(foto Olycom)

biografia dialogata

Lino Jannuzzi, da Mondadori a Scalfari. Terzo episodio

Mattia Feltri

Un po’ di editoria a Milano, ma fuggì per noia, e il salto nei giornali. In Parlamento Vittorio Orefice impartì subito a Lino un insegnamento essenziale: “Il mito della società civile è una stronzata pazzesca”

Nel 1998 Mattia Feltri scrisse per il Foglio una lunga biografia dialogata, un longform in tema di giornalismo, politica e soprattutto vita avventurosa e ben malvissuta, di Lino Jannuzzi. Pubblicata a puntate e poi raccolta in un libro arricchito dalle vignette di Vincino, “Jannuzzi - Settant’anni di finzioni e di avventure”. La prima puntata è uscita venerdì 9 agosto. La seconda sabto 10 agosto.



Alberto Mondadori fece colazione col gin. Stava nella hall dell’hotel Excelsior e ordinò una bottiglia e praticamente se la bevve tutta. Lino Jannuzzi, che pure trattava l’alcol con un certa confidenza, vista l’ora non andò oltre un caffellatte. Alberto aveva in animo di lanciare una nuova casa editrice. Si era pensato anche al nome: il Saggiatore. Per questo aveva chiamato Lino, per discuterne e affidargli parte della responsabilità. Era il 1957. Gli concesse giusto il tempo di sposare la diletta Mariolina e di caricarla sul wagon-lit con  cui raggiunsero Milano. Lino aveva conosciuto Alberto anni prima, e Alberto gli aveva chiesto di occuparsi della sede napoletana della Mondadori, di modo che fosse gestita con criteri meno burocratici. Lino accettò essendo l’incarico intrigante e la paga buona, specie per uno studente brillante ma fuori corso, impegnato a organizzare i compagni d’ateneo sul piano della goliardia e sempre bisognoso di denaro per mantenere uno stile di vita adeguato alle inclinazioni, cioè alto.

 

Lino, in particolare, aveva il compito di fare da chaperon agli scrittori invitati a Napoli per presentare i loro ultimi lavori o per intervenire ai cenacoli letterari. Fra di essi ci fu anche William Faulkner; Lino andò a prenderlo a Capodichino e lo scorrazzò per tre giorni in lungo e in largo. Faulkner voleva rivedere i posti dove era stato oltre dieci anni prima, quando sbarcò a Salerno al seguito della Quinta armata. Lino lo accompagnò e Faulkner gli racconto di quanta allora se l’era vista brutta, perché il generale Clark aveva sottovalutato i tedeschi; pensava si sarebbero ritirati davanti allo schieramento navale americano, tanto imponente da oscurare l’orizzonte, e invece non solo cercarono di resistere, ma contrattaccarono e quasi ricacciarono in mare Clark e i suoi uomini. Faulkner parlava volentieri della guerra, meno volentieri di letteratura. Lino – che già aveva letto “Santuario” – lo assecondò con riluttanza. Lo portò nelle trattorie migliori. Disse a Faulkner della Napoli vista con gli occhi del liberato e Faulkner disse a lui della Napoli vista con gli occhi del liberatore. Si lasciarono tre giorni dopo con una stretta di mano.

 

