Lino Jannuzzi, finzioni e avventure. Primo episodio

Mattia Feltri

Vita e fatti (più o meno) notevoli di un grande giornalista e dell’Italia che ha visto. Si comincia con Hitler a Napoli, la repulsione di un ragazzino per la ginnastica, la città trasformata dagli americani

 

La camera ardente di Lino Jannuzzi aprirà oggi dalle ore 11   alla Sala dei Caduti di Nassirya al Senato. Ingresso principale.

 

Nel 1998, quando Lino Jannuzzi compì settant’anni, Mattia Feltri scrisse per il Foglio una lunga biografia dialogata, un longform in tema di giornalismo, politica e soprattutto vita avventurosa e ben malvissuta, pubblicata a puntate e successivamente raccolta in un libro arricchito dalla vignette di Vincino, “Jannuzzi - Settant’anni di finzioni e di avventure”. Da oggi il Foglio la ripropone ai suoi lettori.


   
Fu il giorno della grande visita di Adolf Hitler a Napoli che Lino Jannuzzi maturò definitivamente la propria repulsione per le attività ginniche. Era il 4 maggio del 1938, e faceva molto caldo. Fino ad allora, con la complicità dei professori, Lino era sempre riuscito a evitare il sabato fascista; ma quella volta, a causa dell’eccezionale rilievo dell’ospite, non ci fu nulla da fare. Al padre di Lino toccò anche di spendere i soldi per la divisa, e a Lino tutti i risparmi per il chinotto, unico sollievo nell’attesa, sotto il sole, di un Führer drammaticamente in ritardo. Via Caracciolo e la Villa Comunale erano bellissime e luminose, ma l’afa insopportabile. Poi c’erano i soliti zelanti: “In riga! Petto in fuori!”. Una faticaccia. Gli altri, almeno, avevano nelle gambe l’allenamento di tante adunate; poi, in fatto di prestanza, Lino pagava la svogliatezza con cui aveva preso parte alle lezioni di educazione fisica e i due anni di differenza coi compagni di classe. Lino, infatti, aveva solo dieci anni e frequentava già la prima ginnasio. Era nato il 20 febbraio 1928 a Grottolella, in Irpinia, ma era cresciuto a Napoli, dove il padre prestava servizio in qualità di maresciallo nei Reali Carabinieri. A ragione della propria importante carica, il maresciallo Jannuzzi spedì il figlio alla prestigiosa scuola froebeliana di Salita Stella, dove il ragazzino fu iscritto con un anno d’anticipo. “È per la tua spiccata propensione agli studi”, dissero i genitori, ma lui ancora oggi pensa volessero levarsi di torno un bambino pestifero.
Il secondo anno scolastico, Lino lo guadagnò licenziandosi dalle elementari dopo la quarta classe; poi saltò anche la quinta ginnasiale e la seconda liceo, e nel giugno del 1943 si diplomò trionfalmente all’età di quindici anni, in una Napoli affamata e sotto le bombe degli Alleati.

 

Lasciò il liceo Vittorio Emanuele di piazza Dante accompagnato da una fama guadagnata conquistando con la dottrina la simpatia dei docenti e con la goliardia quella dei compagni. Stringeva amicizia specialmente con i reprobi, che erano anche i più divertenti e con i quali si distinse per il disprezzo della disciplina. Tuttavia i professori erano comprensivi, in particolare quello di greco e latino, che dettava la versione, poi usciva dall’aula permettendo a Lino di andare a tradurla alla lavagna a vantaggio dell’intera classe. Il professore assegnava nove a Lino e sei agli altri, fingendo di non essersi accorto di nulla. In realtà non trovava un modo migliore di aiutare quei ragazzi, che avevano trascorso la notte nei ricoveri sotterranei oppure nelle gallerie della metropolitana, più pulite e ariose, aspettando sui libri la fine dell’allarme aereo e una tazza di ciofeca calda, l’infuso di erbe pomposamente spacciato per caffè.


