biografia dialogata

Lino Jannuzzi, tra Napoli e la goliardia. Secondo episodio

Mattia Feltri

Come da adolescente si lanciò senza freni in una città liberata tutta “contrabbando prostituzione e fantasia”. Glenn Miller al San Carlo, spie inglesi e un irrequieto approccio all’università

Sui banchetti si trovavano fili metallici ottenuti tagliando le linee del telegrafo, scarponi dell’esercito inglese, mutande di lana di quello australiano, costosissime bottiglie di liquore, le solite scatolette di carne, strumenti musicali sottratti alle orchestrine viaggianti, statue prese dalle piazze, lapidi dai camposanti. Non mancavano mai i flaconi di penicillina, richiestissimi per via della sifilide dilagante. I soldati la contraevano con le puttane della Galleria Umberto, ma cercavano di tenere nascosta la malattia perché gli infetti venivano ricoverati e sottoposti a un duro regime di degenza. La terapia era basata su frequenti e dolorose iniezioni di penicillina. I ragazzi I’avevano imparato, per cui si procuravano il farmaco per curarsi da soli e con minor accanimento. 


Il mercato non era florido solo a Forcella. A ogni angolo si vendevano sigarette americane: le pall ’n mano (Pall Mall), le cesso fete (Chesterfield), le asino gobbo (Camel). Le scorte provenivano soprattutto dalle navi alleate attraccate nel porto e svaligiate nottetempo con la preziosa collaborazione dei marinai. Jannuzzi vide coi suoi occhi una banda di scugnizzi smontare e portarsi via, nel giro di tre giorni, un intero carrarmato, e sentì spargersi la voce secondo cui un vescovo era stato sorpreso sulla strada per Castellammare  mentre  trasportava  un  treno  di  pneumatici  rubati. Probabilmente se la cavò seguendo il tariffario in vigore: per corrompere un carabiniere semplice servivano cento lire, per un brigadiere duecento; l’onestà di un maresciallo era incrinabile con una mozzarella.

 

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In quella Napoli, il quindicenne Lino Jannuzzi intraprese la carriera di studente universitario. Il padre, che sognava per il figlio un futuro da chirurgo, fu felice di vederlo iscritto ai corsi di medicina. Lino si dedicò con sincero entusiasmo allo studio della chimica organica e dell’istologia, anche se le lezioni teoriche venivano impartite in enormi aule gremite da chiassosi perdigiorno. Ben più redditizie erano le sedute di anatomia, cui Lino prendeva parte con particolare profitto, poiché l’istituto funzionava benissimo, potendo contare, visti i tempi, su un continuo ricambio di cadaveri. Il ragazzo sostenne anche un paio di esami, che supero brillantemente. Purtroppo furono gli unici, e il motivo lo spiega oggi lo stesso Jannuzzi: “Mi ruppi i coglioni”.

   

Sostenne un paio di esami, purtroppo gli unici, e il motivo lo spiega oggi lo stesso Jannuzzi: “Mi ruppi i coglioni”

   
Bisogna tener conto che, in quei mesi, Lino non scoprì soltanto il mondo accademico, ma anche il tabacco, l’alcol, il ballo sfrenato per l’intera notte. E imparò, di conseguenza, ad andare con le donne. Poco a poco, si rivendette tutti i libri di testo nelle botteghe di via Foria, poi se li fece ricomprare dai genitori, dotati di una memoria insufficiente per scoprire il raggiro, e Ii rivendette di nuovo.


Pur essendo il più piccolo, si associò rapidamente ai leader universitari, riuscendo così a schivare le angherie riservate alle matricole, e che lui non risparmiò ai compagni di corso. Si trattava del terribile papiello, vietato durante il Ventennio, e pertanto inflitto con particolare frequenza subito dopo. Il papiello consisteva nell’acchiappare le matricole, trascinarle in pizze­ria “denudate e pittate”, e obbligarle a pagare il conto mentre gli aguzzini intonavano canzoni oscene. Altro denaro Lino lo recuperò al teatro San Carlo, dove fu ingaggiato come comparsa nell’Aida. Siccome la messa in scena delle opere liriche era troppo onerosa per le disponibilità economiche dell’immediato dopoguerra, l’impresario escogitò uno stratagemma ancora diffuso: utilizzare le medesime comparse sia nel ruolo degli egiziani, sia in quello dei romani, sia in quello dei nubiani. Lino muoveva la bocca senza emettere suoni, ché nel canto non era ferrato, e così si guadagnava la giornata.


