Estate di carta e inchiostro. I libri da portare in vacanza, o per chi resta in città

Annalena Benini

I genitori secondo Franchini e Trevi, le poesie di Cavalli e Gualtieri, le bambine silenziose e segrete di Verna e Bonazzi. E sì, è ora di rileggere “L’amica geniale”

A giudicare dai tentativi di spiritosaggine provocati dalla classifica del New York Times, che ha messo al primo posto tra i cento romanzi del secolo “L’amica geniale”, a giudicare anche dalla stizza che diventa sarcasmo e che diventa volgarità, ci sono ancora un sacco di persone che non hanno ancora letto i quattro romanzi di Elena Ferrante: il primo è uscito nel 2011, tredici anni fa, un tempo abbastanza breve per ritenerlo totalmente contemporaneo e nuovo, un tempo abbastanza lungo per giudicarlo senza irritazione. Un tempo perfetto per portarlo in vacanza e finalmente scoprire, senza drammi, di che cosa si tratta: ho controllato sulla mia vecchia copia, bozze rilegate da e/o, sono 327 pagine e fin dalla prima succede qualcosa di molto evidente, che Daniele Del Giudice (cito un uomo per rassicurare gli animi più fragili e dunque iracondi) ha espresso magnificamente in una raccolta di saggi a cura di Enzo Rammairone che Einaudi ha ripubblicato in edizione tascabile (perfetta per il mare o la montagna, anche questo è un consiglio): in “Del narrare”, Del Giudice spiega che cos’è per lui il romanzo, e sono certa che “L’amica geniale” e tutta la tetralogia rientrino in questa definizione. “Il romanzo è per me la zona, zona di detriti, materia calda e brulicante. Zona delle emergenze, di quel che emerge ai limiti del già conosciuto, informe, incompiuto, appena nato. Parlo di ‘zona’ e ‘campo di energie’ perché non è nelle mie possibilità chiarire o definire i caratteri dell’atto del narrare, né della zona stessa, posso soltanto indicarla, forse delimitarla: per certo so che è la zona di chi cerca e racconta”. Del Giudice aggiunge, molte pagine più avanti, che la letteratura racconta una sola cosa: il mutare dei sentimenti, perennemente identici a se stessi.

   
La zona di chi cerca e racconta le zone di detriti, insieme al mutare dei sentimenti, è dunque il criterio che voglio usare questa volta per consigliare disordinatamente un po’ di libri per l’estate, nuovi e vecchi, ma che si inerpicano in un luogo dove tutto è imprevisto. “E’ campo di forze del tutto contrastanti e molteplici, vitali, potenti – e tale potenza, sia ben chiaro, tale forza non viene da noi, se non in minima parte, ma dalla zona stessa, che al pari delle forze vitali contiene anche energie distruttive, mortifere. E’ la zona dove davvero diventa difficile, e forse anche ridicola, qualunque distinzione tra ‘io’ e ‘mondo’, tra memoria e invenzione, tra linguaggio e realtà, tra visionarietà e ricerca”. E di quello che troveremo nella zona non sappiamo nulla prima di metterci piede. Del Giudice si riferisce a chi scrive, ma com’è bello quando questo mistero riguarda anche chi legge.