 

I napoletani festeggiarono la Liberazione dando l’assalto all’acquario della Villa Comunale, la cui collezione era celebre in tutta Europa. Finirono in padella pesci di ogni specie, comprese quelle tropicali, e dei rarissimi molluschi e crostacei del golfo, oggi introvabili, si fecero antipasti e zuppe. Ne beneficiò pure il comandante della Quinta Armata, il generale Mark Clark, che si divorò il lamantino lesso con cui i napoletani lo accolsero in citta e gli manifestarono gratitudine.

  

I tedeschi se n’erano appena andati, lasciando in eredità ai napoletani l’incendio dell’Archivio di Stato e i cadaveri di alcuni ragazzi fucilati senza un motivo.
Lino Jannuzzi ricorda che il padre gli impose i calzoni corti, perché magro com’era potesse dimostrare meno dei suoi quindici anni. E ricorda i soldati di Hitler, in colonna, in direzione nord; si la­sciavano la città alle spalle prima che arrivassero gli americani. Fu allora che cominciarono le epiche quattro giornate di Napoli. E adesso, quasi cinquantasei anni dopo, Jannuzzi si accende un sigaro e sorride: “Non vi dico tutte le fregnacce che sono state raccontate sulle famose quattro giornate di Napoli. Ma le cose andarono così. Tanto per cominciare le giornate non furono quattro, ma sì e no una e mezza…”.


 

Andarono così: i tedeschi, che per Jannuzzi erano indiscutibilmente dei porci maiali, si stavano ritirando. Dove capitava razziavano, prendendosi i viveri per il viaggio e una donna per pochi minuti. E più in città diminuivano i tedeschi, più aumentavano i patrioti; li si vedeva scendere dalle terrazze, schiamazzanti, coi fucili in mano; sparacchiavano senza strategia e senza profitto. Rischiarono persino di colpire dei napoletani, affacciati alle finestre per capire quel che stava capitando, e fra di essi Lino, che quindicenne, coi calzoni corti e le gambe secche come chiodi, tutto poteva sembrare fuorché un tedesco o un fascista. In questo gran fuoco d’artificio, ad alcuni soldati della Wehrmacht, convinti di essere vittime di tradimento e stanchi di farsi tirare alle spalle, saltarono pure i nervi. Tornarono sui loro passi e restituirono il saluto, per di più avvantaggiati, sul nuovo nemico, dall’abilità nel maneggiare le armi e dalla bontà dell’equipaggiamento.


 

Anche Lino scese in strada e già allora ebbe l’impressione che il danno provocato da quella tardiva e sconclusionata rivolta fosse superiore al tornaconto. In qualche caso la buona volontà dei partigiani fu evidente, specie negli scugnizzi, che attrezzati di bastoni e pietre si lanciavano contro i carri armati. A piazza Dante un ragazzino rimase sotto i cingoli. Non era il primo, e non fu nemmeno l’ultimo, ma Lino lo vide inciampare e finire nella polvere e poi sotto al carro armato, e gli altri farsi attorno, e sentì i pianti e le grida e oggi ricorda che quel caso destò un certo scalpore.
II bordello andò avanti per quasi una settimana, nonostante di tedeschi non ce ne fosse più uno. Soltanto che gli americani ci misero una settimana ad arrivare, a causa del solito loro scrupolo estremo: niente body bag. I napoletani svaligiarono quel che si poteva svaligiare, compreso, appunto, l’acquario comunale, e quando seppero che il generale Mark Clark era alle porte di Napoli con i suoi uomini gli lessarono il lamantino, ultimo superstite della piscina.

 

II mattino in cui gli americani entrarono a Napoli, il mondo cambiò. Cambiò specie per chi, come Lino, aveva conosciuto soltanto il fascismo e la guerra. Quel giorno, semplicemente, successe l’iradiddio. I soldati della Quinta Armata faticavano a camminare per le strade, perché i bambini gli saltavano attorno strepitando, i vecchi gli allungavano bottiglie di mediocre vino rosso, e le ragazze gli si gettavano al collo per baciarli sulle guance. In cambio ottenevano pacchetti di sigarette e scatolette di carne che a Lino sembravano deliziose. Non era l’unico. La prostituzione proliferò rapidamente, incentivata dalle scatolette, e si improvvisarono case d’appuntamento. I soldati entravano con le scatolette in grandi stanze in cui le donne sedevano su sgabelli poggiando la schiena al muro. I clienti – che si trovavano di fronte ragazze e madri dalle facce comuni e vestite con gli abiti di sempre – ridacchiavano nervosamente e si davano di gomito. Gonfi di vino, con le donne che collaboravano blandamente e con le risate dei commilitoni alle spalle, facevano quel che potevano, cioè poco. E quel poco male. Gli altri deponevano la scatoletta, e se ne andavano.