I più svegli e intraprendenti si industriavano in ogni modo per portare a casa due lire. Furono mesi, quelli, in cui la fantasia dei napoletani diede prove ineguagliabili. Divenne celebre l’avvocato Lattarullo, che non aveva clienti da assistere, per cui si manteneva rivestendo il ruolo, nobilitante per il defunto, di “zio di Roma” nei funerali. Poi arrotondava facendo la spia, come molti suoi concittadini, ai quali le forze alleate chiedevano informazioni per scovare i fascisti più pericolosi. Se ne scovarono ben pochi. Norman Lewis, dei servizi segreti inglesi, raccontò di quando riuscì ad avvicinare Eugenio Reale, che, con Palmiro Togliatti ancora all’estero, da Napoli organizzava i comunisti italiani. Reale consegnò a Lewis un foglio coi nomi dei “quattro uomini più pericolosi di Napoli”, e quello di una testata sovversiva. A Lewis bastarono un paio di giorni per scoprire che i nomi erano quelli del capo dei trotzkisti e dei suoi tre luogotenenti e che il giornale si chiamava “Il proletario”, organo dei comunisti di sinistra. “Dovevo immaginarlo”, scrisse Lewis.
Il quale, per non gettare troppo discredito sull’Intelligence Corps, evitò di dare alle stampe un altro episodio emblematico, non dimenticato però da Jannuzzi: successe che Lewis, dovendo contattare un nuovo collaboratore, avvicinò il portinaio del palazzo in cui si presumeva abitasse il suo uomo, di cui non poteva fare il nome. “Sto cercando – diceva Lewis – un tale alto così, coi capelli di questo colore”. Il portiere scuoteva il capo. E Lewis: “Massì, deve avere più o meno quest’età, porta una giacca di tal fatta e pantaloni della tal altra». E avanti di questo passo, sinché il portinaio non si illuminò: “Aaah… vulisse Pasquale ’o spione?”. Si trattava di Pasquale Schiano, che Jannuzzi, da inviato speciale dell’Espresso, avrebbe incontrato oltre vent’anni più tardi nell’ambito dello scandalo Sifar.
I quattrini con cui veniva retribuito al San Carlo permisero a Lino di prendere parte alla spensierata vita dei circoli canottieri, dove sfidò il pericolo di incappare in quelle esercitazioni fisiche abiurate inderogabilmente il giorno della grande visita di Hitler. Partecipò volentieri a escursioni in mare purché le barche fossero a motore; se le barche erano a vela oppure a remi, era necessario che le conducessero altri. Accettò di gareggiare in competizioni di canottaggio solo quando gli garantirono che non gli sarebbe toccato di remare: “Io ero di quelli che stanno a prua e gridano: un-due, un-due”. 
Alla sera si andava al cinema, specie alla sala Roma. Lì c’era la galleria – fatta di seggiole di paglia spagliate – e la platea, riservata ai ragazzini che sedevano a terra; li teneva a bada un sordomuto armato di una paletta di legno, con cui colpiva la testa di chi si alzava disturbando la visione dei signori in galleria. Suscitò esultanza una pellicola in particolare, “Serenata a Vallechiara”, per l’interpretazione di una stupenda attrice che, a causa dell’anglofobia del fascismo, in Italia era ancora sconosciuta: Rita Hayworth. Terminata la proiezione, si andava a ballare il boogie-woogie nel circolo dove il padre di Francesco Rosi, il regista, sbarcava il lunario ritraendo a matita i militari americani. Fu in una serata del genere, mentre Lino e i suoi amici tentavano di affinare la tecnica di ballo e di attaccar bottone con qualche ragazza, che si sparse la voce dell’imminente arrivo di Glenn Miller, atteso per un concerto al ridotto del San Carlo, sequestrato dagli americani e trasformato in una bolgia.

  

Il boogie-woogie e il jazz di Miller erano diventati la colonna sonora della Napoli liberata. Ebbe il biglietto

   
Cinque decenni e mezzo più tardi, Lino prova nostalgia e un po’ di tenerezza. “Sì, per il mio amico Giorgio Bocca. Mentre io vedevo gli americani liberare l’Italia, e portare il cibo, l’alcol, la musica, la voglia travolgente di rinascere e di divertirsi, lui faceva il partigiano sulle montagne, poveretto. Se l’è passata male, e oggi è ancora convinto d’averlo liberato lui il paese. Forse tutte le differenze fra me e lui hanno origine lì”.

