Facce dispari

"Non mi sono mai sentito un presentatore". Franco Boni, icona delle televendite che portò l'arte in tv

Francesco Palmieri

Una vita dietro le telecamere per vendere quadri al grande pubblico, con uno stile unico e immediatamente riconoscibile. Fra successi, imitazioni di successo e l'amarezza tipica di ogni storia che si conclude, il genio di Telemarket si racconta

Fu Corrado Guzzanti a sancire, con una imitazione di successo, la sua notorietà. Nei primi anni Duemila Francesco Boni detto Franco fu tra i volti più familiari della televisione e non lo divenne su un grande network né per un programma di intrattenimento, ma vendendo “la grande pittura” su Telemarket, l’emittente con l’elefantino fondata da Giorgio Corbelli che poi sarebbe stata travolta dal tracollo finanziario dell’imprenditore. Per il peculiare timbro di voce o per l’aplomb ipnotico che lo differenziava da altri scalmanati venditori, Boni era capace di interdire lo zapping a molti telespettatori, forse meno catturati dai quadri proposti che da come li proponeva lui. Romano, figlio e nipote d’arte, aveva cominciato con una galleria e casa d’aste a Palazzo Bernini e fu questa gavetta a prepararne la riuscita come venditore in tv.

 

Rimpiange quegli anni?

Più che altro, resto orgoglioso di una piccola conquista: avere suscitato interesse presso milioni di telespettatori. Qualche critico disse che volgarizzavo l’arte, ma per me resta un complimento esserci riuscito con chi non aveva mai messo piede in un museo o in una galleria.

 

Gradì la parodia di Guzzanti, una celia anche piuttosto cinica?

Eravamo in anticipo su Crozza e mi divertii molto, fu il mio momento di maggior popolarità e anche Costanzo mi chiamò diverse volte. Allora la tv era più importante, non soffriva quanto adesso la concorrenza del web.

 

Com’era possibile conciliare il rigore con le esigenze commerciali?

Una trasmissione durava quattro ore. Mi costruivo una sorta di scaletta, per cui dedicavo 20 o 25 minuti alla storia di ogni artista e cinque o dieci alla vendita. Con questa progressione la diretta passava veloce. Al mio datore di lavoro non piaceva che sottraessi tempo per tenere una sorta di lezione, ma sostenevo fosse propedeutica al successo commerciale: talvolta prevaleva la mia tesi, altre volte le necessità economiche.

 

Spesso ospitava artisti e Vittorio Sgarbi come commentatore. Su YouTube c’è una clip in cui le bocciò un quadro seicentesco dicendone di cotte e di crude sull’autore.

Mi fece questo scherzo in diretta e infatti non riuscimmo a vendere l’opera.

  

   

Corbelli s’arrabbiò?

No, non guardava tanto ai singoli pezzi ma al risultato finale. Che la trasmissione fatturasse nella media prevista.

 

Cosa portò alla fine di Telemarket?

Gli investimenti extra-aziendali.

 

Anche l’acquisizione di Finarte?

Qualunque mercante all’epoca avrebbe desiderato prendere la migliore casa d’aste italiana. Il disastro fu nella conduzione.

  

   

Quali artisti, oltre che per dovere, amava vendere?

I miei amori sono stati de Chirico e il Seicento napoletano, ma mi piacevano molto le avanguardie e quella romana in particolare, perché l’ho vissuta. Schifano era il più gradito dal pubblico, il mio preferito resta Renato Mambor, forse troppo intellettuale per la massa ma che anticipò nei primi anni Sessanta grandi tematiche oggi di attualità.

  

E l’Ottocento?

Contribuii a ridare spazio a quello italiano, che ebbe tanti ottimi artisti poco glorificati a vantaggio per esempio della pittura francese, sicché abbiamo sogguardato come provinciale la nostra che provinciale non era affatto. Dal Piemonte alla Sicilia fu estremamente interessante ma mortificata o dimenticata.

 

Da venditore cosa avrebbe voluto comprare?

Rimpiango i quadri che da giovanissimo battevo in casa d’aste e non potevo permettermi. Oggi costerebbero cifre da paura.

  

Come valuta il mercato attuale?

Si basa sulla pubblicità ed è pubblicizzato al massimo il contemporaneo rispetto all’arte antica. Ciò che non è finanziato non sfonda: ci sono artisti d’effetto, di facile lettura, sostenuti da un sistema che investe su di loro e li porta alle stelle, e ci sono i talentuosi che un tempo sarebbero diventati celebri grazie alla qualità ma languono perché non hanno dietro nessuno. È tristissimo. I collezionisti non fagocitati dai condizionamenti sono sempre meno numerosi e i giovani non studiano. Comprano il moderno perché è speculativo, non per passione e conoscenza.

 

Qual è la ragione?

Una è sicuramente lo strapotere concesso per legge ad archivi e fondazioni, per cui l’autentica conta più del quadro. Ci sono ottimi archivi ma altri che definire dilettanteschi è un complimento, badano solo al commercio e non a tutelare il valore artistico dell’autore. Siamo all’assurdo che un compratore dà più importanza alla documentazione che al quadro: se è di scarsa qualità, ma con le carte in ordine, viene strapagato. Per non parlare di archivi che rilasciano autentiche sulla base di una fotografia, o di artisti che hanno più di un archivio. L’è tutto da rifare, avrebbe detto Gino Bartali.

 

Consigli a un compratore?

Cercare la qualità e rivolgersi ai grandi mercanti, evitando il sottomercato.

 

Le manca la tv?

Intervengo ancora in due trasmissioni brevi nel fine settimana sui canali ArteInvestimenti di mio figlio Gabriele e sono stato direttore, fino all’anno scorso, della rivista ArteIn: scrivere mi diverte.

  

Berlusconi fu un grande cliente di Telemarket. Lo ricorda?

Come cliente aziendale, non mio personale, perché non s’avventurava nell’acquisto di un’opera significativa, piuttosto gli piaceva comprare in quantità quelle di artisti minori presentate nelle trasmissioni di altri colleghi.

 

Le dispiace la definizione di televenditore?

Non ho mai recitato, sono sempre stato me stesso e non mi sono mai sentito un presentatore televisivo. Venendo dall’antiquariato e dalle aste non ho mai faticato a mantenere la mia personalità.

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