La recensione

"Io?". Ecco il Flamm Doppelgänger

Luigi Azzariti-Fumaroli

Esce per Adelphi, con la cura di Margherita Belardetti, la prima traduzione mondiale del romanzo Peter Flamm (pseudonimo di Erich Mosse) sulla nervosità moderna, il doppio

Volendo leggere ad alta voce le pagine di “Io?” di Peter Flamm (pseudonimo di Erich Mosse), di cui Adelphi (pp. 143, euro 18) propone ora per le cure di Margherita Belardetti la prima traduzione mondiale (accompagnata da una Nota di Manfred Posani Löwenstein), ci si scopre preda di un certo affanno, come colti da malessere: non c’è tempo per respirare, la cassa toracica batte continuamente e fa male in modo insopportabile. Lo stesso accadde a Billie Whitelaw, nell’interpretare “Not I”, nel 1973, al londinese Royal Court Theatre. La fuga verso il non-io, nascente da una contrazione dell’io medesimo, da una sua riduzione ad un nucleo evanescente messa in scena da Beckett, complici la punteggiatura sincopata e la sintassi rotta, impiegate da entrambi gli autori per cercare di seguire gli automatismi e la logica associativa dell'inconscio, richiama alla mente l’incertezza fondamentale, al centro del racconto di Flamm, fra l’idea d’una coincidenza con sé stessi e il senso d’una estraneità a sé stessi.

 

Un’idea che invero pervade larga parte della letteratura del Novecento, imperniata su una soggettività che trascende la totalità delle esperienze vissute, per manifestarsi attraverso le innumeri maschere che ricoprono il suo volto, mentre – con le parole del “Felix Krull” – la realtà dell’io si pone come «qualcosa di indefinibile, perché di fatto inesistente». Se tuttavia il personaggio manniano si muove senza nome e senza età al centro della «nervosità moderna», per cercare non una ragione o un senso dell’accadere, ma soltanto la «gioia sensuale della superficie», il protagonista del racconto di Flamm rinuncia alla propria identità, assumendo quella d’un altro, vittima d’un colpo mortale quando la Grande Guerra sta ormai volgendo al termine, col solo scopo di dare, come certi coevi personaggi di Kafka, «il minimo d’ingombro», di disturbare il meno possibile, pur d’essere lasciati vivere.

 

«Corpo eppure non corpo, io eppure un altro, un nome, un destino, ma non un essere umano»: l’affermato medico Hans Stern, nel quale si mente l’umile fornaio Wilhelm Bettuch, si pone come emblema del “Doppelgänger”, analizzato nel 1914 da Otto Rank, e, un quinquennio dopo, da Freud, nel suo studio sul “Perturbante”. Qui si definisce il significato della percezione d’un “fremde Ich”, d’un io-altro o proiettivo, che, per esorcismo verso la propria morte, si suppone prendere forma attraverso «un perpetuo ritorno dell’eguale: la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse imprese delittuose».

 

Le osservazioni freudiane – certamente note a Flamm/Mosse, psichiatra prima ancora che scrittore di notevole fama tanto in patria (lo annovera fra i più eminenti Dichter-Ärzte, poeti-medici, Mann, nei suoi “Diari”) quanto negli Stati Uniti (dove, fra gli altri, avrà in cura William Faulkner) – sembrano consonanti con lo sviluppo più schiettamente romanzesco di “Io?”: imputato d’un grave delitto – l’omicidio del procuratore che l’aveva incriminato come medico inetto e spergiuro – il narratore, per la legge, è Hans Stern. E tuttavia a parlare – egli protesta innanzi alla Corte che deve giudicarlo – non è lui, che da troppo tempo non fa che brancolare in una «nebbia piena di mondi, che sale dal mare dei morti». Chi, dunque, se nemmeno chi dice d’esser io crede a sé stesso?

 

«Ciò che Qualcuno fa, lo ha fatto Nessuno [Was Ihmand thut, hat Niemand gethan]», recitano i versi di un componimento anonimo del XVII secolo che anticipa l’idea, di non poca fortuna specialmente nell’Ottocento (si pensi solo al “Nobody and Somebody” di Alexander Smith, tradotto da Tieck e rielaborato da von Arnim), che Nessuno abbia Qualcuno come doppio. Sono i prodromi d’una immagine dell’io come «profonda e infinita complessità», cui, nel secolo scorso, è seguita la convinzione ch’esso, troppo «incontenibilmente immenso», dovesse diventare discutibile o, meglio, oggetto d’interrogazione anche rispetto ad una maniera d’essere che lo offrisse in una pluralità di posizioni e in una discontinuità di funzioni. «Siamo fuori di noi» – appuntava Ernst Bloch nel 1935, quando la meteora di Flamm era già scomparsa dall’orizzonte letterario – «Lo sguardo vacilla, e con lui ciò che stava fissando. Le cose esterne non sono più familiari, si spostano. Qualcosa è diventato troppo leggero, va e viene». Era, questo “qualcosa”, l’io stesso, il quale ormai solo a forza di osservarsi nello specchio finirebbe per credere che quello che vede è lui stesso: un «corpo senza nome in attesa che qualcuno se lo prenda» – come bercia l’Ignota nel pirandelliano “Come tu mi vuoi”, ispirato dal caso dello smemorato di Collegno, posto, assai più di quello narrato da Flamm, con moltissimo talento, eppure non abbastanza, «sotto il segno dell’ambiguità, dell’ambivalenza, dello sdoppiamento o dimezzamento».