 

Glenn Miller venne a suonare al ridotto del San Carlo, e fu una cosa grande. Tutta la città ne parlava. Era il 1944, e l’Europa era ancora in guerra. A Napoli nessuno era impiegato se non in lavori precari o illegali. La fame era patrimonio comune, ma qualcosa da metter sul piatto si trovava sempre, con l’aiuto dei malviventi o dei soldati (e talvolta i ruoli coincidevano). Con l’esercizio dell’ingegno si rimediavano due soldi da investire la sera, per andare a ballare, oppure con una donna, o, ancora, a giocare a teresina nei circoli, mentre la radio trasmetteva “Moonlight serenade” di Glenn Miller. Il boogie-woogie e il jazz popolare di Glenn Miller erano diventati la colonna sonora della Napoli liberata, e infatti la gente s’accapigliò per trovare un posto al ridotto del San Carlo. Lino Jannuzzi non ricorda come, ma ebbe il biglietto; il ridotto era una bolgia di soldati ubriachi e di napoletani in estasi, e lui trovò più bello del solito “In the mood”, il suo brano preferito. La festa proseguì lungo i marciapiede e lungo l’intera notte, con le puttane e le orchestrine. Il giorno dopo Glenn Miller decollò in direzione Londra, dove tenne un concerto, l’ultimo. Da Londra ripartì verso Parigi e si inabissò nella Manica, colpito per errore dalla contraerea britannica. Napoli lo seppe dalla voce di Misha Kamenetzki.

  

La nuova radio libera, un  gruppo di ventenni alle prime armi.  La Capria,  Patroni Griffi, Francesco Rosi

   
Misha Kamenetzki è morto il 2 giugno di quattro anni fa, a New York. Era conosciuto con il nome di Ugo Stille che Misha, nato a Mosca ma cresciuto in Italia, si era scelto quando fuggì in America dalle leggi razziali (“stille” in tedesco significa “silenzioso”). Tornò con gli Alleati, per conto dei quali era uno dei dirigenti dello Psychological Warfare Branch. A Napoli gli venne affidato il compito di organizzare la nuova radio libera, e lui radunò un  gruppo di ventenni alle prime armi. C’erano Raffaele La Capria, Peppino Patroni Griffi, Francesco Rosi, Antonio Ghirelli, Aldo Giuffrè. Misha non stabilì orari: “L’importante e che veniate quando avete davvero qualcosa da dire”. Dopo un ventennio di silenzio, di cose da dire ne avevano molte. Jannuzzi si sintonizzava per ascoltarle e per ascoltare le notizie dal fronte e i programmi musicali, e Glenn Miller era il piatto forte. 

  

Da sempre insofferente dei Guf di regime, Jannuzzi adesso fonda l’Ordine del pesce alato. Goliardia 

  
“Se lo sport è salute, viva la tisi” gridò Lino Jannuzzi coniando uno dei più celebri detti della goliardia. Lo fece pensando ad Adolf Hitler, e all’interminabile pomeriggio trascorso aspettandone l’arrivo a via Caracciolo. Fu la sua unica adunata e gli bastò per realizzare che la buona forma fisica era traguardo non solo faticoso da raggiungere, ma anche del tutto trascurabile. Su di lui esercitavano più fascino attività come la lettura, il gioco delle carte e il consumo degli alcolici, che hanno anche solo il pregio di presupporre una certa vocazione alla sedentarietà. L’avversione genetica per una sorta di associazionismo come quella sino ad allora rappresentata dal Guf, tutto sport, littoriali e regime, spinse Jannuzzi a fondare l’Ordine del pesce alato. Che cosa simboleggiasse il pesce è facilmente intuibile, anche perché gli adepti consideravano l’amore (oltre alla danza, quest’ultima praticata però con moderazione) uno dei pochissimi svaghi per cui valesse la pena dimenarsi.


L’Ordine del pesce alato era fra i molti che nel 1944 e nel 1945 sorsero nelle università di tutta Italia. Si rifacevano al mito degli ordini cavallereschi e dei clerici vagantes, coi loro riti e i loro canti. “Era soprattutto una riscoperta”, spiega Jannuzzi riferendosi all’ebbrezza degli studenti per la libertà ritrovata, la libertà di aggregarsi, e per di più mentre nel paese sbarcavano gli Alleati, e con loro il jazz, il cinema, il Vermouth a secchi. “Lo stacco fu enorme”. E così inebriante che, nell’immediatezza, si tradusse nel ripristino delle usanze più fatue e ignobili – come il papiello, la penitenza da far pagare alla matricola – “giustamente abolite dal fascismo”. Col papiello, il sedicenne Jannuzzi e i suoi compagni universitari si guadagnavano qualche pizza e qualche spicciolo, che Lino spendeva per i libri di Honorè de Balzac, di cui oggi possiede una collezione spettacolare.


