con ciò che hanno scritto.

 

A dispetto del proprio destino, Saint-Exupéry era uno scrittore che non si sentiva uno scrittore. Fu varatore di linee aeropostali, senza ombra di dubbio un pioniere, e pur non essendo un aviatore di rango riuscì a farsi affidare delle missioni anche in tempo di guerra. Innegabile la generosità e l’autenticità della sua propensione, e del resto anche le pagine della moglie Consuelo raccontano di come privilegiò l’azione rispetto alla mediazione, di come il volo, per lui, venisse indubbiamente prima della scrittura. Anche per questo, i detrattori restano moltissimi. Noti i capi d’accusa: si va da “filosofo a buon mercato” a “scrittore per non lettori”, da “padre universale del buonismo” a “patrono della retorica”. Roger Callois, nel 1953, di lui scrisse: “I bambini e le anime semplici non fanno alcuna distinzione tra tipografia e letteratura.”

 

In tutti i casi, uno scrittore relegato, tanto da chi lo ama quanto da chi non lo ha mai sopportato, al luogo comune di sé stesso, e prigioniero, tra catechismo e almanacco, di un immaginario che l’ha fatto coincidere con la sua creazione più fortunata. Fortunata al punto da ridefinire il concetto di fortuna: “Il Piccolo principe” è uno dei libri più letti al mondo e tra i dieci più venduti di sempre, per un totale di duecento milioni di copie vendute e quattrocentotrentaquattro lingue di traduzione – numeri impossibili, non essendo un evangelista. Sembra che si debba alla moglie del suo editore americano il fatto che Saint-Ex scrisse questo genere di storia – riuscì a convincerlo dopo aver sbirciato tra i numerosi disegni che Antoine si portava dietro e cui si dedicava anche in volo. Per essere essenziali fino alla brutalità, il libro è, in fondo, esattamente questo. Una specie di romanzo a vignette, in cui l’ovvio e lo gnomico trovano sintesi grafica. Molti i simbolismi, elementare la zoologia, univoci i tipi umani, e un risvolto sorprendentemente beckettiano nella bizzarra figura del lampionaio, che obbedisce alle direttive e agisce di un’azione che non è mai davvero tale – potrebbe essere un personaggio secondario di “Mercier e Camier”.

 

Venne scritto in una splendida residenza di Bevin road, Long Island, dove l’inessenziale è visibile agli occhi. Né austero né sobrio nella vita ma campione dell’enunciato semplice e veritativo sulla pagina, Saint-Ex ha però generato qualcosa che non sembra destinato a spegnersi. E’ sorprendente scorrere le recensioni dei lettori sulle piattaforme: inscalfibile e unanime il consenso intorno a quello che il lettore sofisticato da sempre considera un Bacio perugina tirato in lungo, mentre per tutto il resto del mondo piccoloprincipista trattasi di “una storia che piace a grandi e piccini” (vabbé, direbbe Masneri), di “un libro che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella vita” (ma non era la Divina Commedia?), di una grande “metafora della condizione umana” (come il nero, sta bene su tutto), di “un invito a conservare la bellezza e lo stupore dei bambini” (resistere al passo nel vuoto), “peccato solo per la misura ridotta” (c’è sempre chi ne voleva di più, perfino ai concerti infiniti di Bruce Springsteen). I fatti sembrano dar ragione a queste opinioni: la vicenda umana dello scrittore ispirò perfino Hugo Pratt; ad Alghero gli hanno dedicato un museo ospitato nell’area marina protetta Capo Caccia. In questo momento, al Museo de l’Air et de l’Espace presso l’aeroporto Paris Le Bourget, è aperta una mostra che riguarda la sua attività aeronautica, visitabile fino al 29 settembre.