 
Allora per l’estate non solo romanzi, perché si può cercare, arrampicarsi e raccontare anche nei saggi (“Mostri. Distinguere o non distinguere la vita dalle opere: il tormento dei fan” di Claire Dederer, edito da Altrecose, e anche “Potere di altro genere. Donne, femminismi e politica” di Giorgia Serughetti, pubblicato da Donzelli) senza dimenticare la poesia, come il nuovo “Ruvido umano” di Mariangela Gualtieri (Einaudi), che cerca nella zona tra il selvatico e l’umano, tra il microscopico e l’universale. Come “Il mio felice niente”, di Patrizia Cavalli (sempre Einaudi, a cura di Emanuele Dattilo: la zona è quella intorno al divano e alle sedie, quindi infinitamente grande). I libri di piccole dimensioni come questi sono perfetti per le valigie e soprattutto per i bagagli a mano. Ma per quasi tutto c’è il kindle, e del resto Patrizia Cavalli si arrabbiava con chi aveva la fissazione di viaggiare leggero e si inorgogliva per il bagaglio più striminzito, lei preferiva molte valigie e allora chi viaggia pesante, chi corre il rischio di volare con il bagaglio in stiva, potrà facilmente portare con sé anche l’ultimo romanzo di Alessandro Piperno, “Aria di famiglia” (Mondadori), che esplora una zona borghese, autodenigratoria, di certo molto ironica ma non in quel modo rigido e incartapecorito, estenuante di chi non ammetterà mai di avere avuto torto. Il protagonista di questo romanzo, somigliante all’autore (ma come scrive Del Giudice è ridicolo cercare di distinguere tra memoria e invenzione), non si esaurisce e non coincide affatto con l’elogio del politicamente scorretto, con la commiserazione per la reputazione perduta ingiustamente: quest’uomo (cinquantenne benestante colto ed esausto) scopre la sua stessa ignavia, la sua stessa pavida accettazione di regole non ineluttabili, scopre insomma di essere anche uno stronzo. E lo ammette, e lo accetta! Certe cose succedono solo nei romanzi.
A proposito di età di mezzo ma da un punto di vista femminile, Feltrinelli ha pubblicato “A quattro zampe” di Miranda July (regista, sceneggiatrice, attrice, cantante). E’ un mondo molto più indie e radical di quello raccontato da Alessandro Piperno, con una voce comica, ma anche qui la zona d’interesse riguarda il bilancio di una vita che si avvicina all’età di mezzo e che guarda con sgomento ed entusiasmo le spinte del desiderio. Assecondarlo, evitarlo, tenere duro, sfasciare tutto, lasciarsi andare. C’è il tentativo di dire una verità che riguarda l’invecchiare, e di dirla con allegria. C’è anche il benessere economico necessario a quell’allegria. Miranda July non ha lo sguardo fermo e tagliente di Nora Ephron, offre invece tutto lo scatenamento del disagio interiore, sia nella frivolezza che nella profondità. Egocentrica, narcisista come un uomo, ma più psichedelica di un uomo.

  
Ci sono poi cinque romanzi in finale per il premio Campiello e sono tutti di grande qualità: potreste sceglierne uno per le vacanze e portargli fortuna per la vittoria. “Il fuoco che ti porti dentro” di Antonio Franchini (Marsilio) porta con sé un grande personaggio negativo, la madre dell’autore, che ha fatto innamorare tutti quelli che hanno già letto il romanzo, alcuni gridavano, commossi: è mia madre!, mentre “La casa del mago” di Emanuele Trevi (Ponte alle Grazie) offre con ricordi, incontri e digressioni, con quella scrittura che procede per cerchi, per ovali, per figure morbide, la figura misteriosa del padre, psicoanalista junghiano celebre e amato dai pazienti, e il suo studio che diventa casa e adesso è forse infestato dai fantasmi, forse luogo della magia di chi ha sempre cercato di guarire le anime e che non voleva che l’amore fosse insidiato dalla troppa conoscenza. “Alma” di Federica Manzon (Feltrinelli) è un romanzo ventoso sul ritornare. A Trieste e nei luoghi non scontati della guerra dei Balcani degli anni Novanta, storia che si confronta con la guerra in Ucraina. C’è tutto, in questo romanzo, e ci sono i corpi nudi e i bagni in mare. Poi “Locus Desperatus” di Michele Mari (Einaudi), romanzo degli oggetti che già abbiamo trovato in tanti suoi libri: “Senza le mie cose io non sarei stato più io, e senza di me loro non sarebbero state più loro”, oggetti di grande gusto, grande nevrosi e tormentato sentimento. Per chi vive di ossessioni, per chi ha ossessioni anche anti estive, è il libro perfetto, in cui la cura degli oggetti corrisponde alla cura della lingua. E infine Vanni Santoni con “Dilaga ovunque” (Laterza), romanzo e saggio sull’arte (non solo) sui muri, sui banchi di scuola, nelle metropolitane, nelle caverne e da sempre ovunque: street art, graffiti, dipinti, insulti, tutto quello che vogliamo dire, raccontare, incidere su un albero, confessare di noi e di tutti.

