Luoghi che cambiano la vita /3
Sognare una vita nuova
I luoghi che mi hanno reso felice mi rattristano, perciò preferisco scoprirne di altri dove trovare salvezza e bellezza. Insomma, luoghi come Domodossola, Clusone, Sansepolcro, Spoleto, Fossombrone, Orte, Taverna
Continua con l’articolo di Camillo Langone la serie “Luoghi che cambiano la vita”. La prima puntata, “Dal paese a Napoli, tutta un’altra vita”, di Ester Viola, è uscita sul Foglio di lunedì 8 luglio. La seconda, “Il miracolo delle pietre nere”, di Giuseppe Sottile, è uscita sul Foglio di sabato 3 agosto.
Se ti conosci ti eviti”, scrive sulle sue magliette Johnson Righeira. Ed è una frase contemporaneamente punk e pascaliana, che pertanto sposo all’istante. L’Io è odioso, diceva il filosofo di Port-Royal, e figuriamoci i luoghi colpevoli di averlo determinato questo insulso, pretenzioso, lamentoso ego. Conoscendo troppo bene le città che mi hanno cambiato la vita, le evito. Perfino se ci abito, soprattutto se ci abito. Non voglio nemmeno nominarle. Appena posso prendo il diesel (sono un uomo di provincia, un uomo in diesel) e parto a vedere quelle che la vita me la cambieranno. Impossibile? Tutto è ancora possibile. Mi trasferissi davvero nelle località seguenti eccome se la mia vita cambierebbe: Domodossola, Clusone, Sansepolcro, Spoleto, Fossombrone, Orte, Taverna. Sono città, cittadine, paesi in cui non ho mai messo piede, vergini del mio sguardo a parte Orte, piccola Orvieto che ho scorto mille volte dall’autostrada. Ma finché non tocchi non conosci davvero.
Se le città dove abito mi tediano, le città in cui sono stato felice mi rattristano terribilmente. Si dice che non bisogna mai tornarci e allora dovrei evitare quasi tutte le località fra Bologna e Riccione e fra Rimini e Ravenna. Dunque non scriverò di Romagna. Roberto Calasso ha teorizzato, sulla scia di Bobi Bazlen, la primavoltità, il qualcosa che prima non c’era. Si riferiva ai libri ma si può applicare a tutto. A una donna ovviamente e a una città e in entrambi i casi suscita entusiasmo: permette innanzitutto di sognare una vita nuova. A qualcuno sembrerà difficile sognare una vita nuova a Domodossola, cittadina di fondovalle al confine con la Svizzera. Piero Chiara la definì “triste e chiusa”, lui che era specializzato in malinconici paesi di lago. Il cantante domese Alberto Fortis nei suoi brani ha lodato Milano, non Domodossola. Del fotografo domese Gabriele Croppi conosco gli scatti metafisici di Ferrara, Pisa, Roma, New York (il Flatiron Building!), quelli di Domodossola li ignoro, forse non esistono o forse non li considera nessuno.
Perfetto: a Domodossola non rischierei l’overtourism. D come Domodossola e Domodossola come Duomo dell’Ossola. Prende il nome dalla sua chiesa principale, la collegiata dei Santi Gervasio e Protasio in cui viene custodito un quadro che merita un viaggio, un soggiorno, una residenza, un libro: “San Carlo Borromeo comunica gli appestati” di Tanzio da Varallo (1616). C’è il grande santo aristocratico che, seguito dal corteggio dei suoi chierici, si avvicina agli ammalati per somministrare l’eucaristia. No mascherine. No guanti. No gel. Soltanto Cristo (se Cristo può essere soltanto). Il timore non è quello di contagiarsi, che sarà mai, dobbiamo tutti morire, ma quello di profanare l’ostia, facendone cadere per terra anche una sola briciola. E infatti un assistente accorre col piattino. Sale dal controriformistico Seicento una sonora lezione di fede, di carità e perfino, a dispetto del cielo cianotico, di speranza. Ovviamente nella vita eterna, essendo quella terrena una valle di lacrime. Io comunque a Domodossola anziché piangere vorrei mangiare gnocchi di castagne, bere il Prünent, versione ossolana del Nebbiolo, incamminarmi verso la Val Bognanco “delle cento cascate”, tutti suggerimenti di Alberto Fortis intervistato da Beba Marsano per il Corriere, poi salire al Sacro Monte dove il Beato Rosmini ha scritto “Le cinque piaghe della Santa Chiesa”, una fra queste i vescovi dediti alla politica anziché all’evangelizzazione (il libro ha due secoli ma sembra stia parlando di Zuppi). Soprattutto vorrei organizzare pellegrinaggi al gran quadro di Tanzio. Ammirandolo compunti, i sacerdoti che durante la cosiddetta pandemia hanno accettato supini la sospensione della Messa, e i laici che ancora insistono col strofinarsi le mani prima della comunione, potrebbero implorare il perdono di Dio. Sicuramente più misericordioso di me che i cattocovidisti non li ho perdonati ancora.
