ESTATE METAFISICA
Ritorno alla realtà
Non dobbiamo uscire dalla caverna di Platone, non ci siamo mai entrati. Ma la cultura del sogno e il mito dell’interiorità ci hanno separato dal mondo. Ricucire con una metafisica nuova, freccia rivolta verso l’indicibile
In forme diverse, la cultura occidentale ha corteggiato la fuga dalla realtà: o nella trascendenza o nella interiorità. Alla base di questa fuga, la motivazione è metafisica: il soggetto si è concepito come estraneo alla realtà e quindi la realtà è sempre potenzialmente avversa. La porta si è chiusa alle spalle e il mondo, conosciuto in modo imperfetto attraverso le ombre dei sensi, è diventato Altro da noi stessi: inconoscibile, minaccioso e limitante. Il sentimento dominante è la paura, e la condizione esistenziale è la difesa. Anche il neopositivismo è, di fatto, una fuga verso una dimensione neoplatonica dove i numeri della fisica sono l’Eden in cui scappare dalla quotidianità. Ma la metafisica non è per forza questo. Anzi.
Tuttavia, finora, la cultura del sogno (o delle ombre) è stata il filo rosso che – dalla caverna di Platone al demone di Cartesio, per giungere alla realtà virtuale e alle neuroscienze secondo cui il mondo in cui viviamo non è altro che allucinazione – ha trasformato l’uomo occidentale in un hikikomori ontologico, sempre chiuso all’interno di una cameretta tappezzata di rappresentazioni mentali e contenuti fenomenici. Venuta meno la promessa della trascendenza, l’uomo occidentale ha cercato la sua salvezza nel pozzo della mente. In proposito, lo storico Yuval Harari afferma che il mondo contemporaneo è prigioniero delle sue narrazioni. Ha ragione: soffriamo di una bulimia rappresentazionale che è l’esito tecnologicamente ipertrofico della separazione tra noi e il mondo. E, ancora una volta, si tratta di una metafisica e non della metafisica.
In questo contesto, erroneamente, la metafisica diventa la co-scienza dell’Altro e quindi l’espressione di una forma o condizione originaria di cui crediamo di non far parte. La realtà, in quanto Altro, non ha più bisogno di noi. Metafisicamente, la dicotomia soggetto-oggetto non è che un passo all’indietro, ma di ampiezza infinita che ci estromette dal mondo: concetto mirabilmente illustrato da quella grande allegoria dell’esserci che è la piramide visiva dell’Alberti, solido coricato nel quale noi, in quanto punto, siamo privi di estensione, cioè di realtà. La separazione dal mondo, oltre che essere una reazione al sentimento della paura, è stata il grimaldello per cercare uno spazio per la nostra libertà dall’Altro. Noi siamo liberi se non siamo realtà; il prezzo di esistere è quindi diventato quello di non essere. Ma tutto ciò è l’esito di scelte metafisiche che, in quanto tali, hanno sempre una irriducibile componente di libertà.
Contro questo clima, la metafisica non deve essere concepita come una gabbia all’interno della quale ridurre l’esistenza a una serie di conseguenze necessarie, ma come quel punto, mai raggiunto del tutto perché sempre precedente all’esistente, dove tutto non è ancora dato e dove, quindi, è ancora da darsi. La metafisica non è il passo indietro dell’interiorità che ti chiude nella caverna, ma il passo che precede ogni determinazione e il luogo del venire a essere: viene prima del taglio tra possibile e necessario. La metafisica è il luogo della libertà, non psicologica (che è il libero arbitrio), ma dell’essere. E’ l’atto di tirare indietro l’arco, per creare quella tensione che non è ancora diretta ad alcunché. Non è la torta o le fette, ma il coltello che taglia.
Oggi è tempo di fare metafisica, non per recuperare le frecce ormai logore dei lanci del passato, ma per fare nostro il diritto a nascere come esistenti liberi. Si è solo se si è liberi, e la libertà è data dalla scelta a monte, non dalle variazioni a valle. Ognuno di noi deve vivere la sua libertà metafisica, altrimenti non è alcunché. La metafisica è come l’arco di Odisseo: solo chi sa tenderlo riscatta la sua identità fino in fondo.
