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Il mondo di oggi si è rotto: a margine del libro di Martin Wolf
Stati-nazione in crisi, Big Tech difficili da controllare, democrazie fragili di fronte ai nuovi autocrati. "La crisi del capitalismo democratico" pubblicato quest'anno in Italia da Einaudi (648 pagine, 24 euro) dallo scrittore britannico offre spunti interessanti per capire di più il nostro presente
Un’area del mondo, ai confini con l’Europa, lacerata da conflitti (Ucraina e Palestina). Guerre che si estendono (dalla Palestina al Libano). Timori di analoghi conflitti in altre parti del mondo (Cina-Taiwan). Stati di antica democrazia, come gli Stati Uniti d’America, nei quali le istituzioni democratiche sembrano vacillare. Affermarsi di democrazie illiberali e cioè di finte democrazie. Scarsa partecipazione politica ed elettorale delle popolazioni che, però, chiedono ancora più democrazia. Il mondo che ha attraversato mezzo secolo pacificamente, sembra ritornare nelle condizioni della prima metà del secolo scorso, quando fu squassato da due guerre mondiali che causarono 60 milioni di morti e tre volte tanti feriti e dal crollo di due democrazie nazionali come quella italiana e quella tedesca. Quali sono le attuali condizioni del mondo? Quali sono le cause di lungo periodo di questo malessere delle nazioni che ci deve preoccupare?
Fino a tempi recenti, il mondo si è retto su un equilibrio precario in cui diversi fattori si sono influenzati reciprocamente. Ora sembra che quell’equilibrio si sia rotto, che le democrazie si sbilancino e divengano fragili. Consideriamo i grandi binomi che hanno governato il mondo da settant’anni: Stato ed economia, democrazia e autocrazia, poteri nazionali e poteri globali, privato e pubblico, Occidente e Oriente, con l’aiuto dei dati raccolti in un’importante riflessione scritta da quello che è considerato il maggiore giornalista finanziario del mondo, Martin Wolf, in un libro intitolato “La crisi del capitalismo democratico”, pubblicato quest’anno in Italia da Einaudi (648 pagine, 24 euro).
Stato ed economia, che si sono sviluppati parallelamente e congiuntamente, ora tendono a divaricarsi. Istituzioni ed economia si sono sorrette reciprocamente (e dialetticamente) per almeno tre secoli. I mercati si sono potuti sviluppare solo grazie alla cornice assicurata dagli Stati, mentre gli Stati hanno potuti fiorire solo grazie alla ricchezza prodotta dai mercati: liberismo e liberalismo sono stati fratelli. Libertà economica e libertà politica si sono affermate insieme. Ora questo matrimonio è in crisi. L’economia è divenuta globale, gli Stati e le istituzioni sono rimasti nazionali. Mentre nel mondo aumenta l’eguaglianza, negli Stati aumentano le diseguaglianze. Le libertà economiche assumono dimensioni più vaste, quelle politiche restano nell’ambito degli Stati-nazione. La relazione tra democrazia liberale e capitalismo di libero mercato viene posta in discussione. L’eguaglianza politica aumenta, quella economica diminuisce.
La tendenza alla sostituzione di autocrazie da parte di democrazie si inverte. Il progresso del mondo è stato a lungo segnato da una progressiva erosione delle autocrazie e da uno sviluppo delle democrazie. Sempre più popoli sono stati chiamati a scegliere i loro governanti. Come osservato da Wolf, nel 2019 i paesi democratici a reddito alto contavano appena il 16 per cento della popolazione mondiale, ma contribuivano al prodotto globale per il 41 per cento a parità di potere d’acquisto e per il 57 per cento a prezzi di mercato. Inoltre, dei 20 paesi con livelli di corruzione più bassi, 18 sono pienamente democratici. Ora appaiono i segni di un’inversione di questa tendenza. Si nota una recessione delle democrazie. Queste diminuiscono oppure divengono più fragili. Al loro interno diminuisce la fiducia dei cittadini. Diminuiscono i votanti. I partiti raccolgono sempre meno aderenti e divengono gusci vuoti. Il volontariato in politica diminuisce e la politica diventa una professione. Cresce l’importanza del denaro nella vita pubblica. Si diffonde l’anti-elitismo e diminuisce l’epistocrazia. Le forze politiche diventano populiste e aggressive, rifiutano le regole, considerano nemici gli avversari, e contemporaneamente tendono ad appropriarsi dello Stato mediante la nomina di funzionari politici. Si sviluppano due fenomeni preoccupanti, lo sviluppo di forze illiberali nelle democrazie e la posizione di forza acquistata o riacquistata dalle autocrazie.
