L'ultima ora del guerriero Winston Churchill
Due mesi dopo il discorso della vittoria, è sconfitto alle elezioni. Da leader mondiale diventa modesto comiziante di provincia. Ma avrà la sua rivincita, prima di entrare per sempre nella gloria dei più grandi
Il prossimo 30 novembre saranno 150 anni dalla nascita di Winston Churchill, primo ministro del Regno Unito dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955. Abbiamo chiesto a Carlo Nordio, ministro della Giustizia e appassionato di Churchill, di scrivere cinque puntate sulla storia dell’ex primo ministro inglese per il Foglio. La prima puntata, “Churchill eroe di guerra”, è uscita mercoledì 3 luglio. La seconda, “Winston il leone indomito”, il 10 luglio. La terza, “L’ora più bella a Downing Street”, il 17 luglio. La quarta, “I grandi alla resa dei conti”, il 24 luglio.
L’8 maggio del 1945, il “Victory Day”, Churchill apparve al balcone del ministero della Salute davanti a una folla enorme ed entusiasta. Alzando le due dita a forma di V, disse commosso: “Questa è la vostra vittoria. Dio vi benedica tutti”. A migliaia gli risposero intonando il “For he’s jolly good fellow”, a testimonianza dell’affetto e della gratitudine per quell’indomito leone che nell’ora più buia aveva evocato l’ora più bella. Quell’ora era arrivata e i rintocchi di Big Ben la immortalavano in onore del suo condottiero.
Ma al consolidarsi della sua fama corrispondeva lo scioglimento della sua coalizione. Il gabinetto di guerra era stato costituito nell’emergenza bellica e con la pace la sua ragion d’essere veniva meno. Clement Attlee, il leader laburista, aprì subito la crisi, e Churchill presentò al re le dimissioni. Le elezioni si sarebbero tenute il 5 luglio, ma i risultati sarebbero stati resi noti venti giorni dopo per il conteggio dei voti dei soldati all’estero. La campagna elettorale iniziò comunque subito. Qui Churchill, come molti geni, ebbe delle incredibili cadute di buon senso e anche di stile. Invece di presentarsi come il padre nobile di un’impresa gloriosa che gli valeva la venerazione del mondo democratico e il rispetto di quello comunista, agì come un comiziante provinciale e polemico. Arrivò persino a paragonare i laburisti alla Gestapo, offendendo i primi e banalizzando la seconda. I suoi eterni critici ripresero fiato. Dissero che dopo esser stato l’uomo giusto al momento giusto, ora era l’uomo sbagliato nel momento sbagliato. I fatti avrebbero confermato questa diagnosi forse ingenerosa, ma certamente realistica. Il 17 luglio 1945 Churchill si recò alla conferenza di Potsdam assieme a Attlee, proprio perché nessuno sapeva quale dei due sarebbe stato il nuovo primo ministro. Il presidente americano, Harry Truman, subentrato al defunto Roosevelt, non aveva la raffinata cultura e l’esperienza del suo predecessore, ma era munito di un solido pragmatismo e, cosa ancora più importante, dell’arma più potente mai costruita. Durante una seduta, ricevette il messaggio “i gemelli sono nati felicemente”: Significava che la prima bomba atomica era stata testata con successo ad Alamogordo. Quando Truman informò Stalin di questa novità, che gli conferiva virtualmente il dominio del mondo, il marmoreo dittatore reagì con un sorriso di approvazione. Naturalmente le sue spie comuniste lo avevano avvertito della costruzione dell’ordigno. Pochi anni dopo gli avrebbero anche consentito di costruirne uno uguale.
Intanto arrivavano i risultati delle elezioni. Churchill, nell’euforia della vittoria, era era sicuro di restare a Downing Street dimenticando che, come insegnava Plutarco, in politica l’ingratitudine è quasi una regola. Ma in realtà gli inglesi non fecero con Churchill quello che gli ateniesi fecero a Temistocle. Non lo accusarono, ma lo rimossero, perché dopo la poesia volevano la prosa, e l’orgoglio del trionfo non sostituiva il desiderio del cambiamento. Occorreva raddrizzare le finanze, gestire la smobilitazione, riconvertire le industrie, e soprattutto soccorrere un popolo indebitato e impoverito. Forse la ricetta liberistica di Churchill sarebbe stata più efficace, ma quella solidaristica di Attlee era più appetibile. I laburisti stravinsero e il rampante guerriero si trovò pensionato. Furono mesi tristi, contrassegnati da un’apatia che sfiorava la rassegnazione fatale. Clementina, che per tutta la vita lo aveva seguito con limitati e saggi consigli, lo scrollò da quella prostrazione senile, gli infuse vigore e autostima, lo riportò a Chartwell e ricostruì le proprietà psicologiche del marito come lui aveva edificato quelle murarie del recinto. Dopo qualche mese, consolato dalla moglie, dalla pittura e dallo champagne, il vecchio leone riprese a ruggire. E fu un ruggito di portata epocale.
