In the Third Sleep, Kay Sage, Oil on canvas, 1944 

Quei filosofi che si sorprendono davanti alla coscienza, lei che è lì da sempre

Massimo Adinolfi

Le idee di David J. Chalmers al congresso mondiale di filosofia che si tiene in questi giorni a Roma. "Perché mai dovrebbe esserci un'esperienza cosciente?". La scienza descrive il mondo, ma l'esperienza soggettiva resta un enigma

Il genere di domande con cui David J. Chalmers apriva il suo libro forse più importante, The Conscious Mind, è sorprendente. In realtà, quel che Chalmers trovava sorprendente non erano le domande, ma il loro oggetto, ossia la coscienza: “Perché mai dovrebbe esserci un’esperienza cosciente?” ecco una delle domande di Chalmers, che veniva istruita così: la scienza ci aiuta a descrivere il mondo in termini di campi, onde e particelle. L’interazione di tutta questa roba nello spazio-tempo – scrivo così, ma non credo proprio di poter mettere da una parte campi onde e particelle, e dall’altra lo spazio-tempo – l’interazione, dicevo, determina lo sviluppo di certi sistemi complessi, e tra questi del cervello. Fin qui, commentava Chalmers, nessun problema. Ci vogliono secoli di progresso scientifico per arrivare a nozioni come quelle di campo, o di onda, le stesse particelle, signoramia, non sono più quelle di una volta, e tutto questo progresso è impressionante, ma “non c’è alcun profondo mistero filosofico nel fatto che questi sistemi possono elaborare informazioni in modo complesso”. Quel che è invece profondamente sconcertante è che tutto questo dà luogo, in più, alla coscienza. È come se la scienza non avesse difficoltà, se non di dettaglio, nel dare una descrizione oggettiva del mondo, ma nessuna difficoltà di principio, che invece si presenta non appena si cerca di inserire nel quadro anche la mente cosciente. Chalmers fa l’esempio di un sonoro do centrale suonato al pianoforte: vibrazioni dell’aria, onde che colpiscono l’orecchio, segnali trasmessi alla corteccia cerebrale, selezione e categorizzazione di certi aspetti del segnale, “infine una risposta”. Che, descritta così, può ben essere rilasciata da un dispositivo tecnologico, da una macchina, da un automa: quello che volete. Ma c’è una differenza con l’automa, ed è la coscienza. Che, al suono del pianoforte, prova in più un certo effetto e vive una certa esperienza: “proprio quella”, chiosa Chalmers, e non un’altra, anche se non sono sicuro che sia corretta l’enfasi che mette in questa chiosa.

 
Ora, però, che cosa è veramente sorprendente, che io, con la mia coscienza in aggiunta, desti stupore in Chalmers ascoltando la nota suonata al pianoforte, o che a Chalmers paia naturale un mondo in cui nei pressi dei pianoforti ci possano essere automi in grado di rilasciare risposte appropriate? (Ma appropriate per chi?). Il mondo popolato di automi non metterebbe in alcun imbarazzo la visione scientifica del mondo, il mondo popolato di inesplicabili coscienze desta infinita sorpresa. Eppure, è col secondo che da sempre abbiamo a che fare, non certo col primo, che è piuttosto una costruzione intellettuale recente.

  
Siamo nei pressi dell’obiezione che Heidegger muoveva a Kant, benché il suo oggetto sia rovesciato: da Cartesio in poi, osservava Heidegger, ci si affanna a dimostrare l’esistenza del mondo esterno, quando la cosa veramente sorprendente è che si senta il bisogno di una simile dimostrazione, come se il mondo non fosse già sempre qui, sotto mano. Allo stesso modo, ci si affanna a trovare un qualche modo di integrare la coscienza nel mondo, come se in tutto questo daffare non ci fosse già sempre un certo impegno cosciente. Questa idea, di togliere qualcosa dal quadro per stupirsi poi di non potercela ritrovare, di non sapere come ficcarcela nuovamente, è quella che non convinceva Heidegger a proposito di Kant e, si parva licet, non convince neanche me.


Però mi sorprende fino a un certo punto, perché vedo bene quale straordinario incremento di conoscenze la scienza ha realizzato, quante cose sappiamo in più, da che abbiamo guardato oggettivamente il mondo, con gli occhiali della scienza, e va bene così. Non voglio mica revocare in dubbio tutto quello che grazie alla scienza sappiamo, ma solo suggerire che un simile progresso ha un piccolo prezzo, che consiste per l’appunto nel sospingere the conscious mind fuori dal quadro. Di qui tutti i tentativi – a vario titolo descrivibili come riduzionisti, o eliminativisti – di sbarazzarsene del tutto, ma di qui anche l’inespugnabile resistenza che vi oppone lo stesso Chalmers: qualunque spiegazione si vorrà dare del fenomeno della coscienza, dovrà, se vorrà essere una spiegazione, ricondurla ad altro, ma allora Chalmers, o chi per lui, potrà sempre obiettare (e sarà difficile dargli torto): “questo, però, non sono io!” (per i più attenti: vedete? Si tratta della chiosa che Chalmers si riservava di fare, poco sopra).
Tutto ciò non configura affatto un’impasse per la scienza, che anzi mette a segno sempre nuovi successi nella conoscenza degli organismi complessi. Cionondimeno, sarà chiaro perché Chalmers ha vinto lo scorso anno la scommessa con Cristoph Koch, lo scienziato che venticinque anni prima aveva sostenuto che si sarebbe trovato, in capo a un quarto di secolo, il meccanismo neuronale che produce la coscienza: se infatti disegni un mondo in cui non c’è spazio per il soggettivo, non sorprende che poi non ce lo trovi, e se anche qualcuno provasse a sostenere di aver trovato il modo di farlo scaturire sarà sempre possibile obiettare che è altro da ciò che si prova in prima persona: certo che è altro, lo è per definizione!

 
Negli ultimi venticinque anni, Chalmers ha scritto molto. L’ultimo suo ponderoso saggio, “Più realtà. I mondi virtuali e i problemi della filosofia”, è una brillante sintesi del suo pensiero. La tesi principale è che il virtuale non è meno reale della realtà. Più semplicemente si può dir così, che anche il senso della realtà muta (per la verità, non mi pare sorprendente). Chalmers dedica un capitolo anche ai problemi della mente, dove affaccia l’ipotesi che gli strumenti della mente (un tempo il taccuino, oggi, tipicamente, lo smartphone), lungi dall’essere semplici ausili “possono letteralmente diventare parti della mente”. Forse si dovrebbe spiegare meglio cosa si intende per “letteralmente”, ma l’ipotesi della mente estesa è interessante. Ed è per l’interesse che le sue idee suscitano che Chalmers si è guadagnato un posto di assoluto rilievo nel panorama della filosofia della mente contemporanea: a buon diritto è tra gli ospiti principali del World Congress of Philosophy, che si tiene in questi giorni a Roma e che, se non è sorprendente, di certo è impressionante per numero di ospiti e varietà di prospettive. Non so se una così ricca pluralità di voci dimostri qualcosa a riguardo della filosofia, se sia in buona salute, ad esempio, o se non rischi di risolversi in un mucchio di argomenti e ricerche particolari, senza più alcuna ambizione di conferire a esse unità di senso: ma forse, più banalmente, la finalità di simili kermesse internazionali non deve avere necessariamente a che fare con ciò che desta sorpresa in filosofia.