La globalizzazione, che ha avuto un moto accelerato dopo la Seconda guerra mondiale, sembra rallentare. Un indicatore del progresso della globalizzazione è offerto dal numero dei trattati internazionali firmati dal Regno Unito, che ammonta a più di 14 mila. Lo sviluppo del commercio mondiale, favorito prima da trattati bilaterali, poi da accordi multilaterali, infine da organizzazioni internazionali, quale, ad esempio, l’Organizzazione mondiale del commercio, ha favorito – come era negli intenti degli illuministi – un mondo più pacifico, ha incrementato i trapianti di istituzioni da Paesi sviluppati a Paesi meno sviluppati, ha consentito comparazioni tra ordinamenti e spinto a incentivare l’attecchimento di istituzioni democratiche in Paesi con regimi di altro tipo, così tenendo sotto controllo sistemi politici di tipo autoritario o illiberali. Al progresso della globalizzazione e alla sua accelerazione ultima possono attribuirsi alcuni benefici essenziali, quali l’uscita dalla povertà di una parte della popolazione mondiale e l’aumento delle aspettative di vita alla nascita. Come osservato da Wolf, negli ultimi due secoli la percentuale della popolazione mondiale in povertà estrema è scesa dall’80 al 10 per cento, nonostante gli abitanti della terra siano aumentati di più di sei volte. Il boom demografico è dipeso in buona parte dall’aumento dell’aspettativa di vita alla nascita, che in media, a livello mondiale, è passata da trent’anni circa nel 1800 a quarantasei anni nel 1950, a settantuno anni nel 2015. La tanto temuta immigrazione di stranieri, invece, non rappresenta un fenomeno vistoso, se si considera che nel 1960 il 2,6 per cento della popolazione mondiale viveva in un Paese diverso da quello di nascita, che lo stesso dato nel 1990 era del 2,9 per cento, nel 2010 del 3,1 e nel 2017 del 3,4 per cento della popolazione mondiale. Ora questo progresso della globalizzazione sembra essersi rallentato, per alcuni addirittura con un’inversione di tendenza e una rinazionalizzazione, oppure una riscoperta di poteri statali di limitazione del commercio e dell’insediamento di società provenienti dall’estero. Vengono reintrodotti dazi nazionali, che colpiscono la circolazione internazionale di merci o servizi. Gli Stati si dotano di poteri autorizzatori di investimenti stranieri sul territorio nazionale. Le catene globali del valore si accorciano. Lo sviluppo di sistemi regolatori globali diminuisce.
I poteri che si erano affermati nel mondo erano pubblici, mentre ora si è aperto uno spazio per l’espansione di poteri privati. I poteri che si sono sviluppati nel mondo nel giro di molti secoli sono stati in larga prevalenza pubblici, Stati e Imperi. Essi erano fondati su collettività o comunità locali, nazionali o plurinazionali. Erano diretti da case regnanti o rispondevano a popolazioni. Erano retti da regole definite leggi. Avevano apparati normativi, esecutivi e giudiziari. Erano separati dalle società civili e retti da norme dette di diritto pubblico. Avevano molti limiti, il principale dei quali quello territoriale. Ora, a questi poteri pubblici si sono affiancati poteri privati, costituiti da grandi società tecnologiche il cui ordinamento interno è liberamente autoregolato e la cui azione territoriale non ha limiti. Si sono sviluppati all’interno di un ordinamento giuridico, quello americano, ma sono stati circondati da una zona di immunità, perché, almeno nella fase iniziale, a essi non sono state applicate le norme antitrust (Daron Acemoglu, in un’intervista data a Repubblica il 15 giugno di quest’anno, ha osservato che negli Stati Uniti “abbiamo del tutto rinunciato all’antitrust” perché “non si sarebbe dovuto permettere a Google di comprare Youtube, a Facebook di comprare Whatsapp e Instagram o a Microsoft di controllare OpenAI), né disposizioni di regolazione. Sono stati sottratti a regolatori, sia nazionali, sia sovranazionali, salvo l’“Internet Corporation for Assigned Names and Numbers” – Icann, che a sua volta è un organismo privato. Grazie a queste condizioni, hanno potuto svilupparsi al di fuori dei territori nazionali, diventando globali. Svolgono funzioni che non implicano poteri autoritativi, ma raccolgono risorse che li hanno fatti diventare più ricchi di molti Stati (le “Big Tech” rappresentano il 34 per cento dell’indice Standard and Poor’s, che è tra le prime tre agenzie di rating al mondo, e valgono 15 mila miliardi di dollari, non molto meno del prodotto interno lordo della Cina). Grazie alla loro espansione mondiale e alla loro natura privata, possono fare arbitraggi fiscali, nel senso di scegliere di pagare le imposte nel Paese che presenta un sistema fiscale meno pesante. Sono ora entrati in collisione con ordinamenti sovranazionali, come quello europeo, che ne regola alcune attività, ma senza poterle condizionare globalmente, considerato che la loro attività si svolge anche fuori dei confini nei quali può operare l’Unione europea.
