Leonid Pasternak, “La passione della creazione”, 1892 (Getty) 

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Todos romanzeros. Nessuno legge ma tutti scrivono

Maria Pia Farinella

Dalle Alpi a Marzamemi impazzano festival letterari, fiere del libro, premiazioni di scrittrici e scrittori (bisogna specificare). Ma nella fiera delle vanità non c’è un erede dei grandi autori civili come Manzoni e Sciascia

Todos caballeros. Così ebbe a dire Carlo V d’Asburgo, imperatore del Sacro romano impero e re di Spagna, giunto nell’ottobre del 1541 ad Alghero per trascorrere due giorni nel Regno di Sardegna, uno dei suoi tanti possedimenti. Pare che l’imperatore sulla cui giurisdizione non tramontava mai il sole, pressato da privatissime necessità fisiologiche e dalla mole di impegni pubblici, abbia concesso il cavalierato erga omnes ai postulanti di origine catalana che lo attendevano. Non si sa quanti fossero a reclamare un riconoscimento. Né per quale virtù specifica. I catalani di Sardegna volevano essere premiati per la lealtà dimostrata alla Corona di Spagna nei due secoli intercorsi dal loro arrivo in terra sarda. Fedeltà, certo, non scontata in tempi di trame e tradimenti. Carlo V li liquidò: “Siete tutti cavalieri”. 

  
Sulla veridicità dei fatti che si tramandano, gli studiosi ancora discutono. Ma l’esempio dell’imperatore ha trovato terreno fertile in Italia. In qualsiasi campo. Tutti cavalieri, a prescindere dal merito individuale e dal talento dimostrato. Tutti cavalieri, talvolta senza nemmeno un perché.

   
Metti le patrie lettere, un tempo orgoglio del paese. Magari non saremo quel “popolo di santi, navigatori e poeti” utile a Mussolini per annunciare la guerra d’Etiopia nell’ottobre 1935. Ma neppure meritiamo di essere un paese di carta dove la gioiosa macchina da guerra tipografica alimenta il mercato delle illusioni editoriali. Con tanto di scuole di scrittura ed editoria a pagamento. Vanità delle vanità. Et omnia vanitas. Saremo mica come i caballeros di Carlo V? Todos romanzeros? 

  
Pensate al sommo Dante e al suo apporto universale. O ai sei premi Nobel assegnati ad autori italiani nel Novecento, tra cui Grazia Deledda, nata a Nuoro nel 1871, donna, isolana, “solitaria y final”. O ancora agli scrittori civili da Manzoni a Sciascia e al loro ruolo di coscienza critica della società, non solo italiana.

  
Un patrimonio letterario, una tradizione di opere destinate a durare nel tempo, una consuetudine a intelligere e interpretare la varietà del paese. Dove è finito tutto ciò? Certo, gli scrittori si sono moltiplicati. Ormai un fenomeno di massa. Come se in tempi così incerti si cercasse nello scrivere un salvacondotto esistenziale. E nella pubblicazione il biglietto d’ingresso nel magico mondo dei romanzeros.

  

Anche la critica letteraria, gli articoli e molto altro sarebbero narrativa “se chi pratica la scrittura lo facesse con serietà”, dice Salvatore Silvano Nigro

