Lino Jannuzzi, un gatto col papillon
Vita e militanza consapevolmente malvissute. Aveva il senso del potere, dell’amicizia, del gusto e dell’amour de soi. Balzacchiano
Siccome sapeva tutto, perché era un gattaro con i baffi ma anche un gatto col papillon, Lino Jannuzzi era un mistero solo a sé stesso. La finzione era la sua allegria segreta, il suo strumento di lavoro nell’accertamento parossistico della verità. La sua natura non era quella stanca del giornalista, sebbene balzachiano per professione (e il libro minuscolo appena pubblicato da Claudio Cerasa va letto pensando a lui). Nemmeno quella del narratore, sebbene i grandi processi dal Sifar a Tortora a Buscetta a Andreotti, e i sogni di Pietro Nenni addormentato su una panchina, li ricorderemo nella sua prodigiosa messinscena, e le altre varianti della memoria a verbale saranno semplicemente dimenticate. Del suo dongiovannismo, della mascheratura goliardica, del poker con Renato Salvatori, dei tori accompagnati senza toccarli nell’encierro di Sanfermines, delle decappottabili, dei sigari, dei tweed e delle rilegature librarie entusiasmanti, della pesca al largo del Cilento hemingwayano, del Martini secco e gelato e della soppressata calabrese e degli zuccheri reali nella cassata siciliana, neanche a parlarne, erano i dettagli del suo professionismo nel mestiere della socialità, della conversazione, dell’intimità e dell’amicizia.
Lino era un moralista, non ho mai capito se lo sapesse o quanto ne fosse cosciente, e basta. Aveva ereditato da Giovanni Macchia, il grande francesista che dei moralisti del Seicento sapeva tutto, una splendida domestica di lingua spagnola, autoritaria e anche dispotica nel tratto, dopo che il professore era caduto da una scala alla ricerca di un libro, e ne era morto. Parlava con ammirazione sorniona di quel grande conoscitore dell’amour propre, che è la vanità incardinata nella stima degli altri e molto altro di ciò che siamo noi esseri umani traversi, nella versione meschina un morbo universale e anche molto contemporaneo. Lui ne era esente, il suo era un romantico amour de soi, come in Jean-Jacques Rousseau, un credersi al di sopra e al di sotto della linea di approvazione sociale così importante per noi vanitosi, indifferente ai grandi felini.
Amava il potere, aveva il senso del potere, faceva la politica in compagnia delle sue ombre, ma l’unico lusso che conosceva era la dissipazione ascetica che lo ha lasciato alla fine nella desolazione dell’onestà, avvolto in un sudario in un ospedale di Centocelle dove è stato trasportato dal Pigneto. Si considerava estraneo alle pinzillacchere dell’opinione andante e benpensante, perché lo era. Liberale della schiatta radicale, un po’ anarchico per insofferenza e socialista secondo la vulgata del primo centrosinistra, che amava con la tenerezza del quieto vivere, democristiano per temperamento meridionale, Jannuzzi fu difensore accanito della Repubblica dei partiti, di Andreotti e Cossiga tra i molti, uno stato battezzato per lui dal generale Mark Clark liberatore di Napoli, la sua città.
Nelle montagne di Grottolella, negli anni Venti, ancora si portavano a nascere i bambini per selezionare i corpi resistenti al freddo, ma la famiglia era napoletana di adozione. Pensava e sapeva che la mafia siciliana è un malostato, ma pur sempre uno stato, con le sue regole da conoscere, da imbrigliare nell’equilibrio dei poteri, delle garanzie giuridiche senza eccezione, alla Sciascia, e considerava la vittoria dei corleonesi stragisti la più grande sciagura appaiata solo dai modi respingenti di combatterla con pentiti e 41-bis. I processi per diffamazione sono stati la sua medaglia, il blasone di una vita e di una militanza consapevolmente malvissute, per evitare quella modesta realidad que es un efecto producido por la falta de alcohol, scherzava sempre. A un certo punto un galantuomo come Ciampi lo ha riconosciuto per uno dei suoi e lo ha graziato mentre bisbocciava a Parigi con noi, suoi amici, in un albergo di Saint-Germain a due metri dalla Brasserie Lipp.