Così dunque Lino andò a Milano con il wagon-lit e la moglie Mariolina. Prese casa in via Bianca di Savoia in un appartamento lussuosissimo. La pigione, commisurata all’eleganza dell’alloggio, se la poteva permettere grazie alla generosità del giovane Mondadori, che dimostrava fiducia a Lino elargendogli un lauto stipendio. Lo era a maggior ragione pensando a quali fossero le mansioni di Lino dopo l’incidente occorso ad Alberto: non s’erano fatte che due o tre riunioni e il rampollo crollò sopraffatto dall’alcol. Aveva il fegato ridotto come può esserlo quello di un uomo cui mancava soltanto di lavarsi i denti con la vodka. Lo trasportarono in una clinica di Zurigo e, nonostante fosse fra le più attrezzate per questo genere di roba, tutti disperavano della guarigione. II lavoro di Lino consisteva nell’andare tutte le settimane in Svizzera, tenere compagnia ad Alberto, sincerarsi delle sue condizioni, confortarlo sulla bontà del progetto del Saggiatore e sull’opportunità di riprenderlo in mano, rassicurarlo sul decorso della malattia. Al Saggiatore, Alberto ci teneva parecchio perché voleva affrancarsi  dalla soffocante eredità del padre Arnoldo. 
Quando tornava a Milano, Lino trovava accampati tra il salotto e la stanza da letto i vecchi camerati dell’Ugi. Anche Marco Pannella e Paolo Ungari, che un paio di volte cercò di stringere amicizia con la signora Jannuzzi, ignorando si trattasse della padrona di casa. Se le visite si infittivano o si protraevano, Lino partiva per la Costa Azzurra. Talvolta solo, talvolta con Mariolina. Era il tempo, quello, in cui cedette al fascino delle auto sportive. In capo a un decennio si sarebbe tolto lo sfizio di condurre Lotus, Mg, Maserati, Jaguar, Ferrari e Austin Healey. Con spider di quella levatura raggiungeva Cannes, per il festival del cinema e un certo negozio di sigari esclusivi; oppure Nizza, Marsiglia, Tolone, la Camargue, la Provenza. Nelle vecchie librerie di quei posti trovò i pezzi che fanno incantevole la sua collezione balzachiana. Se non era in viaggio, Lino andava a teatro a vedere le commedie di Ernesto Calindri; lo accompagnavano la moglie e  il ventitreenne Bettino Craxi con fidanzata. Tuttavia questa vita non durò a lungo. Infatti Alberto si ristabillì, ma lentamente; quando venne dimesso, Lino se n’era già andato. “Perché guadagnar tanti soldi senza far nulla va bene, ma fino a un certo punto; e Alberto era un amico. Poi Milano mi aveva rotto le palle”. Non bastasse, Mariolina lamentava cefalee le cui cause attribuiva all’inquinamento e che Lino faceva invece risalire al costume della consorte di cambiare tinta dei capelli a seconda del capriccio. Comunque fosse, la signora era ben disposta verso il trasloco.


Coi radicali. “Furono mesi formidabili. Con personaggi come Pannunzio,  La Malfa,  Saragat,  Valiani,  Paggi”. 


Alla soglia dei trent’anni, Lino era dunque un benestante, benché sprovvisto di impiego e titolo di studio. E chi è senza impiego e titolo di studio, generalmente si butta nel giornalismo. Alla regola non sfuggì Lino, che non era completamente digiuno – avendo diretto il foglio universitario tanto apprezzato da Ignazio Silone – della vita redazionale. Per di più il vecchio compagno dell’Ugi, Francesco Roccella, era nel frattempo approdato all’Agenzia Italia, quella gloriosa, di Enrico Mattei. Chiamò Lino e Lino non ci penso su due volte. Fu spedito a Montecitorio e lui vi piombò col fervore del goliarda smanioso di misurarsi con la politica dei professionisti. Per imparare a riempire il taccuino di sensatezze, si associò al cronista più temuto e rifuggito dai colleghi: Vittorio Orefice. Lino dice che in sua morte ne hanno tessuto lodi sperticate, ma da vivo tutti ne parlavano come di un satrapo venduto al regime. “Mi fu maestro, e maestro straordinario”. Orefice impartì subito a Lino un insegnamento essenziale: “Il mito della società civile è una stronzata pazzesca”. II fatto è che tutti schifavano il palazzo. Lo schifava anche il giovane amico di Lino, Eugenio Scalfari. Lo reputava popolato di gentaglia corrotta, dedita al potere, al denaro e alla menzogna. “La società civile è buona, il palazzo è fetido”, diceva Scalfari, allora provetto divulgatore di cronache economiche dell’Espresso. Era venuta su tutta una generazione di noti­ sti un po’ “chicchini” e un po’ paraculi, che raccontavano la politica e temevano di esserne ammorbati. Lino si chiedeva: “Ma come cazzo possiamo capire la politica e scriverne se la politica  ci  fa  ribrezzo?”.  E  Orefice: “Guarda, qui in Parlamento ce ne sono proprio di mediocri e di meschini, ma ricorda che  da una parte sono lo specchio fedele del paese, dall’altra la parte migliore di esso, perché con tutti i loro difetti sono un po’ meno stronzi e un po’ meno ladri”. Lino l’ha sempre pensata così e a maggior ragione lo pensa ora, nell’Italia dopo Mani pulite.

