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Fedele e disobbediente salvatore. Max Brod, l'amico che custodì il genio di Kafka

Francesca d'Aloja

Entusiasmo, energia e ottimismo, così aveva conquistato lo scrittore praghese. Il talento di fiutare il talento altrui. Grazie al suo “tradimento” possiamo leggere “Il processo” e “Il castello”

Cos’altro si potrebbe aggiungere alla messe di doverose celebrazioni per il centenario della morte del più grande genio del ‘900? Il lascito sapienziale di Franz Kafka, caso forse unico nella storia della letteratura, rappresenta un infinito serbatoio di riflessioni da parte di lettori, studiosi, critici, filosofi, teologi, intellettuali, i quali, non paghi di aver setacciato la miniera d’oro, vanno in cerca di pepite nascoste da dissotterrare. Franz Kafka produce dipendenza, una volta catturati dal gorgo non se ne esce più, non se ne vuole più uscire. Confesso la mia inscalfibile devozione per lo scrittore boemo (ma il termine scrittore, lo sappiamo, è riduttivo), suggellata da uno dei suoi noti disegni di omini stilizzati che mi sono fatta tatuare sulla spalla sinistra, a Praga, anni fa. K. è su di me e dentro di me. 
   

Se mai esistessero delle lacune, le ha colmate Reiner Stach con la sua monumentale biografia: dopo aver divorato le quasi duemila pagine che la compongono (tutte necessarie) ci si sente arricchiti e al tempo stesso svuotati dalla definitiva certezza che più in là di così non si possa andare. E dunque vorrei umilmente dirottare l’attenzione verso un personaggio la cui esistenza si deve interamente a K., ma senza il quale lo stesso K. non esisterebbe. L’uno ha vissuto, vive, grazie all’altro e viceversa. Senza Max Brod, forse, sapremmo ben poco di Franz Kafka, mentre è certo che senza Kafka la meteora Max Brod si sarebbe presto eclissata. E dire che Brod, in vita, fece di tutto per lasciarlo, un segno. 
 

Coevo di Kafka, comincia a scrivere prestissimo. Nel 1908, a soli ventiquattro anni ha già all’attivo tre libri e un quarto in arrivo, il romanzo Il castello di Normepygge, che lo farà conoscere nell’ambiente letterario praghese. È un consumatore e al tempo stesso promotore culturale instancabile, si interessa di musica (è un bravo pianista), poesia, giornalismo e studia, studia continuamente, soprattutto filosofia, convinto che tutto quel sapere corroborerà il suo talento, sul quale non coltiva il minimo dubbio. È questa la sua più grande, struggente debolezza. La cieca fiducia delle proprie capacità lo spinge, senza alcun senso critico né ritegno a “bombardare” (termine usato beffardamente da Reiner Stach, che non gli risparmia frecciatine di scherno…) “qualunque agente culturale avesse a portata di mano, fra cui scrittori, drammaturghi, editori e giornalisti con lettere di raccomandazioni e richieste invadenti”. Richieste non soltanto personali, ma anche, e questo gli fa onore, mirate a suggerire e promuovere opere di scrittori a suo giudizio sottovalutati. (Stefan Zweig lo definirà “un giovane poeta interamente devoto a tutto ciò che gli appare grande”). Il vero, impareggiabile talento di Max Brod era in effetti quello di fiutare il talento altrui, riconoscerlo, per poi farsene sincero sostenitore senza nulla chiedere in cambio, scevro da invidia o meschina rivalità. A Brod, semplicemente, piaceva darsi da fare. A venticinque anni ha già collezionato una lista di contatti impressionante: da Rilke a Hofmannsthal, dai fratelli Mann a Wedekind, sono più di mille le lettere che testimoniano la sua forsennata attività di promoter. La conoscenza delle due lingue nazionali, il ceco e il tedesco, gli consente inoltre di tradurre testi per agevolarne la diffusione. 

