L'anniversario

Ottant'anni fa Varsavia insorgeva contro i nazisti. La fame di libertà, con i sovietici a un passo

Francesco M. Cataluccio

La rivolta polacca del 1944 celebra i suoi 80 anni. Un evento drammatico che, ancora oggi, continua a dividere

Varsavia. Già da alcuni giorni per le piazze e i parchi (sorti sulle macerie della distruzione dell’ultima guerra) si vedono gruppi di boy-scout, raggruppati accanto alle lapidi, che depongono fiori in ricordo dei morti dell’insurrezione di Varsavia del 1944, della quale quest’anno ricorre l’80esimo anniversario, con una guerra a poche centinaia di chilometri dal confine con l’Ucraina. Ricordare quella tragica vicenda aiuta a riflettere sulle devastazioni del presente.

L’insurrezione di Varsavia (che durò dall’1 agosto al 2 ottobre 1944), preceduta l’anno prima, nell’aprile, dalla tragica Insurrezione del Ghetto ebraico, chiuse un’epoca della storia della Polonia, e contribuì a dare un preciso indirizzo a quella europea. I comandanti partigiani dell’ “Esercito dell’interno” (AK) ritennero che le truppe tedesche si stessero ormai ritirando e tentarono di liberare da soli la capitale (anche perché molti di loro, dopo quanto erano venuti a sapere della “liberazione sovietica” di Vilnius e Leopoli, erano certi che sarebbero stati arrestati, deportati in Unione sovietica e uccisi). La vera essenza di una tragedia è non avere alternative. La reazione tedesca fu tremenda: in quei due mesi di battaglie casa per casa e di repressione indiscriminata persero la vita 200.000 civili, 15.000 insorti e l’80 per cento degli edifici storici della capitale (con biblioteche, archivi, musei) fu bruciato o fatto saltare in aria. Venne così cancellata la possibilità della Polonia di continuare a essere una nazione indipendente e fu sancito, tra le macerie fumanti, l’accordo di spartizione dell’Europa, sottoscritto a Teheran tra le grandi potenze. Gli inglesi e gli americani infatti lasciarono soli gli insorti e le truppe sovietiche si fermarono al di là del fiume Vistola ad aspettare che i tedeschi compissero l’opera di annientamento di coloro che avrebbero potuto dar nuova vita a quella Polonia la cui soppressione e smembramento (con il patto Ribbentrop-Molotov) era stata la causa scatenante della Seconda guerra mondiale. 

Quella vicenda, ancora oggi, continua a dividere i polacchi tra coloro che la considerano una delle espressioni più alte del patriottismo e dell’eroismo e quelli che, come i governanti comunisti imposti da Mosca nel dopoguerra, ma anche molti intellettuali all’opposizione, l’hanno definita, pur nel rispetto doveroso delle vittime, un grave errore politico e un’inutile strage. Per questo il generale dell’esercito polacco all’estero Wladyslaw Anders la definì addirittura un “crimine”. Un fatto simile all’Insurrezione di Varsavia avvenne, in un significativo parallelo, nel maggio dello stesso anno, a Montecassino, dove le truppe polacche, che combattevano con gli alleati, ed erano comandate proprio dal generale Anders, furono decimate. Lo scrittore Gustaw Herling, che vi prese parte, ne parlò nel suo Diario scritto di notte (Feltrinelli, 1992): “E’ facile oggi sostenere che, cinque mesi dopo gli accordi di Teheran, era una cosa politicamente inutile. Così come può sembrare facile, se non ancora più categoricamente, il giudizio sull’Insurrezione di Varsavia. Ci sono dei processi che, una volta messi in moto, e fomentati spesso, non si possono fermare a un passo dalla loro realizzazione senza il rischio di una capitolazione spirituale per lunghi anni. La storia dell’Esercito dell’interno (AK) andava sin dall’inizio verso l’Insurrezione, così come nella storia del Secondo corpo di Anders era iscritta sin dall’inizio la battaglia”. 

Il poeta premio Nobel, Czeslaw Milosz, aveva scritto, ne La mente prigioniera (1953): “I capi polacchi che diedero l’ordine dell’Insurrezione di Varsavia nel 1944 sono colpevoli di stupidità e la loro colpa ha carattere individuale. Ben altra però è la colpa individuale che pesa sul comando dell’Armata Rossa non venuto in aiuto agli insorti, una colpa non certo dovuta a stupidità bensì a perfetta intelligenza dei ‘processi storici’: cioè a una esatta valutazione dei rapporti di forza”.

Perché quella gente, tra le macerie e i canali delle fogne, quando era ormai evidente la sconfitta, quando era ormai chiaro che erano stati abbandonati da tutti, continuò a farsi ammazzare? Una risposta sulla quale riflettere la fornì il regista polacco Andrzej Wajda che allora era un ragazzo e dedicò a quella vicenda uno dei suoi più intensi film, Kanal. I dannati di Varsavia (1957): “I protagonisti di Kanal sono gente che ha già perso e che vuole soltanto salvare la faccia. In fondo non cercano che una cosa, in questa situazione senza precedenti, senza scampo: cercare di essere coerenti. È per questo che lottano. Non hanno più nessuna speranza di vincere. In fin dei conti, si possono capire. Un tentativo di arrivare a una sorta di vittoria morale, una cosa che, chiaramente, nella nostra letteratura, nella nostra tradizione (soprattutto romantica) ha delle radici assai profonde”.

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