Anton Pavlovich Checov (1860-1904) - Wikipedia 

Il lungo oblio del racconto, più eccitante ed elegante del vecchio romanzo

Alfonso Berardinelli

Il romanzo, ormai più genere merceologico che letterario, domina il mercato editoriale per ragioni commerciali, ma la scomparsa del racconto impoverisce la letteratura. Cechov offre ancora lezioni preziose per gli scrittori

Chi si rifiuta di credere che il romanzo è ormai più un genere merceologico che un genere letterario, dovrebbe chiedersi perché mai ci si ostina a scrivere e a pubblicare pseudoromanzi e quasi mai racconti. In quanto forma breve i racconti sono meno impegnativi, più accessibili, eccitanti, eleganti. Hanno però un essenziale difetto: gli editori vogliono pubblicare libri definibili romanzi per numero di pagine perché sono una merce molto più vendibile. Il racconto è un genere meno popolare, più aristocratico e i lettori, nella loro rozzezza, vogliono credere di doversi saziare con un pasto completo, cioè con un romanzo, anche se di fatto è solo un racconto diluito, annacquato.

   
In realtà oggi nessuno sa più che cos’è un romanzo, forse perché è davvero una forma letteraria d’altri tempi. Richiedeva agli autori, infatti, una visione d’insieme e una varietà di situazioni e di personaggi credibili, per la cui rappresentazione si è quasi persa la capacità mimetica, sia intellettuale che tecnica.

  
Già nel Novecento, d’altra parte, secolo nel quale si è pubblicata un’enorme quantità di romanzi, il romanzo era in crisi, in declino o in metamorfosi. Da un lato le varie avanguardie hanno dominato la scena con i loro manifesti e gruppi, disprezzando e sabotando la narrazione romanzesca come fosse una ridondante banalità indegna di autori e lettori colti. Quanti e quali sono i romanzi prodotti dal futurismo, dal surrealismo e dalle neoavanguardie accademizzate degli anni cinquanta e sessanta? E’ piuttosto cresciuta smisuratamente la confezione di merce narrativa destinata al consumo di un pubblico di massa. La forma romanzesca ha continuato ad avere bisogno di un common sense per common readers, cosa che poteva accadere soprattutto in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove l'artigianato del romanzo-romanzo si era tramandato nonostante qualche interruzione di continuità (Woolf, Faulkner, Durrell). La rivoluzione narrativa di primo Novecento, con Proust, Joyce e Kafka, non ha provocato una vera svolta nella storia del romanzo, perché i loro sorprendenti capolavori non potevano fare scuola, l’imitazione era sconsigliabile o impossibile, l’epigonismo non poteva che apparire scoraggiante.

  
In questi ultimi decenni, dominati, almeno in Italia, da una crescente insipienza narrativa, una delle cose letterariamente più inspiegabili è l’oblio del racconto, forma breve che avrebbe potuto essere, per gli autori, più attraente del romanzo. Ma benché famosi e apprezzati, maestri del racconto come Katherine Mansfield, Hemingway, Isaac Singer e Raymond Carver non hanno spinto gli autori più giovani a seguire la loro strada. La Mansfield si sentiva allieva di Cechov, del quale torna ora in libreria una raccolta di testi “pedagogici”, L’arte di scrivere, con l’aggiunta di Regole per aspiranti scrittori, a cura di Lucio Coco (Aragno editore, 103 pp., 15 euro). Parlo di Cechov anche perché in questo mese di crudele calura sono visitato dai miei ricordi più remoti, e la prima opera letteraria di valore assoluto che ho letto a quattordici anni sono le novelle di Cechov, un’edizione BUR (Biblioteca universale Rizzoli), piccoli volumi rilegati e in cofanetto che mi regalò mio zio operaio, meccanico specializzato, comunista senza tessera, scapolo e mio primo maestro di vita.

   
Cechov scriveva solo racconti, oltre che opere teatrali famose come Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi. Ma è come autore di racconti che Cechov dà consigli agli aspiranti scrittori. La prima virtù raccomandata è la brevità: “La brevità è sorella del talento”. E poi: “Ciò che leggo, di mio o di altri, mi si presenta sempre come non abbastanza breve”. Anche perché “il centro di gravità” devono essere due personaggi: “lui e lei”.

  
Quanto alla cosiddetta visione del mondo, Cechov non ne sente il bisogno, o forse ne era già nauseato nella Russia di fine Ottocento, ciò che gli permette di raccontare con verità e precisione: “Io non ho una concezione politica, religiosa e filosofica; la cambio ogni mese, e quindi devo limitarmi alla sola descrizione, a come i miei eroi amano, si sposano, fanno figli, muoiono e si parlano”.

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