 

E dire che Brod, in vita, fece di tutto per lasciarlo, un segno.  Nel 1908, a soli ventiquattro anni ha già all’attivo tre libri e un quarto in arrivo

 

Entusiasmo, energia e ottimismo: sono questi gli aspetti che hanno conquistato Franz Kafka. Secondo la banale e sempre valida formula degli opposti che si attraggono, il taciturno, insicuro Kafka deve aver intravisto nel futuro amico Brod uno scintillìo vitale a lui sconosciuto e per questo degno di considerazione (per K. in verità ogni cosa lo era). Si può datare il giorno di questa rivelazione: il 23 ottobre 1902, nel dipartimento di letteratura dell’università, è annunciata una conferenza dal titolo Destini e futuro della filosofia di Schopenhauer. Lo studente di giurisprudenza Franz K., incuriosito dal tema, si iscrive nella lista dei partecipanti. Nonostante la posizione defilata in fondo alla sala, rimane colpito dalla veemenza oratoria del conferenziere. È un ragazzo di diciotto anni dall’aspetto singolare: piccolo di statura, esibisce un pince-nez da vecchio signore e si muove in modo sghembo per via di un’evidente cifosi che tuttavia non sembra causargli alcuna timidezza. Il clou del suo intervento è un attacco diretto e senza perifrasi contro Nietzsche, reo di aver criticato Schopenhauer. Una matricola di neanche vent’anni ha la faccia tosta di lanciare strali contro il filosofo più influente dell’epoca. “Che coraggio” deve aver pensato il coetaneo K. considerando fra sé e sé la voragine caratteriale che lo separa da quel ragazzo, l’energico Max Brod. Non condivide nulla di ciò che egli afferma, e la conclusione della conferenza non ha soddisfatto le domande che avrebbe voluto porgli, così lo aspetta per proseguire la questione in privato. Passeggiando su e giù per le strade umide della città, i due discuteranno fino all’alba, inaugurando così un’amicizia che perdurerà nei vent’anni che restano da vivere a Franz Kafka

 

L’incontro a una conferenza del giovane Brod in cui attacca senza perifrasi Nietzsche. “Che coraggio”, deve aver pensato lo studente Kafka

 

Max rimarrà sempre al suo fianco e lo sarà ancor più, come sappiamo, dopo la sua morte. A colpire è la loro totale asimmetria, non soltanto fisica (Kafka è alto e sottile), quanto esistenziale. Sarebbe disonesto sottolineare la superiorità intellettuale di K. con la quale nessuno fra i contemporanei e tantomeno fra i posteri potrebbe competere, ed è proprio questo squilibrio ad aver suscitato incredulità se non addirittura sarcasmo: Walter Benjamin sosteneva che il più grande mistero della vita di Kafka fosse il suo rapporto di amicizia con “un uomo del genere”. Andando a ritroso è importante ricordare quanto agli inizi della loro frequentazione lo squilibrio eventuale andasse a discapito di Franz Kafka. Fra i due il più affermato era senza dubbio Brod, il quale, avendo già pubblicato libri, saggi e recensioni poteva attribuirsi a buon titolo lo statuto di “scrittore”, mentre l’altro non osava nemmeno confessare di aver prodotto a sua volta del materiale letterario (e che materiale…) tanto che a lungo Brod ignorerà la segreta attività del suo amico del quale aveva potuto ammirare soltanto i disegni (già solo quegli schizzi lo colpirono a tal punto che pensò di mostrarli in un circolo di pittori praghesi presentando Kafka come “un grandissimo artista”). Ciò che li unisce è la comune passione per la letteratura sebbene i loro gusti non sempre coincidano, circostanza che li incoraggia a scambiarsi suggerimenti su libri e autori prediletti. Solo più avanti Brod potrà convalidare la definizione di “grandissimo artista” riferita a Kafka, e non sarà per i suoi disegni. 
Una scoperta, questa, che cambierà la vita di entrambi.
 

A lungo Brod ignorerà la segreta attività del suo amico del quale aveva potuto ammirare solo i disegni. Bastavano a fargli dire “grande artista”

 

Nei confronti di Max Brod prevalgono in me due sentimenti: da un lato l’infinita gratitudine (gli andrebbe riconosciuto un titolo onorifico al pari di quegli scienziati che con le loro scoperte hanno salvato l’umanità), dall’altro una profonda invidia nel saperlo benedetto da tale incontro. Nessuna invidia per le donne che hanno amato, o meglio hanno tentato di amare K., ma essergli amico, per di più ricambiato, che immensa fortuna! 