 

   

A Napoli si prostituirono tutti, donne e uomini, di ogni ceto. Le puttane da marciapiede si accontentavano delle scatolette. Le puttane da salotto strappavano compensi più pregiati: abiti, buone pietanze, qualche modesto gioiello. Gli ufficiali si acquartieravano nelle case dei gran signori, e lì capitava di tutto. Questo racconta Jannuzzi della Napoli di quei giorni: un postribolo a cielo aperto, dopo la rigidità del regime fascista, la miseria provocata dalla guerra, la paura delle bombe. Le ragazze avvicinavano i soldati americani e si facevano accompagnare al cimitero. Succedeva la domenica. Ci si sistemava dietro alle lapidi, e la gente diceva che ormai al camposanto giacevano più vivi che morti. Il Bureau of Psychological Warfare stimò in quarantaduemila (su centoquarantamila nubili) il numero delle prostitute occasionali o effettive.
I ragazzi napoletani, squattrinati, si ingegnavano. Lino e gli altri andavano nei circoli dove gli americani facevano notte bevendo e ballando il boogie-woogie. Le ragazze non mancavano mai. Le ore passavano, e gli americani ballavano sempre meno e bevevano sempre più. Poi smettevano con la danza e con l’alcol, e crollavano sbronzi. “Allora con le puttane ci ballavamo noi, che non avevamo una lira, ma eravamo gli unici rimasti con qualche energia”. Lino l’ha sempre considerato un prologo del piano Marshall.

  
Chi non si prostituiva, rubava oppure si dedicava al contrabbando. Si dice che alla guida di questa universale associazione per delinquere ci fosse addirittura il colonnello Charles Poletti, luogotenente del generale Clark e rappresentante dell’Allied Military Government in città. Jannuzzi ritiene che Poletti si sia limitato a tollerare, e semmai a mangiarci un po’ sopra. Poté farlo per due  motivi. Il primo è che si aggiudicò subito il favore della popolazione, affacciandosi dal balcone di Palazzo Reale su una gremitissima piazza  del  Plebiscito e gridando in uno stentato e pittoresco italiano: “So che cosa già si dice fra voi: Poletti, Poletti, meno chiacchiere più spaghetti”. Fu un tripudio.


 

Il secondo motivo è che Charles Poletti era amico del boss Vito Genovese. Nato a Ricigliano, in provincia di Potenza, Genovese era stato il braccio destro di Lucky Luciano a New York. Un’accusa di omicidio lo costrinse a tornare in Italia, dove si mise a capo della camorra di Nola e dove trovò il modo di familiarizzare con Benito Mussolini, dal quale non ebbe solo il privilegio dell’amicizia, ma anche l’onorificenza di Cavaliere del lavoro. Le disgrazie del Duce non coincisero con quelle di Genovese, che allo sbarco degli americani a Salerno fece valere il proprio bilinguismo e si offrì come interprete. Gli bastarono poche settimane per allargare le competenze al contrabbando e alla gestione di buona parte della borsa nera. Alla borsa nera di Forcella si vendeva la merce più disparata. Lino Jannuzzi vi comprò le coperte militari con cui si fece confezionare un cappotto e il primo doppiopetto della sua vita. Mezza Napoli, in quei mesi, si vestì con le coperte militari rubate dai camion della Quinta Armata. Qualcuno, per attribuire un minimo di assortimento al guardaroba, usava tingere le coperte, anche se l’operazione era sconsigliata poiché si correva il rischio di restringere il tessuto; Jannuzzi trovò accettabile il colore originario, e se lo tenne.

   

(1 - continua)

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