Il controllo delle “Big Tech” pone ora un grave dilemma. Se si sviluppa una regolazione nazionale, si corre il rischio di tarpare loro le ali, facendole diventare da organismi imprenditoriali globali modeste imprese nazionali. Dall’altro lato, lasciarle libere di operare finirebbe per protrarre l’attuale situazione asimmetrica tra regolatori e regolati. Infine, introdurre regolatori globali vuol dire mettersi d’accordo su princìpi, valori e regole che sono ora fortemente caratterizzati dalle tradizioni nazionali, come quelli della libertà di espressione, dei diritti d’autore, dei rapporti tra giornali e Internet, e così via.
Il mondo è stato dominato fino a ora dall’Occidente, mentre adesso l’Oriente bussa alle porte. I Paesi occidentali, prevalentemente europei, sono quelli che hanno raggiunto più presto un reddito alto e il benessere. Hanno poi colonizzato molte parti del mondo, e le hanno tenute sotto il loro dominio. Ora metà degli abitanti della terra ha spiccato il volo dal punto di vista economico e una buona parte di questi vive in Cina. Come osserva Wolf, a parità di potere d’acquisto, il prodotto interno lordo cinese già superava nel 2019 quello statunitense del 9 per cento, pur rimanendo inferiore del 33 per cento in termini reali. La popolazione della Cina supera di due terzi il totale della popolazione di Stati Uniti, Unione europea e Regno Unito. Se nei prossimi decenni il prodotto interno lordo pro capite a parità di potere d’acquisto crescesse da un terzo alla metà di quello statunitense, l’economia cinese avrebbe pressappoco le stesse dimensioni delle economie statunitense, europea e britannica messe insieme. In questo modo, la Cina si avvia a diventare una potenza almeno pari agli Stati Uniti, con cui già oggi rivaleggia. Per capire lo squilibrio che viene così a crearsi, si aggiungano – osserva Wolf – le debolezze dell’Occidente prodotte dall’ascesa del capitalismo della rendita, dalla precarizzazione, dalle crescenti diseguaglianze, dal pluto-populismo e, infine, dal nuovo conflitto tra “destra mercantile” con reddito alto e “sinistra bramina” con alto livello di istruzione.
La prima lezione che si può trarre dall’analisi di questi cambiamenti conferma un lontano insegnamento, quello di Adam Smith che, pubblicando nel 1776, lo stesso anno della Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti, il suo noto libro sulla ricchezza delle Nazioni, considerava l’intreccio tra economia e politica, e tra Stato e mercato perché né l’uno è estraneo all’altro, né l’altro vive una vita propria, indipendente dal primo elemento. La seconda lezione riguarda i soggetti che sono destinati a dominare il mondo. Se una volta questi erano gli Stati, ora sono anche potenti enti privati. Se una volta era l’Occidente, ora possiamo prevedere che l’Oriente diventerà il polo dominante. La terza lezione riguarda la “summa divisio” tra pubblico e privato, sulla quale la tradizione culturale occidentale è fondata, che è ora posta in dubbio, o diventa meno rilevante, o viene addirittura annullata. L’ultima lezione riguarda la necessità di riprendere la riflessione intorno a quello che Oswald Spengler chiamò, nel suo libro più letto, pubblicato nel 1918, “Il tramonto dell’Occidente”.