In quel clima, la rinascita della festa della matricola fu salutata con particolare eccitazione. I dignitari, cioè i responsabili dei vari ordini cavallereschi, si invitavano formalmente alle feste delle rispettive città, cui tuttavia poteva partecipare chiunque avesse due giorni liberi e voglia di buttarsi su un treno. Jannuzzi e gli altri salivano generalmente senza biglietto, poi giravano per la questua di scompartimento in scompartimento, tenendo in mano gli smisurati cappelli a punta tipici della goliardia. Giunti a destinazione, soggiornavano dai goliardi locali, che offrivano ospitalità contando di riceverne la volta successiva. “Io viaggiavo come uno straccione, senza un soldo”, dice Jannuzzi, che però non rinunciava mai allo smoking. Lo prendeva a fitto dall’impresario del San Carlo, conosciuto ai tempi in cui fu scritturato – per l’ingaggio infimo, non per l’eccellenza della voce – come corista dell’Aida.


Quando la festa della matricola veniva organizzata a Bologna, Lino se la passava da re; per i meriti che più avanti saranno illustrati, infatti, il suo blasone – a Napoli era principe della goliardia – fu arricchito dal titolo di barone dell’Ordine del fittone, cioè l’ordine cavalleresco bolognese (il più importante d’Italia), così chiamato per l’enorme paracarro – appunto il fittone – da secoli all’ingresso dell’ateneo, e che per forma e impotenza alludeva, come il pesce partenopeo, alla virilità degli affiliati. Tanta considerazione, per Jannuzzi, si concretizzava in una suite all’Hotel Baglioni che i confratelli emiliani gli pagavano per tre giorni coi proventi di impegnative collette.


Le spese sostenute per l’approvvigionamento di alcolici e vivande erano considerevoli e gli organizzatori non trovavano soluzione migliore che di accollarle alle matricole. Le quali, peraltro, non dovevano soltanto far fronte alla dissipatezza dei più grandi, ma anche alle loro vessazioni, spesso sopportate stoicamente; solo così, infatti, si accedeva al diritto, l’anno seguente, di infliggerne ai nuovi malcapitati.


Quando fu conquistata San Marino, però, a beneficiarne maggiormente furono proprio le matricole. Era successo che i dignitari dell’Ordine del fittone, stanchi delle scaramucce con l’Università di Modena in rievocazione della secchia rapita, decisero di celebrare l’annuale festa dell’immatricolazione con gesta degne delle ottave di Alessandro Tassoni. L’idea fu di invadere la Repubblica di San Marino e restituirla all’Italia. Lino Jannuzzi ricevette un dispaccio da Bologna, nel quale fu messo al corrente del disegno bellico; gli fu chiesto appoggio, e Lino non poté rifiutarlo. Partì un paio di giorni prima, accompagnato dalla sua prestigiosa squadra di artificieri, i quali non vantavano equipaggiamenti di rilievo, ma inventiva e tradizione in quantità ineguagliabili. La mattina dell’assalto, Lino risalì un fianco del monte Titano con i suoi uomini, mentre sull’altro andavano appostandosi i leggendari componenti del III Razzieri di Bologna, noti per l’impareggiabile perizia nel maneggiare i fuochi d’artificio. Al segnale convenuto, cominciò il cannoneggiamento. San Marino fu messa sottosopra da una tale gragnuola di botti che pareva Capodanno. Quando la confusione fu massima, entrò in azione la cavalleria. Guidato da Franco Roccella, dignitario di spicco dell’Ordine del fittone, un centinaio di cavalleggeri fece ingresso nella rocca, irruppe nel palazzo del governo e dichiaro destituiti il Congresso di Stato e il capitano reggente, cioè l’esecutivo e il suo mandatario.


Quando gli amministratori della Repubblica realizzarono di essere rimasti vittime di una burla e non di un conflitto, per evitare ulteriori rotture di scatole offrirono ai giovanotti una somma non ingente, ma bastevole per coprire i costi della festa della matricola. “E sennò chi se ne andava di là”, dice Jannuzzi spiegando che il proposito, in caso contrario, era di proseguire i festeggiamenti nella piazza centrale di San Marino. 

