La visione del profeta Ezechiele 

Estate metafisica

Spirito del tempo? No grazie. Chiamatela arte

Michele Dantini

Molti grandi artisti sono ancora ispirati da "un'agenda metafisica". Kiefer, Tuymans, Richter. Ma come interpretarli, se non esiste un unico "Zeitgeist"? Prospettive critiche, contro ogni profetismo

Michele Dantini insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università per stranieri di Perugia ed è visiting professor alla Scuola Alti Studi di Lucca. Prosegue con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi, il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone, il 16 luglio “Via la polvere dalla filosofia” di Rocco Ronchi, il 23 luglio “La forza selvaggia dell’essere” di Simone Regazzoni.
 


  
La tradizione artistica occidentale è attraversata in profondità dal conflitto tra iconoclasti e iconoduli: tra coloro, cioè, che rivendicano la legittimità delle immagini sacre e coloro che la negano. Il conflitto passa per regioni metafisiche: le immagini possono essere esse stesse divine, o quantomeno abitacolo della divinità? Sono parte indispensabile del culto, che rendono più attraente o persuasivo coinvolgendo i sensi? O tutto ciò è mera impostura, peggio, inganno? E ancora: qual è il rapporto tra Divinità e Bellezza? Benjamin ha trattato a lungo del problema dell’“aura”, e della sua perdita. Gli interpreti di Benjamin, in particolare italiani, hanno poi trasformato uno squillante e volitivo pamphlet antitotalitario, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, inscritto nella storia politico-ideologica europea dei secondi anni Trenta, in un trattato di estetica valido per ogni tempo. Cosa che non è né ha mai inteso essere. Certo vale la pena chiedersi se l’arte contemporanea mantenga un’inclinazione metafisica, una domanda di aura, per così dire; o l’abbia smarrita o rigettata. D’altra parte non è Duchamp stesso, quasi a smentire ogni facile interpretazione in chiave sociologistica e neo-avanguardistica dell’arte del primo Novecento, a ricordare, in un’intervista tarda, che “vivere è credere” (“to live is to believe”: così Duchamp stesso, che qui parla in inglese)?
 

Oggi la domanda attorno all’immagine e al suo rapporto con il sacro è tornata a essere oggetto di interrogazione costante da parte degli storici e teorici dell’arte, come mai nel recente passato, attraverso ricerche che riconducono l’“iconoclastia” modernista all’iconoclasmo protestante e prendono congedo dalle diverse accademie astratto-concettuali del Novecento (potrei fare qui i nomi di studiosi pur così diversi tra di loro come Freedberg, Belting, Simpson, Hickey etc.). La stessa Biennale 2024, curata da Adriano Pedrosa, mentre si propone di illustrare punti di vista non occidentali, rivolge de facto una critica penetrante a quanto, nella tradizione artistica nordeuropea, e solo qui, ha sviluppato, riguardo all’immagine sacra, una sorta di timore e deterrenza a partire dal Cinquecento. In discussione è un determinato primato che, in merito al discorso sulle immagini, la tradizione angloamericana si è assicurata in epoca modernista. Tra i primi e più spietati nemici delle immagini troviamo, in epoca bizantina, regnanti ferocemente ambiziosi, che vogliono imporre regimi totalitari: il culto che si riserva alle immagini appare loro sminuire la propria autorità, o addirittura minacciarla. Chi onora le immagini pare loro sedizioso e ribelle. L’iconodulia cristiana ci appare così, nei secoli, un atto tra i più efficaci e fermi di resistenza.
 

Così impostato, il problema diviene: le immagini artistiche riescono ancora a rapire e rivelare, a sospingere in direzione di una qualche “trascendenza”, a trasformare interiormente l’osservatore? Mentre ricorro qui al verbo “rapire”, rendo fatalmente omaggio agli insegnamenti del mito e della religione. Ganimede è infatti rapito da Zeus in forma di aquila, e portato in cielo: episodio cui non solo Correggio, Rubens, Rembrandt e innumerevoli altri antichi maestri fanno riferimento, ma anche, in anni a noi più vicini, Robert Rauschenberg. San Paolo è rapito in cielo sulla via di Damasco: da qui la sua conversione. Tutti noi conosciamo, dell’episodio, almeno la rappresentazione che ne dà Caravaggio tra 1600 e 1601 (a Roma, in Santa Maria del Popolo): la luce divisa dalla tenebra, Paolo a terra, gli occhi chiusi in segno di estasi e trasformazione interiore. “Metafisici” qui non sono solo né tanto i “contenuti” delle immagini, ma la loro stessa natura, capace di creare “ponti” tra mondo terreno e mondo celeste. Il tratto transizionale di ciò che chiamiamo “bellezza”, vorrei dire: che mobilita l’osservatore e lo spinge al di fuori e oltre l’ambito quotidiano di incontro e uso del mondo. Questo è ciò che cerchiamo.
 