Per il 5 maggio 1946 Truman aveva invitato il suo ex collega a tenere una “lecture” a Fulton, una piccola università del Missouri, dove il neo presidente era di casa. Tutti si aspettavano un’autocelebrazione dell’oratore e un ringraziamento all’alleato. Invece fu una catilinaria pari a quelle che dieci anni prima Churchill aveva ringhiato contro il mieloso appeasement di Chamberlain: “Da Stettino sul Baltico, a Trieste sull’Adriatico, una iron courtain – una cortina di ferro – è scesa attraverso il continente. Dietro quella linea giacciono tutte le capitali dei vecchi stati dell’Europa centrale e orientale, e sono tutte soggette in un modo o nell’altro, non solo all’influenza sovietica ma anche a un’altissima e in alcuni casi crescente forma di controllo da Mosca. E prosegui profeticamente: “Non credo che la Russia sovietica desideri la guerra. Ciò che essi desiderano sono i frutti della guerra e l’indefinita espansione della loro potenza e della loro dottrina”. Da quel momento, fino all’avvento di Ronald Reagan, l’Urss avrebbe perseguito, direttamente o per procura, la più capillare forma di imperialismo ideologico e militare della storia dell’umanità. Quella cortina, a dire il vero, era in parte sbrecciata, perché Tito aveva già iniziato l’opera di sganciamento dall’abbraccio del sovrano, che due anni dopo ne avrebbe determinato l’espulsione dal Cominform. Restava comunque il fatto che nell’Europa dell’est la democrazia era stata accantonata.
Quella prolusione innestò, si disse, la Guerra fredda. In realtà era solo una constatazione amara: la Seconda guerra mondiale era stata combattuta contro il nemico giusto ma con l’alleato sbagliato, che mirava a instaurare in Europa un regime tirannico uguale e contrario a quello per cui l’Impero britannico e il suo rappresentate si erano dissanguati. Solo la bomba di Truman avrebbe potuto placare la voracità del sanguinario moscovita. Ma l’America non aveva intenzione di provocare un terzo conflitto di proporzioni ancora più catastrofiche del precedente. Tuttavia costituì la Nato, e proteggendoci con il suo ombrello atomico ci salvò dai destini di Budapest, Praga e Varsavia. Speriamo che con le prossime elezioni non cambi idea. Perché – disse proprio Churchill – “questi sono gli unici americani che abbiamo. Si fanno il bidet in pubblico, e ne fanno bere l’acqua agli alleati”.
Tornato nel suo buon ritiro di Chartwell, il disoccupato politico si dedicò a scrivere “La seconda Guerra mondiale”. Si trattava in realtà delle sue memorie, corredate da centinai di documenti, scritti, memorandum, corrispondenze per le quali mobilitò un esercito di segretari, ricercatori e dattilografi. Il titolo è un po’ pomposo, e forse ingannevole, perché trascura i grandi teatri della stessa Russia e del Pacifico, ma l’opera costituisce la prima preziosa testimonianza del più autorevole protagonista di quegli eventi bellici e politici. Non furono scritte con organica continuità: al contrario furono interrotte da una serie di incidenti, malattie e depressioni dalle quali tuttavia Winston sembrava riprendersi più forte di prima. Tra un volume e l’altro girò l’Europa, patrocinando la causa della sua unità economica, politica, e militare. Nella recente biografia scritta da Boris Johnson, churchilliano di ferro, il folcloristico ex premier sostiene che Churchill ipotizzava una Gran Bretagna per metà dentro e interamente fuori dal Vecchio continente. E’ un giudizio ingiusto perché i discorsi di Churchill sono in senso completamente contrario. Pur definendosi un fedele suddito della monarchia, la sua lungimiranza aveva avuto il sopravvento sulle sue nostalgiche origini vittoriane. Ma come spesso accade con gli uomini che vivono molte vite, non sapremo mai il suo reale pensiero.
Nel frattempo aveva ripreso la politica attiva. Rifiutò il titolo nobiliare, perché lo avrebbe allontanato dalla Camera dei comuni, di cui si diceva orgogliosamente figlio. Continuò a candidarsi e a cimentarsi in comizi nei luoghi più modesti, come un qualsiasi principiante, ma rimase leader del Partito conservatore. Ora la Gran Bretagna era delusa del laburismo pauperistico di Attlee, delle sue nazionalizzazioni e di una burocrazia invasiva. Desiderava meno stato e più respiro. Alle elezioni dell’ottobre 1951 i conservatori recuperarono la maggioranza, e Churchill la carica di primo ministro. Ma era cambiato lui, e soprattutto erano cambiati i tempi. Undici anni prima era nel pieno delle sue forze psicofisiche, ora gli acciacchi dell’età e soprattutto di una alimentazione epicurea si facevano sentire. Alcune ischemie, quelle che Voltaire chiamava “petits avertissements” lo avvertirono della fragilità delle sue arterie e dei rischi della sua sedentaria obesità. Naturalmente continuò imperterrito a pasteggiare a champagne, corredato di whisky e cognac. Il sigaro era la sua icona, come le dita a V. Ma mentre la Vittoria era il simbolo di un trionfo passato, i suoi Montecristo erano una fonte di pericolo presente. Dopo un’ennesima crisi, con il cervello ancora intatto ma un sistema cardiovascolare compromesso, Churchill si dimise anzitempo, il 5 aprile 1955. La regina Elisabetta, contravvenendo a ogni protocollo, accettò un invito a cena di questo “Commoner”, che lei stessa venerava come un padre. Coronato di onorificenze e di premi, tra cui l’ordine della Giarrettiera, e il Nobel per la letteratura, Sir Winston si ritirò a vita privata.