  
Segnalo una volta ancora il romanzo di Silvia Avallone (Rizzoli) che ha appena vinto il premio Viareggio. “Cuore nero” sa esplorare davvero la giovinezza e il desiderio di riscatto, la colpa da cui non si torna indietro, l’ambiguità e la rabbia di un’età difficilissima. Il male che non copre mai tutto, come la neve. La zona di interesse è l’adolescenza bloccata in un corpo adulto, è una vita di donna che si è fermata, ha pagato, e ora cerca una strada per ricominciare. Per chi muore di caldo, ci sono anche scene molto refrigeranti di freddo totale.


E poi i racconti di Eshkol Nevo, “Legami” (Feltrinelli Gramma) che sono capaci di dare voce, corpo, vitalità e malinconia ai rapporti umani, alle ragioni e ai torti, e il “Dizionario segreto d’infanzia” di Arianna Giorgia Bonazzi (Topipittori), che mi è piaciuto tanto perché racconta di una bambina segreta e piena di segreti e del suo incontro solitario con le parole e dunque con il mondo. “Non mi era consentito frequentare altri bambini. Mia madre si beava all’idea che non fossero ‘alla mia altezza’”.


Sto leggendo “I giorni di vetro” di Nicoletta Verna (Einaudi stile libero) e mi appassiona quindi ve lo consiglio: ci sono modi di dire romagnoli che riconosco, c’è una zona del mio mondo che mi interessa ancora scoprire e c’è una ragazzina che non parla, e le ragazzine che non parlano sono un tema letterario irresistibile, soprattutto quando, come per magia, iniziano a parlare. O a ricordare, come Nadezda Mandel’stam che nel secondo volume delle sue memorie, pubblicate da Settecolori, “Speranza abbandonata” (il primo, bellissimo, era “Speranza contro speranza”) racconta con precisione, ostinazione, intelligenza e ironia, la persecuzione del potere di cui fu oggetto con il marito Osip Mandel’stam, uno dei massimi poeti russi del XX secolo. È un libro per bagagli e cuori pesanti, ma davvero rende onore a una donna che visse tutto come questione privata, e come questione privata e poetica riesce a rendere tutta la drammaticità e la ridicolaggine, le meschinerie e le grandezze dei poeti e degli intellettuali durante il regime del terrore.

 
Spero che basti, ma so che non basta mai e infatti non si può partire senza un libro di Yasmina Reza (Adelphi) in valigia, non si può stare in mezzo alla gente o in mezzo a una vacanza senza il suo sguardo sugli esseri umani. E non si può arrivare pronti all’autunno, o almeno non già drammaticamente in ritardo, senza avere riletto “L’arte della gioia” di Goliarda Sapienza. “Ed eccovi me a quattro, cinque anni in uno spazio fangoso che trascino un pezzo di legno immenso. Non ci sono né alberi né case intorno, solo il sudore per lo sforzo di trascinare quel corpo duro e il bruciore acuto delle palme ferite dal legno. Affondo nel fango fino alle caviglie ma devo tirare, non so perché, ma lo devo fare. Lasciamo questo mio primo ricordo così com’è: non mi va di fare supposizioni o d’inventare. Voglio dirvi quello che è stato senza alterare niente”. Una bambina di pochi anni, un pezzo di legno, il fango, forse anche una madre che urla o tace e una sorella: ecco la zona più interessante che c’è.

  • Annalena Benini
  • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.