  
Sorride il critico letterario e filologo Salvatore Silvano Nigro, per anni docente di Letteratura italiana nelle università di mezza Europa e negli Stati Uniti. Uno che il mondo dell’editoria lo conosce bene e dal di dentro. Uno che non ama essere chiamato professore perché – dice – “non ho mai professato nulla in vita mia”. Però continua a insegnare pubblicando saggi che riescono a illuminare di luce nuova le pieghe di opere letterarie più che indagate. Saggi che si leggono come racconti. Su un’infinità di argomenti, da Dante alla novellistica del Quattrocento, alle invenzioni del pittore manierista Pontormo, alla cultura barocca, a Manzoni, Tomasi di Lampedusa, Soldati, Bassani, Sciascia, Bonaviri, Manganelli, Camilleri. Proprio Camilleri, che di struttura filmica se ne intendeva, descrisse come “cinematografica” la visione critica di Nigro. “Sapesse quanti mi chiedono perché non ho mai scritto un romanzo”, interviene Nigro. “Soprattutto i miei colleghi. Nel cassetto hanno almeno una narrazione già pronta. Forse due”. E spiega: “Il romanzo è un genere letterario ma il concetto di letteratura è molto più vasto. Se chi pratica la scrittura facesse il suo lavoro con serietà, anche la critica letteraria, gli articoli e molto altro sarebbero narrativa. Il problema è quindi nella qualità. Prendiamo le recensioni. Uno come Giorgio Manganelli era capace di farne un genere letterario. Cioè di fare letteratura sulla letteratura. Il volume Concupiscenza libraria che ho curato per Adelphi non è solo una raccolta di recensioni, è una raccolta di grandi racconti. Oggi, se va bene, le recensioni sono cronaca spicciola. Succede anche con i romanzi. Sfornati come pani, almeno duecento al mese. Un abuso insopportabile. Scrivono tutti. Politici, calciatori, giornalisti, insegnanti di ogni ordine e grado. Ma scrivono come parlano e come mangiano. Senza stile, senza personalità propria, senza nessun livello letterario. Direi che non hanno scrittura. I francesi hanno un’espressione per definire questo linguaggio. Lo chiamano langue de bois, letteralmente lingua di legno. E’ inevitabile che il piacere della lettura vada scomparendo”.

  

La produzione di libri è cresciuta negli anni della pandemia, però il numero dei lettori è in continuo calo. Il 10 per cento si è perso per strada negli ultimi 10 anni

  
Non passa soltanto a Nigro la voglia di leggere. Secondo Nomisma nel 2019 la pubblicazione di libri in Italia ha raggiunto la cifra di 86.475 opere. Produzione ulteriormente cresciuta negli anni della pandemia. Però il numero dei lettori è in continuo calo. Il dieci per cento si è perso per strada negli ultimi dieci anni. Il sessanta per cento degli italiani non apre più una copertina. La maggior parte non l’ha mai aperta. Il trenta per cento è analfabeta funzionale, dati Ocse. Sono adulti incapaci di comprendere un testo a fronte della scolarizzazione acquisita. E un libro su tre non vende niente, forse le copie che parenti e amici dell’autore hanno il piacere, o più spesso il dovere, di comprare. Ricorda Silvano Nigro che una volta tornò al suo paese natale, Carlentini, in provincia di Siracusa, e per nostalgia si recò a vedere la libreria dove comprava testi da ragazzo. “Per fortuna esisteva ancora”, dice. “Ma i romanzi in vetrina erano solo quelli dei concittadini. Gli unici che il libraio era certo di vendere. Il fenomeno è evidente nei piccoli centri”. 

   
C’è una cesura tra quanto si pubblica in Italia – secondo l’Istat circa 240 volumi al giorno, traduzioni comprese – quanto si vende e la lenta ma inesorabile chiusura delle librerie, luogo un tempo delegato all’incontro tra potenziali lettori, avamposto di socializzazione intorno ai libri. Certo, le librerie chiudono assediate dalla concorrenza spietata delle aziende on line che offrono prezzi più bassi, scelta più ampia, recapito diretto a casa. Ma a parte l’e-commerce che può permettersi magazzini pieni quale libreria può reggere l’onda d’urto di 237 volumi al giorno? E a chi li vende? 

  
In cambio dalle Alpi a Marzamemi, in qualsiasi città d’Italia, in qualsiasi borgo appena appena turistico, impazzano festival letterari, fiere del libro, premiazioni di scrittrici e scrittori (bisogna specificare), incontri tra autori (meglio non chiedere di cosa), laboratori, dialoghi e rassegne a tema libri. Basta dare uno sguardo al sito www.illibraio.it e scorrere gli appuntamenti. Centinaia. E il sito riporta solo i maggiori. Come se il presidio editoriale sul territorio si fosse spostato dalle librerie alle rassegne. 