Al fondo di tanta estetica e critica d’arte contemporaneistica c’è la convinzione che l’Epoca sia ontologicamente una sorta di monade. Che esista cioè una e una sola “sostanza storica” o Spirito o Zeitgeist che (idealisticamente) l’arte, la filosofia e altre “forme simboliche” dovrebbero portare a significazione. Personalmente diffido di questa metafisica “concreta” o meglio storica. Non credo che esista alcuna “sostanzialità” delle epoche, tantomeno unica e univoca. Credo al contrario che esistano contestualmente (simultaneamente) molte “epoche” o “mondi” o “visioni del mondo” possibili o – per dirla con un grande liberale, nemico di ogni hegelismo proto-totalitario, Isaiah Berlin – differenti “panieri” di beni ultimi concorrenti e non compatibili tra loro, tra cui occorre scegliere. Anche Heidegger opta a suo modo per un’agonalità o polemos  che mantiene la molteplicità, non pretende di ridurla: ciascuno, vivaddio, si dia alla propria “finitezza” senza pretendere di conciliarsi o violare la “finitezza” di altri. Prospettivisticamente (che non significa relativisticamente). Amor fati.
 

Ora, l’idea che l’arte sia qualcosa come lo Spirito del tempo risulta goffa e anacronistica: perché da decenni gli storici dell’arte si sono disfatti di questa curiosa superstizione eroico-modernista che obbligava le arti figurative a smodati ruoli profetici e tralasciava del tutto di considerare eredità tecniche, preferenze stilistiche o i mille accidenti delle biografie individuali dei singoli artisti. La “storia dell’arte” non è la “storia dello spirito”, per parafrasare il titolo di una celebre opera dello storico viennese Max Dvorak. Al contrario, se per “storia dello spirito” si intende “opinione della maggioranza”. Purtroppo i cascami di questa cultura vetero-espressionistica, intrisa di furente apocalitticità e confusi escatologismi, in Italia non sono stati mai rimossi: soprattutto perché molti filosofi e cultori di arti figurative vi si aggrappano ancora come a primizie di stagione.
 

Non esistono “metafisiche” comuni alle molteplici forme d’arte che costellano l’“Epoca”, e questa non è in nessun modo un primum movens. Il “tempo” delle immagini è ricorsivo, semi-onirico, circolare, ultraindividuale – che non significa impartecipabile: non è il “tempo” progressivo e lineare della cronaca politica o sociale. Non sempre l’arte – vale a dire tutta l’arte che si fa in un dato momento, in una determinata congiuntura – merita interesse critico, figurarsi poi “metafisico”. Questo appare particolarmente vero oggi. Esemplifico.
 

Potremmo discettare di “alea” metafisica o di sincretismi cristiano-orientali descrivendo questa o quell’opera di Jeff Koons. Tuttavia ritengo che si ottenga un accesso più perspicace al cuore dell’artista dei Balloon Dogs e dei Michael Jackson and Bubbles considerando il funzionamento del mercato globale e il desiderio, da parte di Koons, di conquistare platee di possibili collezionisti e compratori facendo ricorso alle malizie della cultura pop (celebrities e gadget). Sono l’ambizione smisurata, la sagacia e una qualche (non poca) avidità o mistica del denaro a nutrire il genio di Koons: non questo o quel principio irremovibile avente a cuore l’Essere, la Bellezza o i loro contrari. Ancora. Non contesto che in Damien Hirst vi sia un nichilismo di fondo. Ma perché, se desidero conoscere davvero cosa sia e quali origini abbia il nichilismo occidentale, dovrei interessarmi a Hirst e innalzarne la reputazione? Non farei meglio a cercare illuminazione e consiglio nelle pagine di Dostoevskij, Drieu la Rochelle o (perché no?) Martin Amis? Non c’è ragione di avvalorare fonti di seconda o terza mano, soi-disants artisti la cui sola Musa è la decima, l’astuzia intrecciata a un ben dissimulato conformismo. Tutto ciò, se inteso in modo corretto, ha metodologicamente a che fare con il problema dell’Assenza: il Regno non passa per la mera “attualità”. Vale allora la pena spendersi per affermare un criterio di rilevanza.
 