Basta leggere le numerosissime lettere che si sono scritti per capire quanto fossero uniti. 
Alcuni stralci: 27/5/1910, compleanno di Max Brod. K. è solito regalargli dei libri, ma stavolta, per i suoi ventisei anni, aggiunge qualcosa: “Ecco qui caro Max, due libri e un sassolino… Se lo conservi nel taschino ti proteggerà, se lo lasci in un cassetto non rimarrà comunque inerte, ma se lo getti via è la cosa migliore. Perché lo sai Max, il mio amore nei tuoi confronti è più grande di me e sono io a vivere in esso più di quanto esso non viva in me…”. Le lettere di Brod sono altrettanto affettuose, colme di ammirazione e sincera apprensione per lo stato di salute del suo amico. Quando lo sente lontano, prigioniero del suo autoisolamento, gli scrive accorato: “Caro Franz, perché ancora senza tue notizie? Non dovresti abbandonarmi così al mio destino, dovresti prenderti a cuore la mia anima che si abbrutisce…”. Non manca mai di spronarlo nella scrittura, lo incita a pubblicare i suoi testi (solo pochissimi vedranno la luce prima della scomparsa di K.) e l’altro risponde, risponde sempre: “Stasera non vengo ancora, voglio rimanere solo fino a lunedì mattina, fino all’ultimo momento. Questo starmi alle costole è pure una gioia che mi riscalda, una gioia sana nonostante tutto, poiché crea in me quella inquietudine generale da cui proviene l’unico equilibrio possibile. Se andasse avanti così allora potrei guardare tutti negli occhi, cosa che per esempio, nei tuoi confronti, prima del viaggio a Berlino e persino a Parigi, non potevo fare. Te ne sarai accorto. Ti voglio così bene e non ho potuto guardarti negli occhi”. 

 

Gli scrive K.: “Questo starmi alle costole è pure una gioia (…) crea in me quella inquietudine generale da cui proviene l’unico equilibrio possibile”


Memorabili i loro viaggi insieme, non privi di risvolti tragicomici.
Il primo, nel 1909, in Italia, sul lago di Garda, dove trascorrono alcuni giorni di svago fra passeggiate e nuotate nel lago. Con loro c’è Otto, il fratello di Max. Venuti per caso a sapere di una importante kermesse aviatoria cambiano programma e si trasferiscono a Brescia. E’ annunciata la partecipazione del celebre pilota Louis Blériot nonché la presenza di Vittorio Emanuele III, Gabriele D’Annunzio e Giacomo Puccini. E’ un’occasione da non perdere e all’intraprendente Max viene subito l’idea di un reportage sull’evento: “Perché non lo scriviamo insieme?” propone all’amico. Mal gliene incolse. In quella che risulterà essere una delle prime pubblicazioni di Franz Kafka, nata come un gioco fra amici, emerge l’impietosa supremazia letteraria dell’uno sull’altro. Lo stile ridondante di Brod (“Una sproporzione fra la pretesa artistica e la capacità di realizzarla” sentenziò un famoso editore) si scontra con l’essenzialità della scrittura di K. che riporta così l’impresa del pilota: “Ora però viene l’apparecchio con cui Blériot ha attraversato la Manica: nessuno lo ha detto, ma tutti lo sanno. Una lunga pausa e Blériot è nell’aria, si vede al di sopra delle ali il suo busto eretto, le sue gambe sono giù in fondo, come se facessero parte dei motori. Il sole è calato e attraverso il baldacchino delle tribune illumina le ali che si librano in aria. Tutti guardano lassù verso di lui, nessuno ha posto per altri nel proprio cuore…” e poi conclude, rovesciando la prospettiva: “… cosa sta succedendo? C’è qui un uomo intrappolato in un telaio di legno a venti metri da terra che si difende contro un pericolo invisibile che si è sobbarcato liberamente. Noi invece stiamo qua sotto, ammassati e irreali, a guardare quell’uomo”. Ammassati e irreali. Basta questo.  
 

Il reportage a firma K. uscì sulla rivista Bohemia, il contributo di Brod venne respinto… Seguiranno altri viaggi, sempre su iniziativa di Max Brod che al contrario di Kafka (nulla è avventuroso nella vita di K., tranne la sua mente) si è spinto spesso oltre confine. E’ già stato a Parigi ad esempio e vorrebbe tornarci insieme al suo amico. Ci andranno ben due volte poiché il primo soggiorno viene funestato da un fastidioso sfogo cutaneo che costringe K. a rientrare a Praga. Quando ci riprovano, nel 1911, alla prospettiva del viaggio (il più lungo nella vita di K.) si aggiunge anche quella di prendere appunti, separatamente, per annotare e commentare tutto ciò che vedranno. Il tour estivo prevede un passaggio in Svizzera, poi Milano e infine Parigi.  Sono pieni di entusiasmo e di infantile inesperienza, nonostante siano alla soglia dei trent’anni. Poco avvezzi alle novità, si misurano goffamente con nuove esperienze come quella di sfidare la fortuna in un casinò di Lucerna per poi uscirne, furiosi, con le tasche vuote.

