John Gossage, San Diego, California. Per gentile concessione dell'autore (foto inedita) 

Fotografia

Ritratto di John Gossage, dall'Olimpo della fotografia americana

Luca Fiore

L'ironia pungente accompagna i suoi scatti da decenni, tanto da assicurargli un posto in prima fila fra i più grandi d'America. Con un'imponente collezione privata di volumi e memorie vissute, la vita del fotografo newyorkese si intreccia con la storia del rock, nell'ambiziosa ricerca di “qualcosa mai considerato prima”

In bilico fra la vocazione per la musica e la fotografia, decide per la seconda dopo due settimane in tour con i Cream di Eric Clapton nel 1968. E così John Gossage è diventato uno dei più grandi d’America. Prima di congedarmi, dopo aver passato qualche ora nel suo appartamento di Adams Morgan, il quartiere bene di Washington DC, gli chiedo se ha da consigliarmi qualche testo critico su di lui, utile per scrivere questo articolo. Mi guarda e sorride: “Legga Moby Dick e sostituisca il mio nome a quello della balena bianca”. John Gossage è così: pungente, ironico e autoironico. Per sua stessa ammissione, quando si affronta un tema dell’arte, già di per sé impegnativo, preferisce alleggerire il discorso con qualche battuta. Nato 78 anni fa a Staten Island, New York, Gossage è un signore pieno di energia. Qualcuno lo ha definito “un folletto: basso, vivace e imprevedibile”. Nonostante sia difficile trovare letteratura a lui dedicata, è uno dei fotografi più stimati d’America, esposto nei musei più importanti, presente nelle collezioni più prestigiose e apprezzato per la qualità enigmatica dei suoi progetti. Qualcuno spende addirittura l’aggettivo “leggendario”. Soprattutto chi vede in lui uno dei massimi interpreti dell’editoria di fotografia. Anche se poi, a cercare bene, di lui hanno scritto due delle penne più luminose che abbiano mai scritto di fotografia: i suoi colleghi e amici Robert Adams e Lewis Baltz.

 

  Nato 78 anni fa a Staten Island, NY, è esposto nei musei più importanti, presente nelle collezioni più prestigiose  

  

Nel suo appartamento conserva quella che è considerata la più straordinaria collezione privata di photobook in America: “L’unico che ne ha una migliore è probabilmente Martin Parr a Bristol”. Quando gli si parla di fotografia italiana e dei suoi maestri (è amico fraterno di Guido Guidi, anche se nessuno dei due sa parlare la lingua dell’altro), fa un balzo ed estrae dalla libreria un’edizione quasi immacolata di “Viaggio in Italia”, l’ormai introvabile libro-spartiacque concepito da Luigi Ghirri, di cui quest’anno di festeggiano i 40 anni dalla pubblicazione.
 John Gossage è una miniera di aneddoti. Ha conosciuto di persona quasi tutti i grandi protagonisti della fotografia della seconda metà del Novecento. Racconta di quella volta che Diane Arbus gli chiese di fargli un ritratto e lui accettò a condizione di poterne fare uno a lei. O di quando comprò una Leica da W. Eugene Smith, il santo patrono dei reportagisti. Oppure l’aneddoto in cui, poco più che adolescente, andò a bussare alla sede newyorchese di Magnum Photo per conoscere Henri Cartier-Bresson e chiedergli di svelargli i segreti del mestiere. Racconta dei suoi maestri: Lisette Model, con cui aveva studiato anche Diane Arbus, Alexey Brodovitch, il geniale art director di Harper’s Bazaar, e Bruce Davidson, altra figura leggendaria della fotogiornalismo.

  

“Ho cominciato a lavorare a 14 anni come fotografo di sport per un giornale locale. Sono sostanzialmente un drop out”, racconta Gossage: “Ho un disturbo dell’apprendimento, per cui di fatto non riesco a scrivere, o lo faccio con grande fatica. Così, invece di andare a scuola, passavo i pomeriggi in un negozio di dischi sotto la metropolitana a Times Square. Mia madre lavorava e io sono stato cresciuto dai lupi. A un certo punto mi sono iscritto ai corsi serali di fotografia della New School for Social Research, nei quali insegnava Lisette Model. Lei si accorse che non avevo i diciott’anni necessari per frequentare, ma chiuse un occhio”. Erano lezioni meravigliose, racconta. La grande fotografa era una che più che insegnare “come fare”, ti faceva capire come imparare: “Ti incoraggiava a seguire la lezione dei migliori”. Una volta il ragazzino le chiede chi fosse, secondo lei, il più grande fotografo della storia. “Tesoro, c’è un signore che si chiama Eugène Atget. Ma tu non sei in grado di capirlo”. Il giorno dopo Gossage va in una libreria sulla Lexinton e chiede se avessero qualche pubblicazione del fotografo parigino scoperto da Berenice Abbott. Vanno negli scantinati e trovano una delle tante copie rimaste invendute della sua unica monografia pubblicata nel 1930 da E. Weyhe. “La compro. La apro e non ci capisco nulla. Solo anni dopo ho iniziato a comprendere”. Oggi nel soggiorno di Gossage fanno bella mostra due stampe vintage di Atget e uno dei ritratti che gli fece a Parigi la stessa Abbot. “E’ lì che mi guarda, tutti i giorni, e mi ricorda di restare umile”. Oggi l’archivio del fotografo francese è conservato al MoMa che, sulla stessa parete della prima sala della collezione permanente, espone sei albumine dell’artista vicine a due capolavori di Paul Cézanne.