     

La goliardia non era solo questo. La riscoperta della libertà inizialmente fu solo il pretesto per dedicarsi alle facezie, ma subito dopo alimentò il diffondersi della passione politica. L’Ordine del pesce alato, per esempio, aveva fra i suoi seguaci numerosi monarchici, approdati lì per repulsione verso il fascismo e per incompatibilità con i cattolici e i comunisti. Il diciottenne Lino fu dunque invitato a un comizio in favore della monarchia, sebbene fino ad allora ne avesse tenuti per la Repubblica, di cui era fervente sostenitore. Leggende tramandano di uno Jannuzzi che dal palco in una gremita piazza del Plebiscito appoggiò i regnanti con un travolgente discorso, iperbolico e agiografico, concluso così: “Oh, intendiamoci, stiamo parlando degli unici re degni di questo nome, i Borbone, non di quei pecorai dei vostri Savoia”. Le cose non andarono in questo modo, assicura Jannuzzi: “Altrimenti non sarei qui a raccontarle. Bisogna tenere conto che, quando vinse la Repubblica, a Napoli incendiarono la sede del partito comunista, con Giorgio Amendola aggrappato alla grondaia e salvato all’ultimo”.


Andarono invece così: Lino imbastì un sermone dottissimo, infarcito di citazioni di Tocqueville e di elogio alla dinastia sabauda, tuttavia chiuso con un sussulto di schiettezza: “Ricordiamoci, in ogni caso, che in Francia ci sono stati quaranta sovrani, e mentre loro governavano, i Savoia allevavano pecore in Sardegna”. L’oratore si inchinò per poi dileguarsi prima che la folla cogliesse – e presto l’avrebbe colta – la sottile insolenza. A premere perché gli ordini goliardici evolvessero in qualcosa di meno frivolo fu, oltre a Jannuzzi, il principe della goliardia di Bologna, Guido Rossi, detto Bobo, che in seguito avrebbe fatto carriera universitaria. Era decisamente colto sebbene trascorresse, come Jannuzzi, metà dell’anno accademico passando di festa in festa. Era stato uno dei direttori dell’Architrave, ufficialmente giornale dei Gruppi universitari fascisti, ma, specie negli ultimi tempi, divenuto una specie di cavallo di Troia. A fianco di Rossi c’era Franco Roccella, che in fatto di erudizione, secondo Lino, era insuperabile. Roccella non c’entrava nulla con Bologna se non per avervi riparato dopo che abbandonò l’università di Palermo, dove non tolleravano il suo rifiuto di indossare la camicia nera. Prese in simpatia Jannuzzi, cui non fece altro che presentare mafiosi, cioè tutti i vecchi compagni e gli amici di famiglia in pellegrinaggio a Bologna.


Lino è dell’idea che fu Roccella il vero fondatore dell’Ugi, dell’Unione goliardica italiana, sotto la cui sigla si raccolsero tutti gli ordini cavallereschi: “Tanto per cominciare, scrisse l’atto costitutivo. Ricordo ancora come cominciava, con queste tre parole: goliardia e cultura e intelligenza”. Fu l’inizio della rivoluzione, perché sino a quel momento goliardia era stato sinonimo di pernacchie e atti osceni in luogo pubblico (e perché, recitando l’atto costitutivo, gli studenti poterono finalmente emanciparsi dalle canzonette sconce). Soprattutto, quelle tre parole indicavano l’intenzione di trovare nella goliardia un’espressione, per quanto volgare, della cultura e dell’ intelligenza.
L’Ugi venne fondata a Venezia alla fine del 1946, nell’ultima saletta del Florian, coi divanetti rossi. All’incontro decisivo Lino arrivo in consistente ritardo perché, sbronzo, cascò in laguna: “E che queste riunioni politiche venivano organizzate in occasione delle feste della matricola. Non ap­pena fummo tutti presenti, Rossi e Roccella ci dissero che da anni facevamo solo stronzate. Divertenti, ma pur sempre stronzate: bisognava fare un passo oltre”. Fu letto l’atto costitutivo, il cui succo era: se ne possono combinare anche di peggiori, purché siano ispirate dalla cultura e denotino intelligenza. Lino dice che tutti rimasero di stucco ma affascinati. E fece presa anche il motto, forse perché caratterizzato da un’efficace vena di qualunquismo: “Fuori i partiti dall’università”. I grandi movimenti nazionali, infatti, tentavano di riunire gli studenti nelle sezioni giovanili, mentre l’Ugi, cercando di rifarsi all’associazionismo di stampo anglosassone, predicava l’ amore per la politica e il disinteresse per i partiti; furono così sedotti i repubblicani, i liberali, i socialdemocratici, cioè tutti i laici, che affluirono nella goliardia. Per numero di simpatizzanti l’Ugi era sul livello dei cattolici; minoranze si erano ritagliate uno spazio a destra oppure a sinistra.


