Opera

Ermione e fiamme. Stasera a Pesaro “non c'è che una nota: quella dell'ira”. L'opera di Rossini, da vertigini

Alberto Mattioli

L'energia funambolica e magmatica del capolavoro rossiniano, diventato ormai mito, ritorna sulle scene per infuocare palco di Pesaro.

Il Festival dell’estate italiana resta comunque e sempre il Rof di Pesaro, monografico e assolutista, per un pubblico di rossiniani integralisti fino al fanatismo. Mercoledì, inaugurazione con un “Bianca e Falliero” abbastanza soddisfacente da sentire e tremendo da vedere. Ma l’attenzione si concentra sull’altra nuova produzione, l’“Ermione” che debutta questa sera e che promette bene per combinato disposto di direttore (il “rom” Michele Mariotti, “rossiniano ottimo massimo”) e cast (Anastasia Bartoli, Enea Scala e Juan Diego Florez): stranamente per le abitudini pesaresi, c’è perfino un regista vero, Johannes Erath.
E soprattutto c’è Ermione, anno di molta grazia musicale 1819, questo capolavoro assoluto e spiazzante, vertice (forse) del vertiginoso settennato napoletano, dal 1815 al ’22. Rossini arriva a Napoli dal nord e dalla sua idea di un’opera seria, classica, ordinata, regolare, tutta simmetrie e clarté. E scopre una metropoli musicalmente molto più avanti, dove si è assaggiato Spontini (dunque, per li rami, Gluck) e gli intellettuali maneggiano già Shakespeare o Walter Scott, mentre la Restaurazione ribolle di rivoluzioni e carbonerie.

 

La tragedia non può più essere raggelata nella compostezza canoviana di Tancredi. Tutto è più grande: le forme si allargano, la vocalità diventa funambolica, le passioni esplodono. La materia teatrale di Ermione è incandescente, forse perfino di più che nella sua fonte, Andromaque di Racine. E’ una storia di amori non corrisposti: Oreste ama Ermione che ama Pirro che ama la sua prigioniera Andromaca, la quale ama solo il defunto marito Ettore e il di lui figlio Astianatte. Quando Pirro sposa Andromaca, Ermione incarica Oreste della vendetta, salvo maledirlo quando lui si presenta con il pugnale ancora fumante del sangue di Pirro. Già il finale tragico, all’epoca, era l’eccezione e non la regola. Ma in tutta l’opera il tempio marmoreo della musica rossiniana viene scosso dall’interno dal divampare di smanie, deliri, furori, nemiche stelle e barbari dolor. Stendhal esagerava quando scriveva che in Ermione “non c’è che una nota: quella dell’ira”, ma in fin dei conti coglieva nel segno. Questi parossismi portano le voci sulle montagne russe e tendono la Forma fino all’estremo. Finché, nel secondo atto, la Gran Scena di Ermione non la fa implodere: ed è un unicum in tutto il teatro rossiniano, un magmatico sovrapporsi di recitativi vertiginosi, cantabili disperati e cabalette furibonde, di una potenza tragica letteralmente inaudita. Dopo un duetto “di sorbetto” per seconde parti che ha l’unico scopo di far rifiatare la primadonna, il duetto finale fra Ermione e Oreste porta di nuovo al parossismo loro e sì, alla catarsi delle lacrime noi. Al Gioacigno non resterà, concludendo la carriera italiana quattro anni dopo, che tentare di ricomporre i pezzi di un teatro che gli era esploso fra le mani: e sarà quell’opera mostruosa, proprio nel senso etimologico, che è “Semiramide”.

 


Ma Ermione è anche la dimostrazione che, a differenza di quello che molti pensano, noi non siamo necessariamente più stupidi dei nostri nonni. L’opera è tornata sulle scene con la riscoperta di Rossini in generale e di quello “serio” in particolare. A causa dell’immane difficoltà di esecuzione, e di trovare un’Ermione e forse ancora di più un Pirro all’altezza, continua a vedersi poco. Però lo status di opera-mito le è ormai ampiamente riconosciuto. Fin dalla prima ricomparsa al Rof, nel 1987, con una Montserrat Caballé che non aveva aperto lo spartito e nemmeno il libretto, e quindi dell’opera ne cantò più o meno mezza e con un testo fatto solo di a, e, i, o, u. L’unica frase dell’abate Tottola che la Sublime Cialtrona scandì, indicando Andromaca, cioè Marilyn Horne, fu: “Questo avanzo di Troia”. Ma per la sua sfortuna, era appena uscito il disco con la Gasdia (per inciso, mamma della succitata Bartoli, unico caso nella storia di madre e figlia che hanno cantato entrambe Ermione) e l’opera la conoscevamo, noi: e buammo la Montse con una voluttà di cui resta traccia su YouTube. Che capolavoro immenso, però.
 

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