   
Dai monti al mare l’estate “è tutt’un festival”. Tutta una compagnia di giro. Che saltella da una piazzetta all’altra con l’ansia dell’esserci e del farsi vedere. Con una neppure sottintesa autocertificazione: “Eccoci qua, siamo noi, siamo i romanzeros”.  Al nord sui Crinali della LetterAltura si aprono Scenari con Montagne di libri. Testuale. Al sud e in Sicilia vanno forte i parrocchiani di Regalpetra, epigoni di Sciascia, forse. Preferiscono un Mare di libri, Il mare color dei libri (titolo sciasciano, appunto), Marine di libri, o anche solo Tramonti di parole (mai definizione fu più azzeccata) in riva al mare. Per dire, alle Egadi, tre isole, solo a luglio ci sono state due rassegne letterarie. Una a Marettimo dedicata a Libri e letture di qua e di là del mare, decima edizione. L’altra a Favignana dedicata al noir e intitolata Come è profondo il mare, terza edizione. Un cartellone che prevede, manco a dirlo, “cultura e divertimento anche per coloro che sceglieranno Levanzo”, specifica Francesco Forgione, sindaco delle Egadi. In programma a Levanzo tre scrittori e tre libri. Prosit.

  
Todos romanzeros, a prescindere dalla “fatica letteraria”. Pensiamo a Manzoni. Sì, proprio lo scrittore dei nostri obblighi scolastici. Ai suoi Promessi sposi, pietra miliare della lingua e della letteratura italiana moderne. Il romanzo, scritto nell’Ottocento, ambientato nel Seicento, calza a pennello anche all’Italia di oggi. Ci sono le grida e gli azzeccagarbugli, la peste e “la trufferia di parole che pur faceva gran danno”, la caccia agli untori alimentata dall’ignoranza, l’emigrazione forzata, le guapperie dei bravi. Ci sono la casta e la chiesa. Tra Don Rodrigo e Fra Cristoforo c’è Don Abbondio, secondo Sciascia “il vero trionfatore del romanzo”, il simbolo dell’arcitaliano. Che se la cava sempre. Che galleggia senza neppure sapere nuotare. Per scrivere I promessi sposi, si sa, Alessandro Manzoni impiegò decenni. Si documentò minuziosamente sui fatti avvenuti in Lombardia sotto il dominio spagnolo nel XVII secolo. Inserì nella storia alcuni personaggi realmente esistiti. Per la lingua – perché fosse quella dell’auspicata unità d’Italia e, insieme, la più vicina possibile a quella realmente parlata – andò a trascorrere mesi con la famiglia a Firenze per “risciacquare i panni in Arno”. Voleva scrivere un romanzo perché “genere proscritto nella letteratura italiana moderna, la quale ha la gloria di non averne o pochissimi”, come spiegò nel 1821 nell’introduzione alla prima versione de I promessi sposi intitolata Fermo e Lucia. “Oggi il mondo va al contrario. Oggi scrivere romanzi significa contribuire alla valanga che seppellisce il lettore.”, sottolinea Nigro che ha curato per i Meridiani Mondadori la pubblicazione dell’opera di Manzoni. 

 
Todos romanzeros. Poca fatica, molti strafalcioni. E’ inevitabile. Alcuni svarioni fanno scuola, vengono ripetuti nel tempo. L’identificazione del capitano Bellodi – protagonista de Il giorno della civetta di Sciascia, primo romanzo italiano a parlare esplicitamente di mafia – con il generale Dalla Chiesa sopravvive ancora nelle cronache letterarie e non. Nonostante la pubblica smentita di Sciascia che ribadì di essersi ispirato al suo amico Renato Candida, anche lui ufficiale dei carabinieri, di stanza ad Agrigento già negli anni Cinquanta. Sempre in Sicilia, tema per eccellenza della narrativa italiana, c’è chi si illumina di Gattopardo e nella luce riflessa vede un’inedita tigre dal pelo rosso proprio nello stemma tanto caro al principe di Lampedusa. Chi ha costruito una saga familiare nell’isola distrutta dalla seconda guerra mondiale. Immaginando un’inverosimile fabbrica di biciclette su un pizzo di montagna abbandonato da Dio. Un romanzo storico, senza la storia.

 

“Le case editrici si sono svuotate. Agenzie esterne hanno sostituito scrittori come Vittorini, Calvino, Giorgio Bassani e Vittorio Sereni”