Il passo successivo, sul quale la spaccatura all’interno dell’Ugi fu seria, consisteva nel prendere parte alle elezioni per la composizione degli organismi rappresentativi. I vecchi goliardi non volevano saperne, ritenevano dovessero essere i democristiani, i fascisti e i comunisti a sporcarsi le mani con le campagne elettorali, con lo spartimento dei seggi, e con  tutte quelle attività che consideravano in antitesi con il giuramento di Venezia. “Il pericolo, osserva Jannuzzi, era la scissione. Senza una presa di posizione netta di noi fondatori, una parte si sarebbe dedicata alla politica, e l’altra avrebbe continuato a far feste della matricola e papielli”.


II conteggio dei voti fu per l’Ugi trionfale. Vennero infatti confermati i rapporti di forza, con i goliardi al 40 per cento, i cattolici sullo stesso piano, e il restante 20 spartito tra il Fuan e i comunisti, i primi più forti al sud, i secondi predominanti al nord, sebbene i socialisti fossero passati quasi in massa con Jannuzzi, Rossi e Roccella. Agli eletti fu assegnato il compito di votare la costituzione dell’Unuri, l’Unione nazionale universitaria della Repubblica italiana, il Parlamento degli studenti.


A Perugia, nelle stanze dell’albergo Brufani, in quella fine del 1948 successero due cose importanti. Innanzitutto l’hotel andò a fuoco. Poi, fu varata la costituzione dell’Unuri. Per Jannuzzi è un’ autentica ingiustizia che il primo evento abbia oscurato il secondo: “E non è tutto. La vera infamia fu un’altra: attribuirono a me la colpa dell’incendio”.


Capitò, in definitiva, che i lavori congressuali, per quanto lunghi e appassionanti, lasciarono ai delegati il tempo e le energie per non trascurare le proverbiali occupazioni. Jannuzzi, in particolare, aveva un vecchio conto in sospeso con il III Razzieri di Bologna che – nonostante le squadre di Napoli si fossero distinte per valore nella presa di San Marino – continuava ad arrogarsi il primato in fatto di pirotecnia. Lino ebbe la rivincita. “Dovevo averla, perché il III Razzieri vantava prestigio e una storia importante; ma io avevo pur sempre alle spalle una città come Napoli”.


I bolognesi sapevano sparare, e bene, e su quello confidavano per confermarsi imbattibili. Ma i ragazzi di Lino, avvantaggiati dalla bravura nel costruire ordigni, ne costruirono, e di enormi. La loro superiorità fu a un certo punto schiacciante. E quel certo punto, sfortunatamente per Lino, coincise col momento in cui il Brufani comincio ad andare in fiamme. Successe l’ultima sera. Quella volta Lino aveva escogitato qualcosa di davvero sofisticato: un ingegnoso stratagemma, pagato con due notti di veglia (“un lavoraccio”), che prevedeva la partecipazione di un inconsapevole e ignoto martire. Costui entrò nel bellissimo ascensore di ferro battuto e premendo un pulsante diede il via allo spettacolo: salendo, l’ascensore scaricava razzi su ogni piano, lungo i corridoi e contro le pareti. Fu il finimondo. Nelle camere si sentiva il fragore dell’artiglieria, incessante, prima a piano terra, poi sempre più su, per qualche interminabile minuto durante il quale nessuno seppe capire da dove arrivasse un’offensiva tanto chiassosa e massiccia. 


“L’incendio, però, si propagò nelle camere, e quindi non a causa dei miei razzi, cui è imputabile, tutt’al più, qualche bruciacchiatura sulla carta da parati”, si scagiona Jannuzzi. La sua opinione è che gli altri studenti, dopo un attimo di smarrimento, abbiano cercato di replicare sparacchiando dalle finestre. Che lo fecero, è un dato di fatto. Che qualche fuoco artificiale sia esploso all’interno anziché all’esterno dell’albergo, è probabile.


In ogni caso toccò ad Agostino Greggi (democristiano che diverrà celebre per l’irriducibile antiabortismo), appena eletto presidente dell’Unuri, rivedere il bilancio e pagare i danni che quantificò in qualche decina di milioni (dell’epoca). Per Jannuzzi “una cifra terroristica”, parte della quale Greggi pretendeva proprio da lui. Ma Lino, all’interno dell’Unuri, godeva di sufficiente credito e di sufficienti appoggi da potersi permettere di giudicare la richiesta velleitaria. Semmai, cinquantun’anni dopo, a Jannuzzi piacerebbe aver risposta a una domanda da cui è ancora inseguito: “Chissà chi era il povero diavolo che salì su quell’ascensore…”.