A Clusone cambierei la mia vita a cominciare dalle mie estati. A 648 metri sul livello del mare, lassù sulle Prealpi bergamasche, si respira: leggo che in luglio, il mese più caldo, la temperatura massima è in media 24,8 gradi. Mi risparmierei di uscire in polo (la polo non mi piace nemmeno in casa), schiverei deumidificatori, condizionatori, tutti gli aggeggi che ora imbruttiscono gli appartamenti in cui languo. Passerei il tempo a studiare “Trionfo e danza della morte” di Giacomo Borlone De Buschis (1485), dipinto all’esterno di un oratorio e perciò segnale di fede pubblica, non intimista, ossia di vera religione. Il gotico affresco ispirò, nei Settanta che non furono soltanto piombo e rock, “Ballo in fa diesis minore” di Angelo Branduardi: “Sono io la morte e porto corona / io son di tutti voi signora e padrona”. Il riccioluto menestrello aveva letto i cartigli di Clusone, ad esempio “Ognia omo more e questo mondo lassa / chi ofende a Dio amaramente passa”. Si capisce che siamo dalle parti, non geografiche bensì poetiche e spirituali, di San Francesco e Frate Jacopone, negli ultimi giorni del più cristiano Medio Evo. Botticelli aveva già dipinto la “Nascita di Venere” e invece qui poco o nulla di rinascimentale e assolutamente niente di pagano. L’unica donna presente è vestitissima e non sta nascendo, sta per morire. Fra i vari potenti che implorano la Morte coronata e sghignazzante il Re chiede all’Ebreo il segreto per sfangarla. Mi vengono in mente i miliardari della Silicon Valley che chiedono l’immortalità agli scienziati. Poveri illusi o magari ricchi illusi, a ogni modo illusi: anche di loro è signora e padrona.
A Sansepolcro non cambierei la mia vita, la salverei. Se è vero che la bellezza salva, salvifico sarebbe il frequente contatto con “la più bella pittura del mondo”, come Aldous Huxley definì la “Resurrezione” di Piero della Francesca (1450/63), su una parete del Museo Civico. Mi piacciono queste affermazioni assolute, l’esatto opposto della brodaglia relativista degli odierni curatori che mai e poi mai espliciterebbero gerarchie. Un po’ per ignoranza, molto per vigliaccheria. Se critichi rischi, perfino se lodi rischi qualcosa (la vendetta dei non lodati), se invece non dici nulla, nulla di comprensibile, nulla di significativo, puoi dormire fra quattro guanciali e lavorare, mollusco mercenario, con quarantaquattro gallerie. “Sansepolcro / ferma nelle sue ocre”, scrive Davide Rondoni e pure questa immobilità mi piace. Se Sansepolcro è ferma, e non ho motivo di dubitarne, riuscirà a rasserenarmi. E se dovessi innervosirmi per le notizie che arrivano dal mondo ci sarebbe la melissa di Aboca, azienda fitoterapica con sede in loco. No, non la voglio una vita nuova a Milano, la città che sale e che salendo mi agita.
Lo chiamano triumphans, trionfante, il Cristo di Spoleto, realizzato da Alberto Sozio nel 1187. A giudicare dalle foto lo direi più che altro perplesso. E’ la faccia giusta da fare davanti alla profanazione turistica del Duomo in cui è conservato e della città tutta. Cristo, il profeta più grande, già nel Medio Evo vedeva il Festival dei Due Mondi, le travel influencer, gli smartphone in chiesa… Giuseppe Berto nel “Male oscuro” definisce il Festival “sagra culturale”, come dire sagra dissacrata, sagra atea. “Nelle strade e nelle piazze tutte storte c’è una tale congerie di persone omosessuali e anche no”, scrive, e in sessant’anni le cose possono essere soltanto peggiorate. Io ho due armi segrete. Per dimenticare i turisti che bevono spritz mi darei al Sangiovese delle ottime cantine locali: il Sangiovese fermo di Collecapretta e il Sangiovese frizzante, rifermentato in bottiglia, della Cantina Ninni. Lo abbinerei ai salumi di Norcia e brinderei con i due grandi artisti, fra i massimi oggi in Italia, che hanno deciso di soggiornare nei pressi: Stefano Di Stasio e Marco Tirelli. Mentre per dimenticare le scollacciate nelle navate, o almeno provare a farlo, salirei a Monteluco, antico romitaggio, dove pregò Michelangelo e dove riposa per sempre Domenico Gnoli.