 

Infantile inesperienza, nonostante siano alla soglia dei trent’anni. Si misurano goffamente con nuove esperienze, si fanno ripulire al casinò

 

Più di una volta vengono turlupinati da guide che li indirizzano verso ristoranti troppo cari o alberghi non alla loro portata e dopo l’ennesima fregatura si industriano per realizzare una guida turistica per “il viaggiatore inesperto” nella quale indicare i giorni a ingresso ridotto nei musei, i trasporti meno costosi, ristoranti, alberghi e bordelli (imprescindibili) a prezzi abbordabili, nonché suggerimenti su luoghi da visitare e altri da evitare. Non mancano idee di marketing e offerte eventuali di coupon da acquistare prima della partenza. Kafka considera (ossessione per le parole!) anche di includere un manuale di conversazione: “Allineare su due colonne gli infiniti. 200 vocaboli. Una specie di esperanto. La lingua dei gesti in Italia. Trattare a fondo la pronuncia”. Hanno già in mente il titolo: la guida, declinata per i diversi paesi, si chiamerà “A poco prezzo”. Convinti del valore commerciale dell’opuscolo, si ripromettono, una volta rientrati, di proporre l’iniziativa a un editore suggerito da Brod che però, davanti alla richiesta di un lauto anticipo, declinerà l’offerta mandando in fumo il sogno imprenditoriale di Brod&Kafka. “In vita mia non sono mai stato così sereno ed equilibrato come durante le settimane passate in viaggio con Kafka. Eravamo come allegri bambini, facevamo battute strane e spiritose, era una grande felicità vivere accanto a lui, apprezzare i suoi pensieri che zampillavano vivaci. Persino la sua ipocondria era divertente” dirà più tardi Brod, il quale, in realtà, si rivelerà ancora più fobico del suo amico. Succede appena giunti a Milano, quando i due vengono informati di un’epidemia di colera esplosa in città. Si trattava, a dire il vero, di soli sedici casi di contagio ma questo bastò a gettare Brod nel panico al punto che pretese di partire seduta stante per Parigi. 

L’ostinazione e il buon senso di K. lo convinsero a soprassedere: “Non possiamo mandare al diavolo un itinerario così all’improvviso!” ma neanche il diversivo di un passaggio al bordello riuscì a calmarlo. La puntura di una zanzara poi lo fece uscire di senno, improvvisi dolori addominali ne comprovavano, a suo dire, l’avvenuto contagio, e K. faticò non poco a riportare il suo amico alla ragione. Acconsentì tuttavia a partire al più presto: “non prima però di aver visitato il Duomo”. Giunti finalmente a Parigi, si accordano per soddisfare alternativamente le curiosità di entrambi: un po’ di musica per far piacere a Brod (la scelta cadde su la Carmen di Bizet), il teatro per Kafka (la Phèdre di Racine alla Comédie Française), e naturalmente il museo del Louvre, in quei giorni oggetto di attenzione della cronaca per via del recente furto della Gioconda, particolare riportato nei loro carnets di viaggio con il seguente commento: “Al posto del quadro, una parete vuota alla quale i turisti dedicano maggiore attenzione che a ogni altra opera d’arte presente”. 
 

Le aspettative circa la grandeur di Parigi che prometteva di rivelare cose mai viste si infrange con l’umorismo sarcastico di Max Brod che dopo una serata al cinema appunta: “Una sala buia difficilmente si distingue da tutte le altre sale buie. Ma noi, fermamente decisi a trovare sempre qualcosa che a Parigi è particolare e migliore che altrove, notiamo la spaziosità della sala - bè no, non è così spaziosa - poi notiamo che la gente scompare attraverso una porta buia sul retro – no, è così anche da noi, anche da noi ci sono porte di ingresso e di uscita…”. Nella loro ventennale amicizia non mancheranno divergenze di opinioni, la più profonda riguarda la convinta adesione di Max Brod al sionismo culturale che tendeva a separare, di fatto, gli scrittori ebraici di lingua tedesca dalla cultura germanica. Per Brod letteratura e sionismo “sono una cosa sola”, per Kafka, al contrario, la letteratura, così come lui la concepisce, deve preservare lo scrittore da ogni adesione. “Io sono incomprensibile a Max e lì dove gli risulto comprensibile, si sbaglia” scriverà alla fidanzata Felice Bauer.