Semplificando, la libertà è sempre a monte. Faccio un esempio banale: chiedo il percorso a un navigatore. Ma la vera scelta è precedente: dove andare? E, volendo, potrei risalire ancora più a ritroso e scoprire che la libertà è sempre prima. Questo è quanto accade nella metafisica, il tentativo di risalire alla singolarità da cui tutto poteva seguire e, una volta raggiunta, fare seguire tutto il resto. D’altronde, l’esistenza è, nel suo apparire, una radicale novità. La libertà della metafisica non sta nel suo essere fuori della fisica, ma nel suo essere irriducibilmente originaria e quindi nel non poter essere determinata da altro da sé. La metafisica scruta il “passato eterno”.
Chi non fa metafisica fa cattiva metafisica. Le neuroscienze, per esempio, sono piene di cattiva metafisica perché non ci si rende conto che i dati non sono affatto neutri, ma sono interpretati all’interno di una cornice che non può derivare da essi in quanto ne è la premessa. Popper diceva che in nessuna polaroid del sole si vede il sistema copernicano. La scienza non è fatta di esperimenti, ma soprattutto di ipotesi che non si trovano con i tentativi; al massimo si testano. Per quanto la meccanica quantistica si sforzi di risalire all’indietro e, nella sua nettezza occamistica, di eliminare persino spazio e tempo riducendole a dimensioni emergenti, queste devono muoversi da qualcosa che non è detto che sia né trascendente né trascendentale. La metafisica è questo ricominciare che è reso possibile dal ritrarsi del mare dell’esistenza che, prima dello scroscio dell’onda degli enti, lascerà per un attimo intravedere gli abissi. La metafisica vuol dare espressione a quell’elemento originario e non definito espresso dal nulla heideggeriano (ben diverso dal nihil absolutum). La troviamo nel nostro esistere più ancora che nei concetti con i quali inutilmente cerchiamo di svuotare l’oceano. In fondo si tratta di una intuizione che è stata presente con continuità nel pensiero filosofico e che nel canone minore di Rocco Ronchi trova una espressione esplicita: il processo di Whitehead, l’immagine in sé di Bergson, la natura naturante di Spinoza.
La metafisica, in questo senso, è a monte (o al di sotto) delle dicotomie che costituiscono gli assi concettuali in cui il pensiero analitico si articola. Se si accettano le categorie si è già nella fisica. E quindi bisogna andare all’origine, alla fonte non ancora assaporata nel linguaggio, per trovarsi prima delle polarità alto-basso, bello-brutto, bene-male, soggetto-oggetto. Ed è lì che, prima della separazione dovuta al raffreddamento esistenziale del linguaggio, tutto è tutto e non ci sono fines di alcun tipo. E’ lì, dove non si è ancora limitata la realtà imponendole false credenze, che si può trovare quello che non sappiamo ancora per colpa di quello che crediamo di sapere (come grida il Galileo di Brecht).
I tempi sono maturi per una nuova metafisica che sarà il veicolo per un ritorno alla realtà (e non al realismo); un ritorno che si consumerà nell’identità tra noi e il mondo perché solo nella intimità della copula, dell’essere la cosa stessa, può risolversi quella distanza infinita del passo indietro tra soggetto e oggetto. Non cogito ergo sum, ma sum. E basta. Se non siamo il mondo, non siamo nulla, e nemmeno essere nel mondo è sufficiente. C’è solo una possibilità, riconoscere che la cultura del sogno, il mito dell’interiorità, ci ha fatto dividere l’esistente tra soggetto e oggetto. Non dobbiamo uscire dalla caverna, non ci siamo mai entrati.
La nuova metafisica è un ritorno alla realtà, incarna un rifiuto del passo mai fatto per colpa del taglio platonico tra luce e ombra, tra realtà e apparire. Il passo in avanti della nuova metafisica è incommensurabile rispetto alle due dimensioni classiche della cultura occidentale: l’interiorità e l’astrazione formale platonica. La prima è stata la reificazione di una negazione e ha costretto la riflessione all’interno di un punto angusto senza estensione. La seconda ci ha resi prigionieri di una episteme concettuale staccata dalla concretezza dell’esistenza, e quindi ha diviso la conoscenza dalla vita, la fisica dall’hic et nunc. Il passo proposto dalla nuova metafisica è incommensurabile perché non lo vedi arrivare, anzi non lo puoi vedere arrivare, perché giunge da prima del taglio delle categorie soggetto-oggetto, conoscenza-esistenza, idea-cosa; sarà un nuovo taglio metafisicamente libero che cambierà tutto. La nuova metafisica non è una antitesi delle dimensioni già presenti, ma una nuova via che incarna il tentativo, mai finito e sempre tentato, di chi si accinge a fare metafisica. Fare metafisica non vuole dire creare un sistema rigido, ma al contrario, procedere per sottrazione senza eliminare: togliere tutto quello che si può, senza rinunciare ad alcunché. Non è per negazione che si procede nella ricerca di ciò che sta sotto, under-stand, ma per apnea: trattenendo le parole e tacendo il già detto per lasciare che l’indicibile possa essere udito (a volte senza essere pronunciato).