   
Scrittore vero o scrittore fasullo? Senza dubbio un inesauribile scrittore di lettere, in particolare alla madre. Già trentenne, le si rivolgeva in questo modo: “Cara mammina, ho pianto leggendoti...” Ma scriveva molto anche alle numerose donne di cui si innamorava, alle quali spesso spediva i medesimi testi che avevano già colto successi in precedenza, tutti traboccanti di promesse di viaggi in Cina, di trasvolate notturne fino a remoti villaggetti africani in cui vivere felici per sempre, e corredati dall’immancabile catalogo dei rischi corsi in settimana, buttati lì con la nonchalance di chi le ha viste tutte. Ma era davvero così: gli capitarono numerosissimi incidenti e ricoveri, non privi di conseguenze fisiche. Il più grave nel deserto, quando, nel 1936, per racimolare qualche soldo partì col meccanico Prévot con l’intenzione di battere il record Parigi-Saigon, e l’aereo precipitò – tre giorni di vagabondaggio, fame e allucinazioni raccontati con vividezza terribile in “Terra degli uomini”. A proposito di un ricovero in Guatemala, Consuelo scrisse: “Sembrava avesse cinque facce. Aveva in bocca dei tutori per risistemare le mascelle, e le labbra erano diventate semplici mucose che pendevano verso il mento. Un occhio era quasi in fronte, l’altro penzolava verso la bocca, gonfio e viola. Spariva sotto il cotone e le bende imbevute di disinfettanti di tutti i colori.” Ristabilito, andrà a NY a “rifarsi la faccia”. Per chiederne la mano, mandò alla moglie, allora conosciuta da poche ore, una lettera di cento pagine. Poi saltò fuori che si trattava del manoscritto, qua e là camuffato, di “Volo di notte”. L’epistolario “Correspondance 1930-1944” è stato pubblicato da Gallimard tre anni fa e sfiora le trecentocinquanta pagine. “Una coppia rara, infernale, patetica, che se ha vissuto nel dolore ha scritto una bellissima storia d’amore. Ciascuno ha trovato le parole per dire all’altro le sue manchevolezze, il suo dolore, la sua solitudine”. Così Bernard Pivot su Le journal du dimanche. Ma così, innegabilmente, Saint-Exupéry: un uomo bambino, capriccioso e pretenzioso, bugiardo e spietato, che rincorreva l’innocenza preferendo non afferrarla mai, abituato a promettere qualsiasi cosa e a mantenere raramente e giusto in extremis, quando Consuelo si ribellava alla soggezione psicologica e affettiva con cui la teneva in suo dominio. “Mio topolino piumato, mia pimpinella,” le si rivolgeva scrivendo. “Perché non sei con quello sciupafemmine di tuo marito, a NY, che gioca a carte e va a passeggio con tutte le bionde della città? Che ci fai qui a mori di fame?” le disse un giorno un’amica incontrandola e trovandola prostrata all’inverosimile. 

  
Perché oltre alle innumerevoli bugie, anche i denari furono un capitolo piuttosto bigio di una storia d’amore che ebbe moltissimi bassi e qualche altissimo – ma si trattava, in gran parte, di acrobazie di recupero, Saint-Ex era un genio del Grande Gesto ma sostanzialmente un annoiato cronico e un mancatore di continuità. Mentre lo scrittore volava, Consuelo giaceva a terra sconvolta, piangente, vittima di umilianti trafile: hotel scalcagnati, pigioni non pagate, traslochi notturni – o sborsare o mangiare. Così, inevitabilmente, “Mémoires de la rose” è anche un catalogo delle efferatezze emotive di Tonio, e dalle sue pagine emerge quanto fosse un uomo capace di sentire esclusivamente sé stesso. Lei – “bruna, minuta, selvaggia, dagli occhi stregati” – non era però meno irrequieta di lui. Non male il suo curriculum: figlia di ricchi proprietari terrieri, intima di surrealisti e dadaisti (pettegolezzo: Duchamp riteneva Saint-Ex un cretino), era vedova di Enrique Gómez Carrillo, prolifico e noto scrittore guatemalteco e console a Parigi con cui vivrà solo un anno di matrimonio al centro di amicizie intellettualmente altolocate – a pranzo da Anatole France, a cena con Colette. Sposerà Saint-Ex vestita in pizzo nero e benedetta da un abate. Personalità periclitante ed eccentrica – imbiondiva i peli del cane con l’ammoniaca – dopo averlo conosciuto nell’hotel che ospitava i salotti degli Amigos de l’arte di Buenos Aires e aver sopportato che per tutta la sera la supplicasse in ginocchio (letteralmente accucciato davanti alla poltrona su cui era seduta) gli concesse il primo bacio in volo, trascinata da lui, che si definì “il capo” dell’Aeropostale, a vedere il tramonto sul Rio de la Plata. Intanto, gli amici, accomodati sui sedili posteriori della carlinga, vomitavano in coro. 

  
“Tonio a volte,” scrive Consuelo nella sua autobiografia, “mi sembrava un attore che non aveva mai letto la sua parte e si trovava scagliato sulle scene per recitare una commedia interminabile in cui tutti sapevano il proprio testo tranne lui, costretto a improvvisare”.


Nell’ultima lettera che le mandò, datata giugno 1944, Saint-Ex le confidava: “Ho un bisogno tremendo di non vivere questi tempi solo da spettatore intellettuale. Non sopporto più i paroloni, le spocchiose polemiche, il fanatismo. Se mi accadesse una qualche disgrazia, non avercela con me per le scelte che ho fatto. Sono l’unico vecchio pilota a far la guerra su un aereo tanto veloce. Per adesso reggo il colpo, ma Dio potrebbe farmi lo sgambetto”. 


Un mese dopo, sul diario della squadriglia 2/33 verrà annotato: “31 luglio 1944, ore 14.30. Non c’è più alcuna speranza che sia ancora in volo”.

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