Del dibattito politico, Jannuzzi ricorda quanto fu concitato e coinvolgente. Ricorda che c’era Nuccio Fava, che in seguito sarebbe diventato presidente dell’Unuri. Ricorda la bellissima Luciana Castellina, già battagliera come poi si sarebbe rivelata da parlamentare del Pci. Aveva diciannove anni e gambe sbalorditive. Quando salì sul palco per tenere la propria relazione, la platea prese a rumoreggiare, un po’ per il clima da caserma esaltato dalla qualità estetica dell’oratore, un po’ perché i comunisti erano pochi e avversati. Luciana riuscì a prendere la parola soltanto quando Jannuzzi, che presiedeva i lavori, impose un più solido rispetto delle regole democratiche.


Al di là dei roghi e delle ragazzate, quelli furono i giorni in cui nacque un nuovo modo di fare vita sociale e politica nelle università, dopo l’oscurantismo di vent’anni passati col braccio teso e il petto in fuori. I ragazzi si riunirono in movimenti e associazioni. Pubblicarono i loro giornali e le loro riviste. Ebbero tre rappresentanti nei consigli di amministrazione degli atenei. Chiesero e ottennero un finanziamento ricavato trattenendo una parte delle tasse pagate dagli studenti e girato agli organi rappresentativi. Il denaro servì per l’affitto delle sedi e per il sovvenzionamento delle attività politiche e culturali. Poi i comunisti arrotondavano con i soldi del Pci, i cattolici con i soldi della Dc, il Fuan con quelli del Movimento sociale. Si dice che l’Ugi fu aiutato addirittura dalla Cia. Di sicuro c’è che Ignazio Silone, da Parigi, notò e apprezzò le attività dell’Unione goliardica. Vide anche qualche numero della Gazzetta universitaria, il giornale diretto da Lino Jannuzzi, e agli amici disse che bisognava dare una mano a quei giovanotti impegnati ad arginare i fascisti e soprattutto i comunisti.

   
Si incontrarono per la prima volta in cima a un campanile. Lino Jannuzzi vi era salito facendo leva sulla lucidità che l’alcol gli consentiva. II proposito era di annunciare la festa della matricola – Genova, anno 1950 – con strumenti adeguati alla portata dell’evento. Le campane potevano andare bene. Lino fu seguito da quattro disperati mezzi sbronzi ed eccitati dall’idea di fare baccano prendendosi gioco, da bravi clerici vagantes, delle sacre istituzioni della Chiesa. Fra di loro c’era un ventenne col cappello della goliardia che, flaccido, gli calava sul naso. Lino odiava quei cappelli. Li aveva sempre odiati perché almeno al nord ne indossavano di feltro, ritti e orgogliosi, mentre al sud no, al sud circolavano quelli di velluto e con l’uso – non necessariamente l’abuso – sfiorivano afflosciandosi sui visi emaciati dei ragazzi. Lino da tempo meditava di abolire l’accessorio e la sciatteria del ventenne lo rafforzo nelle sue convinzioni: vestiva calzoni troppo corti e una mantellina sdrucita che arrivava a stento al fondoschiena. “Era uno spilungone. Magro, magro, magro. Tutto pensavo, fuorché di trovarmi davanti all’uomo che avrebbe affossato l’Ugi, l’Unione goliardica”. Chi era? “Marco Pannella”.

   

Il primo incontro con “uno spilungone magro”  che avrebbe affossato l’Unione goliardica e che gli avrebbe cambiato la vita: Marco Pannella

   
Pannella era un monarchico iscritto all’Università di Roma. Come tanti coetanei scopriva il mondo viaggiando a scrocco in seconda classe. Lino se Ii ricorda bene quei ragazzi. Arrivavano dalla provincia e sembrava che per i loro occhi la città fosse troppo grande. Alloggiavano nelle pensioni dell’epoca borbonica, con all’entrata i cartelli di divieto d’accesso alle puttane. Avevano genitori contadini che non si erano risparmiati una privazione nella prospettiva di vantare un figlio dottore. Però molti – trapiantati dalle campagne ai bordelli, dagli oratori alle balere, dall’eterna compagnia dei paesani a quella stupefacente dei goliardi di città lontane – dottori non lo sarebbero mai diventati. Anche Lino, dopo aver sostenuto i primissimi esami del corso di medicina, trovò le ricreative attività della goliardia più appaganti di quelle gravose della scienza. Oltretutto aveva barattato i manuali con le varie edizioni dei romanzi di Balzac, autore prediletto. A casa presentò il libretto falsificato in bella grafia, nel quale, avendo in considerazione le proprie capacità, si assegnava voti da studente provetto. “Rimasi quattro-cinque anni senza fare niente, sinché, arrivato a un certo punto, dissi, cazzo, qui con la storia della goliardia sono divenuto un’istituzione; forse è meglio che una laurea me la piglio”.