     
Eppure sono proprio i narratori di epopee ad avvicinarsi ai romanceros propriamente detti, archetipo della narrativa medievale spagnola, racconto di gesta di eroi come El Cid Campeador. Tranne che quella era narrazione orale, quindi anonima. I chierici vaganti e i giullari che la trasmettevano non cercavano la fama, ma tamponavano la fame. Si accontentavano di un pasto caldo e di un posto tra i giacigli della locanda. Non dovevano fare i conti con l’industria editoriale. “Oggi tutta in mano ai manager e per le recensioni agli uffici stampa. Infatti non esistono più le stroncature che erano il sale del dibattito letterario. Come nel caso del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa”, afferma Silvano Nigro. “Le case editrici si sono svuotate. Agenzie esterne hanno sostituito scrittori come Vittorini, Calvino, Giorgio Bassani e Vittorio Sereni. I quali si occupavano più dei libri degli altri che non dei loro. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Romanzetti che durano lo spazio di un giorno. Talvolta riscritti di sana pianta dalla casa editrice se i direttori intuiscono che chi ha abbozzato il romanzo ha le potenzialità per diventare personaggio. Magari perché è giovane o perché ha scritto roba un po’ piccante”. Romanzeros usa e getta. 

  
“Si va per temi e per mode”, nota Silvano Nigro. E cita “le oneste galline della letteratura italiana” di gramsciana memoria. Niente nomi, per carità. Nigro non ne scuce. Certo, c’è chi s’aggrappa a un terremotato per accendere i riflettori su di sé. Chi non molla i migranti. Chi dopo aver letto Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar ci riflette sopra e crede di essersi imbattuto in un giallo.

  
Scrittori effimeri e “grandi scrittori di insuccesso” come disse di se stesso Sebastiano Addamo, autore assai prolifico. “Addamo, come Giuseppe Bonaviri, come Antonio Castelli, è stato un protégé di Sciascia”, ricorda Salvatore Silvano Nigro. “Perché Leonardo Sciascia fu un uomo generoso oltre misura. Fu punto di riferimento per tutti gli scrittori siciliani del suo tempo. Cercò sempre di farli pubblicare. Talvolta ci riusciva, talvolta no. Memorabile è la corrispondenza che intercorse tra Sciascia e Calvino, il quale, si sa, lavorò per Einaudi in tutti i ruoli professionali fino a indirizzare le politiche editoriali. Sciascia raccomandava i conterranei che riteneva validi. Quando non riusciva nell’intento, ripiegava sulla casa editrice Sellerio che aveva contribuito a fondare”. Vito Catalano ricorda perfettamente l’amicizia tra suo nonno Leonardo Sciascia e l’ancor più schivo Antonio Castelli, autore degli Ombelichi tenui (1962) ed Entromondo (1967): “Mio nonno per lui provava tenerezza, vedeva che era estraneo ai circuiti letterari, cercava di proteggere la sua fragilità. Castelli era l’ideatore dell’espressione Paese come cosmo che mio nonno considerava sintesi di una visione del mondo comune. Era, Castelli, un’anima pura. Una volta alla galleria Arte al Borgo di Palermo, luogo di incontro e di conversazioni tra Sciascia e gli amici, Castelli improvvisamente si alzò e andò ad abbracciare mio nonno”. Vito Catalano è il nipote di Sciascia che più si occupa della Fondazione e degli archivi. Una mole immensa di scritti, corrispondenze, ritagli di giornali, fotografie, grafica. Autentico specchio del mondo delle lettere nella seconda metà del Novecento. In Italia e non solo. Anche grazie al materiale contenuto in questi archivi è stato pubblicato il saggio di Giuseppe Saja per l’editore Salvatore Sciascia di Caltanissetta dal titolo Antonio Castelli - Leonardo Sciascia. Storia di un sodalizio. Carteggio e altri testi.  “Todos romanzeros”, Silvano Nigro sta al gioco. “Ma la scrittura di nicchia non paga più. Vale per Antonio Castelli, vale per la scrittura modellata su autori barocchi di Giuseppe Bonaviri. Vale per tanti autori dimenticati. A volte ripescati. Come è successo con Goliarda Sapienza. L’arte della gioia è un libro postumo. Rifiutato dagli editori italiani, venne riscoperto solo dopo la pubblicazione all’estero, in Francia, Germania e Spagna. Oggi è in vetta alle classifiche di vendita, per quanto possano valere classifiche compilate da giornali che non fanno differenza nemmeno tra libri di cucina e narrativa. L’Italia è un paese senza verità. Soprattutto senza identità”, conclude Nigro. 

 
Todos romanzeros? Basterebbe ricordare la lezione di Carlo V ai catalani di Sardegna. L’imperatore è storia e leggenda. Nessuno ricorda chi fossero e come si chiamassero i postulanti. Tutti cavalieri. Dell’oblio.

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