 

Nella bizzarra biografia del fotografo non manca una sbandata per il rock. Nel suo studio, tra scatole di negativi e provini, è conservata la sua Fender Telecaster del 1954, imparata a suonare da Roy Buchanan e Danny Gatton. In bilico tra la vocazione per la musica e quella per la fotografia, nel 1968 si decide per la seconda dopo due settimane passate in tour con i Cream di Eric Clapton: “Mi resi conto che non avevo il fisico per drogarmi come facevano loro…”. Qualche anno dopo, grazie all’amicizia di Lewis Baltz, entra nella prestigiosa scuderia del re dei galleristi newyorchesi, Leo Castelli, che aveva fatto la sua fortuna facendo conoscere al mondo i grandi nomi della Pop Art. Il sodalizio dura dal 1975 al 1990, quando il mercante nato a Trieste si ritira. “Leo mi chiamò chiedendomi con quale altra galleria avrei voluto lavorare. Una sua telefonata, allora, avrebbe aperto qualsiasi porta. Risposi che non era necessario, perché volevo dedicarmi ai miei libri. Avevo capito che i libri d’artista sono la major league della fotografia. Mi interessava fare quello”.

 

Qualche anno prima infatti, era il 1985, per i tipi di Aperture, era uscita la sua prima monografia, “The Pond”, considerato il suo capolavoro. Si tratta di una sequenza di immagini in bianco e nero realizzate nei pressi di uno stagno, in un’area coperta da boschi non curati, ai margini di una città. “E’ un libro furbo e sovversivo”, scrive Toby Jurovics nell’introduzione all’ultima edizione: “Appena pubblicato, sembrava essere un po’ caotico, un po’ stridente nel suo passaggio da un’immagine all’altra. Di tanto in tanto ci si chiedeva: ‘Perché ha fatto questo foto?’”. In effetti, ciò che colpisce in tanti di questi scatti è l’apparente assenza di un soggetto. Continua Jurovics: “Questa confusione sembrava minare la nostra idea del presunto punto di forza della fotografia: la sua capacità di descrizione diretta e di significato evidente. Eppure, mentre giravamo da una pagina all’altra, prima che ci rendessimo conto di ciò che stava accadendo, il fotografo ci aveva convinto a passeggiare con lui. Se ci avesse detto prima dove eravamo diretti, avremmo potuto rifiutare, ma era troppo tardi per tornare indietro”. Il punto, per l’artista, è che in letteratura il paesaggio inevitabilmente diventa l’ambientazione, lo sfondo di una storia. Il linguaggio verbale fatica nella descrizione dell’elemento naturale. Mentre per la fotografia è diverso: il paesaggio può diventare il tema principale.

 

Il modo in cui si susseguono le immagini è necessario e corrisponde alla strada che l’autore desidera farci percorrere. Ma non solo. La sfida non è soltanto di simulare una passeggiata. Quale sia la posta in gioco, lo spiega Robert Adams che, recensendo il volume per “Creative Camera”, scriveva: “L’ironia, definita come incongruenza non riconosciuta, assume molte forme come soggetto artistico. John Gossage, nei suoi lavori precedenti, è stato attento a diversi tipi di ironia, tra cui quella che interessava a Melville: la sproporzione, non riconosciuta, dell’individuo rispetto al mondo nel suo complesso. Una delle sue immagini più divertenti mostra, ad esempio, una formica che si arrampica su un palo della luce”. In questo libro, spiega Adams, “sebbene riconosca implicitamente tali sproporzioni (sottintendendo che esse offrono consolazione piuttosto che umiliazione), fondamentalmente non si tratta di ironie di tipo minore. Nonostante l’eco di Thoreau (l’autore di “Walden ovvero Vita nei boschi”, ndr), che potrebbe sembrare una promessa didascalica, Gossage non usa la sua indagine sul bosco intorno a uno stagno per sottolineare un’accusa; il paesaggio off-road attraverso il quale ci conduce è un insieme di ciò che è naturale e dell’intervento maldestro dell’uomo, ma la sua attenzione non si concentra tanto sulle brutture dell’insieme dei due elementi, quanto sulle certezze della semplicità della natura”.