“All’ospedale di Fossombrone si va sempre davvero volentieri, gentili pure quando a casa mia la fine del palo di castagno che dovevamo issare sopra le colonne cadde, e il suo inizio mi rimbalzò sul cranio”. Lo scrive Geminello Alvi in “La Confederazione italiana”. Se i forsempronesi (sic) sono gentili all’ospedale saranno gentili ovunque. Sulle rive del Metauro potrei quindi inaugurare, dopo essermi scontrato con tanta prepotenza, con tanta maleducazione, una vita benedetta dalla gentilezza. Le parole di Alvi mi sembrano confermate dal nome del ponte principale: Ponte della Concordia. Allora non è vero che Polemos è il padre di tutte le cose, che è indispensabile intitolare ponti a guerrafondai del calibro di Garibaldi e Cavour. Nella cittadina delle Marche settentrionali il quadro intorno a cui intendo gravitare è “Gli amanti sorpresi” di Anselmo Bucci (1920), visibile nella Casa-museo Cesarini. Bucci era un indigeno e mi piace immaginare che anche la modella lo fosse e che tutto il ben di Dio genetico raffigurato sulla tela ancora alligni in zona. Titolo e soggetto farebbero pensare a un dramma della gelosia, al prologo di una violenza, e invece no, Fossombrone è gentile e Bucci non somiglia a Gesualdo da Venosa. E’ uno scherzo, un gioco: un gioco erotico a tre.
“O Roma o Orte”, disse sarcastico Mino Maccari nei giorni della Marcia famigerata. Potendo scegliere fra la Capitale e la Tuscia, sempre la Tuscia. Come sarebbe più felice e più bella l’Italia se Mussolini si fosse fermato, fosse stato fermato, a Orte. Quanti lutti sarebbero stati risparmiati agli italiani di allora. Quanti libri di Antonio Scurati sarebbero stati risparmiati agli italiani di oggi. Non esisterebbe la rendita politica dell’antifascismo, Ilaria Salis farebbe ancora la maestra a Monza se la mattina del 28 ottobre 1922 quel mentecatto di Vittorio Emanuele III avesse firmato il decreto dello stato d’assedio. Orte “rupestre / impasto di orti e tufo” (Gabriella Sica), “diamante cariato” (Aurelio Picca), oggi sarebbe sacra alla Patria come il Piave. E invece è andata male, per l’Italia e per Orte che è rimasta soltanto un paese. No, sto esagerando, non può essere soltanto un paese il luogo che può vantare, nel Museo Diocesano, la “Madonna dei Raccomandati”, tempera su tavola di Cola da Orte (1500-02). A differenza di Maccari che scherzava, Cola davvero dovette scegliere fra Roma, dov’era nato, e Orte, dove si era sposato. Fu talmente saggio da preferire Orte. Il suo capolavoro per me ha valore, più che artistico, liturgico. Cercatelo, guardatelo: tutti coloro che si stringono sotto il manto di Maria e le si raccomandano, compreso il molto bisognoso di intercessione Papa Alessandro Borgia, pregano a mani giunte. Come oltre mezzo millennio dopo continuo a fare io quando durante la Messa recito il Padre Nostro, mentre gli altri convenuti, fedeli di rito bergogliano, pregano a braccia aperte. Gente che non conosce Cola da Orte, il pittore più assennato.
A Taverna potrei realizzare senza difficoltà il desiderio espresso da Maddalena-Anouk Aimée nella “Dolce vita”: “Vorrei vivere in una città nuova e non incontrare più nessuno”. Di sicuro non ci incontrerei nessuno che abbia fatto parte delle mie vite precedenti: Taverna è lontana (50 minuti di curve) perfino da Catanzaro. “Un fiore tra le montagne”, secondo Mario Caligiuri, “piccola cittadina d’arte”, secondo Guido Piovene, meno poeticamente e meno correttamente. Sì, ho colto in fallo l’antico maestro di “Viaggio in Italia”. Colpevole ridondanza la sua, una cittadina non può essere grande, se è grande è una città, scrivere “piccola cittadina” equivale a dire “piccolo paesino”, è leziosaggine di chi non controlla il lessico, un letterato non dovrebbe inciampare in tal modo nemmeno a pagina 646 (nella mia edizione Bompiani). L’arte che rende così rilevante un borgo sperduto della Sila consiste nei quadri del nativo Mattia Preti e fra questi il mio prediletto “Cristo fulminante (Visione di San Domenico)” (1681), collocato appunto nella chiesa di San Domenico. “L’immagine del Cristo sembra ancora quella di Giove vendicatore sconvolto dall’ira per la condotta degli uomini”, ha scritto Sgarbi. Sarà per questo che mi piace tanto: basta Cristi dolenti, morenti, impotenti, viva il Cristo furente! Potrebbe essere la copertina di un libro edito da Rubbettino (sede a Soveria Mannelli: 60 minuti di curve). Titolo: “Tuoni e fulmini”. Sottotitolo: “Perché l’umanità merita di essere incenerita”. Lo scriverei facilmente, non credo che pulluli di distrazioni, Taverna.
Luoghi che cambiano la vita, la serie del Foglio
Universalismo individualistico