Non fu un abbandono facile, benché gli analgesici non mancassero: l’affetto di Clementine e di una famiglia numerosa, la quiete di Chartwell, i soggiorni nei più bei luoghi del mondo per rilassarsi e dipingere, e qualche residuo lavoro storico allietarono i suoi momenti di gentiluomo a riposo. Continuò a frequentare i Comuni, e terminò la “Storia dei popoli di lingua inglese”. Accettò l’ospitalità di Onassis nelle sue crociere sontuose, assistendo al corteggiamento che il miliardario greco fece a Maria Callas, organizzò una scuderia di purosangue che vinsero parecchi premi, e perseverò costantemente nell’apprezzare il gusto dell’alcol e il profumo dei sigari. Ma con il decorso degli anni l’inesorabile declino fisico divenne penoso per se stesso e per gli altri. Dopo una serie di cadute e di fratture si reggeva a malapena in piedi, e durante le sedute alla Camera spesso si appisolava. Con spietato realismo, il grande columnist Stewart Alsop, suo fervente ammiratore, scrisse che sarebbe dovuto morire prima. La Grande mietitrice comunque arrivò. Poco dopo il compimento del suo novantesimo compleanno, Churchill fu colpito da un’ennesima paralisi. Lord Moran, il suo medico, lo definì un duro a morire. Il 24 gennaio 1965, il grande statista spirò in pace, nella sua casa di Hyde Park.
I funerali furono solenni quanto e forse più di quelli di un sovrano, la bara rimase esposta tre giorni a Westminster Palace, mentre trecentomila persone, sfidando il gelo e il nevischio, sfilavano davanti al catafalco coperto dalla Union Jack. Quando uscì, trasportata da un affusto di cannone, la banda intonò la marcia funebre del Saul di Haendel, meno complessa ma più commovente di quelle di Beethoven e di Chopin. Più di un milione di londinesi fecero ala a questo solenne corteo. Nella gigantesca navata di Saint Paul, fu accolta dai grandi della terra, compresa l’intera famiglia reale. L’attuale re Carlo, in piedi vicino a Elisabetta, sembra quasi incredulo davanti a un lutto così previsto, eppure così doloroso. Alla fine della cerimonia, al suono dell’Inno di Battaglia della Repubblica, che lo stesso defunto aveva voluto, la bara fu portata sulla Avengore, una lancia ormeggiata sul Tamigi, dove tutte le gru si abbassarono in un singolare omaggio meccanico. Da lì la salma arrivò in stazione, per l’ultimo viaggio a Bladon, dove Winston fu sepolto dopo un breve cerimonia privata. Quando, una cinquantina d’anni fa, ho visitato la semplice tomba, un gatto si stava crogiolando al sole proprio sopra il marmo dove era inciso quel nome indimenticabile. Churchill, che amava gli animali, ne sarebbe stato felice.
Come concludere questa breve e carente sintesi di una vita così lunga e complessa? Su Churchill sono state scritte decine di biografie, e probabilmente altrettante ne verranno in futuro. Per di più i miei pregiudizi sono così radicati e favorevoli da rendere impossibile un giudizio imparziale. Ci provo con l’umiltà di un dilettante e la consapevolezza dei miei limiti.
Fu, prima di tutto, un miracolo di energie fisiche, morali e intellettuali. Era dotato di un corpo apparentemente gracile, che stupiva per la sua resistenza nelle cariche di cavalleria, nelle privazioni dei campi boeri, nelle avventurose traversate di foreste e savane, nelle spericolate evoluzioni dei primi velivoli, nelle infernali trincee delle Fiandre, negli assolati deserti del Nord Africa. fino alle sfide di vodka con Stalin e di tabagismo con De Gaulle ed Eisenhower. Morire a novant’anni nel proprio letto, dopo aver ingurgitato vagonate di champagne e intere botti di whisky, e dopo aver intasato i polmoni con migliaia di sigari, è già un record che spiazza le sempre più petulanti raccomandazioni per una vita ecologica e un’astinenza certosina. Se il corpo fu così favorito il cervello e il cuore lo furono anche di più. Aveva un’immaginazione fertile e illimitata, controllata dalla razionalità e da un realistico buon senso. Per trovare un’anima che ardesse così intensamente e così a lungo, bisogna risalire a Napoleone. E per trovare un politico che scriva la storia tanto bene quanto l’ha fatta, bisogna evocare Giulio Cesare. Ma abbiano già esaurito la scorta dei nostri aggettivi. Non ci resta che attribuirgli l’omaggio finale di Shakespeare: “This was a man”. Questo fu un uomo.
fine.