 

Nel caso morissi ti prego di andare subito nel mio ufficio. Nel cassetto di mezzo della scrivania più vicina alla porta, ci sono due pacchetti avvolti in carta bianca. Entrambi questi pacchetti devi subito prenderli con te e bruciarli immediatamente, senza aprirli”. A scrivere queste disposizioni testamentarie non fu, come si potrebbe pensare, Franz Kafka, bensì Max Brod nel lontano 1918, ben prima del famoso biglietto lasciato dallo stesso Kafka, oggetto del “tradimento” più celebre e discusso della storia della letteratura. Naturalmente il primo è passato in sordina, annullato non solo dalla mancata dipartita del mittente, ma anche dal relativo interesse del suo contenuto, presumibilmente di natura privata. È rivelatorio però di una sorta di patto segreto siglato fra due amici che sanno tutto l’uno dell’altro, e commuove sapere che quando il mittente si tramuterà, sei anni dopo, in destinatario, le conseguenze saranno immani.
 

Quando Max Brod prenderà la tormentata decisione di disobbedire ai voleri del suo più caro amico, risparmiando l’opera fondamentale del più fondamentale scrittore del ventesimo secolo, sa di compiere l’azione più importante della sua vita (e in parte della nostra) e credo che chiunque, conoscendo la vicenda, si sia chiesto: “Cosa avrei fatto al suo posto…?”. La controversa infedeltà a Kafka altro non è che un tributo di fedeltà alla letteratura. Già dalla strategia adottata da Brod si deducono le sue intenzioni: i primi scritti che decide di rendere noti saranno proprio i due appunti in cui Kafka esplicita il desiderio che le sue opere inedite vengano distrutte. Confessando pubblicamente la propria disobbedienza, l’amico infedele dà prova di onestà e consegna il suo misfatto al giudizio dei posteri. E questo lo assolve in ogni caso, anche nell’eventualità non fosse vera la tesi da sempre sostenuta da Brod, e cioè che affidandogli il suo lascito, Kafka desiderasse intimamente che ne disattendesse le volontà.

 

Confessando pubblicamente la propria disobbedienza, l’amico infedele dà prova di onestà e consegna il suo misfatto al giudizio dei posteri

 

A conferma di ciò Brod ha sempre sostenuto che a seguito di una analoga richiesta formulatagli da Kafka in vita, lui avrebbe risposto categorico: “Se pensi seriamente che io sia capace di fare una cosa del genere, lascia che ti dica che non eseguirò i tuoi desideri”. Aggiungendo in seguito: “Per essere certo che le sue volontà venissero rispettate, Kafka avrebbe dovuto nominare un altro esecutore”. La decisione di pubblicare, oltre alle opere letterarie incompiute (Il Processo, Il Castello e America) anche le lettere e i quaderni, ovvero la rivelazione apparentemente irriguardosa di un’intimità, rientra a pieno titolo nello svelamento onnicomprensivo di un’opera, essendo essi stessi espressione altamente letteraria. Il salvataggio avventuroso dei documenti di K., nascosti da Brod in una valigia alla vigilia dell’occupazione nazista di Praga e trasportati a Tel Aviv, si concluderà dopo lunghi anni con una nemesi degna di un romanzo. La segretaria (nonché amante) di Brod, Esther Hoffe, alla quale quest’ultimo aveva espressamente richiesto di destinare i manoscritti alla National Library di Israele, ne tradisce a sua volta le volontà testamentarie e si tiene i documenti per poi rivendere, nel 1974, ventidue lettere e dieci cartoline, e successivamente il manoscritto del Processo, a una cifra strabiliante. Morta centenaria, Esther lascia in eredità i restanti documenti alle figlie Eva e Ruth, e solo dopo una lunga battaglia legale, conclusasi nel 2016, la Biblioteca Nazionale ne ottiene la restituzione. I documenti dell’amico geniale di Max Brod erano nascosti nell’appartamento fatiscente di Eva Hoffe, stipati in un frigo rotto e inzuppati di urina dei gatti. E non è escluso che ne esistano altri, nascosti chissà dove.

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