“L’esperienza della bellezza ci spinge ad andare al di là di questo mondo, in un ‘regno di fini’ in cui il nostro desiderio ardente di immortalità e di perfezione trova finalmente una risposta”. Roger Scruton, filosofo tra i più autorevoli oggi, scomparso nel 2020, avvia qui una riflessione sulla bellezza che prescinde del tutto dalla retorica storicistico-espressionistica dell’“epocale”. L’Assenza di Dio – riformulo le parole di Scruton – attende in ogni tempo di essere interrogata in base al suo stesso presupposto, in altre parole proprio come Assenza (e Inconoscibilità, Irrappresentabilità, Differenza), mai dunque da punti di vista storico-dialettici, idealistici o materialistici che siano: e questo impone ascolto, sottomissione, silenzio.
 

Kiefer, Tuymans, Richter: ecco tre artisti viventi che tollerano (e per più versi sollecitano) agende interpretative di tipo “metafisico”; e nelle cui opere, per buona sorte, si cercherebbero invano le mediocri beatitudini della dissacrazione. Che accade però? Nell’uno, Kiefer, troviamo un pathos di tradizione romantica, vagamente associato a temi cosmico-cristianeggianti, di derivazione beuysiana, e grandi formati eseguiti a haute pâte; nell’altro, Richter, trattenute meditazioni sulla morte e sul mistero della bellezza congiunte a raggelate memorie classico-barocche (mi riferisco qui al suo catalogo “figurativo”); infine, in Tuymans, tracce dell’eredità rubensiana e la più sciolta riflessione sulla Grazia come talento. E allora? C’è forse una sensibilità, sia pure “metafisica”, che merita di essere considerata superiore alle altre? Più vera delle altre? Più odierna e “epocale”? Per niente: ciascun artista, se tale, prova con l’efficacia della sua opera l’integrità delle sue convinzioni di fondo. Si può ritenere che, nei tre artisti richiamati, i misteri della religione cristiana svolgano un ruolo cruciale, ancorché indiretto, nel dare forma a domande sulla vita e sulla morte che sono di tutti. Non sbaglieremmo troppo a farlo. O invece obiettare che quot capita tot sententiae. Comunque sia, resta che ci imbattiamo qui, in presenza dell’opera d’arte, in processi di autovalidazione di tipo retorico, non “oggettivo” o scientifico. L’immagine non vale come contenuto, dogma o “tesi”: può essere utile ricordarlo. Occorre divenire conoscitori sottili per sciogliere le ambiguità connaturate alle immagini e comprendere in dettaglio le più riposte abilità dell’eloquenza visuale. Per trarne, se ci è utile, “materia” di indagine più estesa.
 

La domanda diviene: come si scrive di un artista, di un’opera d’arte? Come si interpreta, “traducendo” dal visivo al verbale? Rispondo attraverso una metafora musicale, relativa all’esecuzione di una partitura. Tutto sta nelle dita che toccano la tastiera. Ci sono dita rozze, pesanti; e dita lievi, che producono suoni ilari e argentini. Il pedante scolio o la dimostrazione ben concatenata non costituiscono modelli espositivi appropriati. Può non essere semplice né immediato discernere le tante e disparate fonti figurative, cioè la madrelingua storico-artistica, cioè la “lingua degli affetti”, con cui ogni artista, nel pieno esercizio della sua difforme sovranità, sceglie di sedurre e persuadere. O riconoscere il merito di un’“inattualità” tenace e singolare. Il dogma hegelo-marxista dell’“inevitabilità” e conoscibilità in atto della storia universale, tuttora vigente dalle parti delle “metafisiche concrete” (o positive) e delle retoriche “epocali”, è quanto di peggio possa darsi per chi confida nelle ragioni della (giusta) filologia.
 

In sintesi: nessuna filosofia della storia, nessuna teoria del “rispecchiamento” (per carità!), per cui l’arte risulti essere “il proprio tempo appreso” in immagini (esistono molti “tempi” possibili nell’unico istante, come ho cercato di suggerire!). Nessuna monadologia “epocale”, se non secondo schemi storiografici frusti e invalidati. Nessun caliginoso nomos che discenda dall’epoca (questo è sociologismo, eccome! E richiamo normativo all’“attualità” della maggioranza. Exécrable). Nessun kairos, se non poggiante sulla nostra individuale, finita testimonianza. E invece kenosis, che a mio avviso vuol dire: rinuncia al fondamento.

L'estate Metafisica del Foglio

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