 

Se oggi si chiede a Gossage che cosa cerchi in una fotografia risponde: “Sento esigenza di sapere di più. Desidero vedere un punto di vista nuovo sulle cose. Qualcosa di mai considerato. Inaspettato. A volte ci troviamo davanti a qualcosa che, di per sé, non dovrebbe funzionare. E invece funziona”. Ma quando ci accorgiamo che uno scatto non è solo un documento ma qualcosa di più? “Occorrono pochi istanti per guardare un’immagine. Eppure ci sono fotografie che ti continuano a parlare senza stancarti. E’ questa la differenza tra una foto comune e un’opera d’arte. Quest’ultima ha il potere di regalarti la convinzione che la vita ha un significato”. Ma che cosa rende unico il linguaggio della fotografia? “Si tratta di un medium piuttosto limitato, ma con una grande profondità. La cinematografia riesce ad essere più fedele a ciò che riproduce.

 

Se oggi si chiede a Gossage che cosa cerchi in una fotografia risponde: “Qualcosa di mai considerato prima”

   

Ma ciò che fa la fotografia, cioè fermare le cose, sottrarle dal flusso del tempo, la rende uno strumento unico, perché l’immobilità è qualcosa di affascinante e di cui è difficile fare esperienza diretta nella vita. Fissa le cose, sottraendole dal tempo, in modo che diventino memoria. Nell’inquadratura è come se cogliessimo una possibilità di significato che è comunicabile, nella sua complessità, solo in quel modo. Ma questo significa anche che la fotografia apre la possibilità che la metafora, nel mondo, esista davvero”.

 

Il significato complesso da comunicare: la fotografia apre la possibilità che la metafora, nel mondo, esista davvero

 

 

E’ impossibile elencare i tantissimi volumi realizzati da Gossage che, negli ultimi due decenni, si è affidato all’editore e grande stampatore di Gottinga Gerhard Steidl. Ma ciò che si può dire è che la costante del lavoro dell’artista, che solo negli ultimi anni ha iniziato a lavorare anche con le immagini a colori, è un senso di ferma enigmaticità che riesce a imprimere alle proprie immagini. Qualcosa che lo distingue dalla fotografia americana e che lo avvicina, per alcuni aspetti, all’opera del tedesco Michael Schmidt e del suo amico Guido Guidi. Lewis Baltz, sulle pagine del magazine “Aperture”, una volta ha commentato un’immagine scattata da Gossage a Seattle nel 1979. Si tratta di un comune davanzale, ripreso in modo che si veda contemporaneamente parte della finestra, il muro dell’edificio e la strada sottostante: “Come tutti i fotografi abili nello stile documentario, anche lui capisce che le sue migliori opportunità risiedono nel trarre un’epifania dalle cose trascurate e disprezzate del mondo usando i mezzi più economici a disposizione, cioè sfruttando appieno il carattere proprio della fotografia fissa. A volte ci riesce con una facilità e una letteralità al limite del perverso, perché cosa c’è di più intrinseco alla fotografia dell’immobilità stessa?”.

 

Ma Baltz non si riferisce alla categoria del “momento decisivo”: “La sua preoccupazione si rivolge a un understatement più radicale, arrestando situazioni meno dinamiche, persino statiche, per invitare a una lettura più ironica del rapporto tra la fotografia e ciò che viene fotografato. Il punto di vista di Gossage è che egli aspira a introdurre nel suo lavoro una dimensione che potrebbe essere definita mitica. (…) L’autore di una mitologia contemporanea deve agire in circostanze diverse da quelle dei suoi predecessori: piuttosto che manipolare un sistema di credenze condiviso, deve riconoscere che tutti questi sistemi sono in rovina e che nulla è del tutto credibile. Un mito contemporaneo dovrebbe essere un mito invertito, che promuove lo scetticismo piuttosto che la fede e sostituisce l’ironia alla credulità”.

 

“Il punto di vista di Gossage è che egli aspira a introdurre nel suo lavoro una dimensione che si può definire mitica”

 

A ben vedere, siamo di fronte a uno scetticismo e a un’ironia più procedurali che sostanziali. La fotografia di Gossage non sembra rinunciare a una pretesa di conoscenza del mondo e di riconoscimento di un significato. Piuttosto l’atteggiamento sovversivo è rivolto al senso comune, alla pigrizia dello sguardo, alla scontatezza incapaci di accorgersi della metafora che è il mondo. Quel mito, o quell’epifania, che la luce riesce a intrappolare nei sali d’argento della pellicola fotografica in modo così misterioso.