Non a caso il nome del dio ebraico non poteva e non doveva essere pronunciato. La nominazione è una riduzione di ciò che non ha senso definire, cioè limitare e quindi chiudere nel videogame di caso e necessità. La metafisica indica un principio che non è contingente né necessario, né determinato né indeterminato, ma precedente a ogni dicotomia e quindi, se il linguaggio è il regno del principio di non contraddizione, precedente alla parola. Metafisica è una freccia rivolta verso l’indicibile che, pur non essendo nella nostra lingua, è però nella nostra natura. Metafisica vuol dire cogliere in ciò che siamo (che non è detto sia un pensiero o un soggetto o un io, anzi non potrebbe esserlo perché se lo fosse avrebbe tradito la propria vocazione) ciò che non è esprimibile e che però, per continui rimandi, noi possiamo progressivamente inseguire per eliminazioni successive: le sottrazioni cui facevo riferimento sopra.
Oggi siamo chiamati a fare metafisica in quanto stiamo (a fatica) uscendo dalla prigione di sistemi di pensiero che pretendevano di avere delimitato le possibilità dell’esistente (dalla scolastica medievale alla filosofia analitica, dallo storicismo al materialismo ingenuo delle neuroscienze) e che hanno convinto molti che il progresso è interno a un sistema di credenze. La metafisica non è un paio di occhiali, è il costruttore di occhiali cui ci si rivolge quando il nostro paio si è rotto o quando dobbiamo guardare in una direzione nuova che gli occhiali precedenti non consentivano di considerare. Oggi la metafisica è più urgente che mai perché i cambiamenti in atto – da un lato il fallimento delle neuroscienze nello spiegare la coscienza, dall’altro lo sviluppo della intelligenza artificiale – impongono di rivedere e mettere da parte gli occhiali che, da Platone in poi, sono stati indossati ininterrottamente: la contrapposizione tra soggetto e oggetto. Anche le proposte recenti di metafisica concreta di Cacciari, che pure colgono il respiro libertario dell’impresa metafisica, unica vera libertà, rimangono prigioniere di una tradizione che non parte mai abbastanza indietro. Non è colpa loro, è difficile tirare indietro l’arco irrigidito dalle tante calcificazioni culturali.
Si pensa che la metafisica non sia pratica, ma è un grave errore, perché tutto è praxis in quanto mondo che agisce nel mondo. La nuova metafisica deve rifiutare le tre polarità classiche – soggetto-oggetto, realtà-apparire, potenza-atto – e considerare una nuova partenza: l’esistenza relativa che incarna l’intuizione dello straniero di Elea che nel Sofista fa coincidere esistenza e potere causale, potenza e atto, forma e materia. E’ una semplificazione drastica che consentirà di ridiscendere a valle – nell’intelligenza artificiale, nella fisica e nelle neuroscienze – e di trovare nuovi percorsi.
Lo scopo della metafisica oggi è duplice. Primo, eliminare tutto ciò in cui si crede senza alcun obbligo di carattere empirico-concettuale. Secondo, grazie all’esercizio della libertà che precede ogni determinazione, dare esistenza a un nuovo mondo nel quale non saremo più estranei, ma parte integrante a tutti gli effetti: cose tra cose. Non più essere vs mondo o essere nel mondo, ma piuttosto, direttamente e senza imbarazzi, essere il mondo. La metafisica non è altro che il processo che ci libera dalle false certezze e che ci riavvicina al nostro essere originario; passo indietro che consente di procedere in avanti. La nuova metafisica non vuole guardare oltre la fisica, ma recuperare ciò che precede e che consente di ri-nascere.
Riccardo Manzotti insegna Filosofia teoretica alla Iulm di Milano. Il suo ultimo libro è “Io & IA. Mente, cervello e Gpt”, con Simone Rossi (Rubbettino). Prosegue con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi, il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone, il 16 luglio “Via la polvere dalla filosofia” di Rocco Ronchi, il 23 luglio “La forza selvaggia dell’essere” di Simone Regazzoni, il 30 luglio “E’ arte. Zeitgeist no, grazie” di Michele Dantini.