Estate con ester
Il caso “Baby Reindeer” in tribunale ci mostra che razza di pubblico siamo diventati
L'acclamata serie Netflix è al centro di una causa di risarcimento avviata contro la piattaforma per 170 milioni di dollari. Un processo che ci dimostra quanto siamo cattivi, ma pure fessi
Tutto è cominciato con l’effetto choc, altrimenti detto effetto wow. Vediamo cos’è. L’esempio più efficace viene dalla moda recente. Alessandro Michele fu Gucci – tutti lo ricordano come impareggiabile genio – portò sulle passerelle eccentricità incredibili, molto più incredibili della media fashion show. Le trovate furono parecchio vendute nei negozi per qualche stagione, e da allora in poi molti stilisti presero a sentirsi minus dotati a cucire solo vestiti normali. Il nuovo codice era solo quello di Alessandro Michele? Bisognava esagerare tutti?
Quelle sfilate di Gucci erano un altro segno dei tempi corrotti dell’attenzione, i nostri. L’effetto choc è dilagato ovunque. Il cinema, i libri, i social. La soglia dell’attenzione è precipitata sotto il pesce rosso, o lo spettatore lo pigli a paccheri per tenertelo avvinto, o quello ti preferisce le storie TikTok con quella ragazza coreana che si fa il trucco con sei mani di vernice. Arriviamo quindi all’industria dell’intrattenimento e come è stata corrotta dalla lebbra dell’attenzione: l’effetto wow ha generato casi come quello di “Baby Reindeer”, una serie tv che nella secca desolante è diventata capolavoro, certificato pure da Stephen King.
Di che parla, la serie? C’è tutto l’orrore che garba a questa generazione, piatto unico: stupro, stalking, malattia mentale. Le turbe del cervello sconnesso. In un mese “Baby Reindeer” è stato visto più di 56 milioni di volte. Ai primi posti del gradimento momentaneo 2024, l’anno prossimo ce lo scorderemo.
Non se lo scorderanno però quelli di Netflix, perché da grandi ingenui l’avevano presentata al pubblico come una storia vera basata sulla vicenda del comico Richard Gadd. La storia vera garba molto, come il crime nerissimo, è il pezzo centrale dell’anguria culturale recente: succoso e senza semi.
Il follower-spettatore, come previsto, si è buttato a capofitto nella storia, voleva saperne di più di Martha, la protagonista malata. Così in migliaia hanno cominciato a darle la caccia sui social. I risultati sono stati 1) pesante abuso online, 2) l’interrogazione parlamentare sul dovere di diligenza dei vertici di Netflix 3) una causa di risarcimento avviata contro la piattaforma per 170 milioni di dollari.
La notizia di qualche giorno fa è che il processo prosegue, e a quanto pare si mette male per i distributori. Che a maggio con cuore commercialmente troppo puro avevano dichiarato: “Una straordinaria storia vera basata sui terribili abusi subiti da Gadd da parte di una stalker condannata”. E’ un processo importante, questo. Più per il simbolo che per i soldi. Perché racconta l’ultima incarnazione di noi disgraziati spettatori: l’osservazione costante di vite altrui, la sparizione della privacy e la mortale confidenza a cui ci stiamo abituando con gli estranei ci ha resi tutti mezzi maniaci di internet.
Siamo un pubblico stranamente attivo. Siamo un pubblico pericoloso. Non più i gentili servetti del capitalismo, quelli che compravano il deodorante che passava la reclame. E’ un pubblico generatore di mostri, il nostro. Siamo cattivi ma pure fessi. Ci si lamenta dell’ennesimo sfaccendato uscito da “Temptation Island” (la trasmissione che guardiamo ironicamente) e che dopo sei mesi guadagna sei stipendi al mese con le creme proteiche. Ci lamentiamo del generalissimo Vannacci, che abbiamo fatto diventare autore milionario e siccome non bastava, pure parlamentare.
Fermateci, vi prego. Fate presto.