Si iscrisse a legge. II padre, smanioso di vederlo insigne nell’arte medica, si accontentò di aspettare che si elevasse a principe del foro. Lino si applicò giusto il necessario per inanellare un esame dietro l’altro e raccogliere le massime valutazioni. Sarà tuttavia l’offerta di un buon impiego – di cui si parlerà – il motivo, o anche solo il pretesto, per evitare il supplizio di redigere la tesi. Jannuzzi padre si dichiarò infelice.


"Dispiacque pure a me”, dice oggi Lino, che ha dimostrato, seppur da giornalista, di possedere il bernoccolo della giurisprudenza: “Sarei stato un grande avvocato, uno di quelli della tradizione peggiore, la classica napoletana, con retorici raffinatissimi e un po’ tronfi… peccato…”. Quanto all’orgoglio paterno, Lino l’avrebbe definitivamente onorato anni dopo, sfoggiando il titolo di senatore. II vecchio Jannuzzi lo trovò assai più ragguardevole di quelli accademici.
Mentre si cimentava nelle istituzioni di diritto romano e nella procedura penale, Lino non trascurava le incombenze cui era tenuto occupando posizioni di responsabilità nell’Unione goliardica. Con altri esponenti di spicco elaborava la linea politica, istruiva i luogotenenti, teneva comizi. Erano attività svolte capillarmente anche solo a causa della festa della matricola, evento cui Lino mancava raramente poiché gli offriva la straordinaria opportunità di conciliare la politica e il baccanale. Le feste migliori venivano organizzate a Bologna, a Padova, a Torino. Anche a Trieste, dove Lino e gli altri goliardi andavano volentieri innanzitutto perché era distante, poi per­ che c’era il mito delle “mule triestine” – e al ritorno l’esercizio della millanteria spostava i confini dell’immaginazione – e infine perché c’era un’università stracolma di fascisti, non solo simpatici, ma anche pervasi da un sentimento che i goliardi, anticomunisti, trovavano amabile: il patriottismo. Assecondando questo slancio, Jannuzzi e gli altri pianificarono l’invasione della Jugoslavia. Gli studenti triestini giudicarono l’idea assolutamente geniale e incaricarono le matricole di recuperare le divise da bersagliere. Con l’uniforme indosso e le piume sull’elmetto, i giovanotti puntarono su Gorizia e sconfinarono a Nova Gorica, dove dichiararono riannesi all’Italia i quartieri appena passati sotto la sovranità di Belgrado. Poi strapparono le insegne jugoslave e issarono le italiane su San Giusto. Riavutisi dallo sbigottimento, gli amministratori di Nova Gorica chiesero lumi e fu sfiorato l’incidente diplomatico. “A cose fatte, a noi sembrò già un miracolo non ci avessero sparato addosso”, dice Jannuzzi, specie tenendo in conto il carattere rissoso degli slavi: “Beh, eravamo abbastanza incoscienti. E dove non arrivava l’incoscienza arrivava l’alcol”.


Oltre all’incoscienza e all’alcol c’entrava pure “l’attimo di incredulità” teorizzato da Lino Jannuzzi. Cioè: se una burla e congegnata nei particolari ed eseguita con destrezza, le vittime non sospettano la carnevalata e vivono qualche secondo di stupore da cui sono immobilizzate: è esattamente il tempo sufficiente per svignarsela e scampare alle ritorsioni. 


Si racconta che, per dimostrare la bontà della sua teoria, Jannuzzi sia entrato in chiesa durante una funzione, abbia attraversato l’intera navata e, giunto all’altare, si sia rivolto ai fedeli per aprire l’impermeabile e mostrar loro tutta la sua empietà. Lino, oggi, si indigna e parla di spregevole calunnia: “non avrei mai potuto, innanzitutto per rispetto verso mia madre, cattolica fervente; poi perché da bambino servivo messa”.

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