 

In quella merda, se merda era, Orefice ci sguazzava dalla mattina a sera. Si faceva l’aperitivo con Lino e sorseggiandolo indicava la colleganza e diceva: “Questi altri stronzi non sanno una fava e si atteggiano a super esperti. Invece non contano e non sanno niente. Aspettano la mia velina per mettere insieme trenta righe decenti. Mi evitano perché Rumor oppure Tambroni mi danno del tu. Ma lo sanno che, alla fine, solo io so”.
Intrapresa la carriera giornalistica, Lino si diede anche a quella politica, e si mise coi radicali. A istigarlo furono Roccella e Chinchino Compagna, che con Mario Pannunzio erano stati fra i fondatori del Partito radicale, nato dalla scissione della corrente di sinistra del Pli. “Furono mesi formidabili. Di giorno con Orefice a Montecitorio e Palazzo Madama, la sera con personaggi come Pannunzio, Ugo La Malfa, Giuseppe Saragat, Leo Valiani, Mario Paggi, Ennio Flaiano, Bruno Villabruna, Ernesto Rossi”, dice Lino, che era stato preso in simpatia da Pannunzio. “Forse perché ero una vera puttana”.

 

A Pannunzio piaceva circondarsi di amici che riceveva nella redazione del Mondo. Prima di cena era tutto un andirivieni di giornalisti e uomini politici, a quell’ora sfaccendati e provvisti di pettegolezzi o persino di segreti e si guardavano bene dal mantenerli. Di solito La Malfa sedeva sconsolato pensando al paese: “Che vergona… che schifo… che fango…”. Saragat uscendo gli batteva una  mano  sulla  spalla: “Ci penso io, Ugo… Ci penso io…”.  Mario Missiroli, all’epoca direttore del Messaggero, accompagnava Saragat all’uscio e lo salutava: “Onorevole, siamo nelle sue mani…”. Poi chiudeva la porta e tenendosi la fronte: “In che mani siamo…”. Sciolto il circolo, Pannunzio conduceva il drappello a piazza del Popolo per l’aperitivo. Alla comitiva si aggregavano Arrigo Benedetti, direttore dell’Espresso, Franco Libonati, Guido Calogero. Seguiva il ristorante e infine il Piper, dove Pannunzio aveva la necessità di portare la moglie, una giovanissima ballerina ungherese conosciuta qualche anno prima. Sovente si aggiungeva Scalfari, ma non sempre, perché Pannunzio non lo poteva tollerare. Quando lo vedeva sopraggiungere dava di gomito a Benedetti: «Ma  perché te lo tieni in grembo, quello?». Perché è bravo, diceva Benedetti. Anzi, bravissimo. Ma Pannunzio non ne sopportava l’atteggiamento, che giudicava spocchioso e irritante: «Ha trent’anni e fa il maestro di vita». Poi si lasciava prendere la mano e formulava ipotesi che secondo Lino non stanno né in cielo né in terra: «Per esempio che facesse insider trading». Perfido fino all’ultimo, Pannunzio espresse come estremo desiderio che Scalfari non presenziasse al suo funerale. La disposizione fu seguita e Scalfari ne soffrì moltissimo per ovvie ragioni umane e perché in società vantava l’ amicizia del vecchio direttore. Successivamente, in un libro, ammise l’ostracismo, ma lasciò intendere che famigli zelanti dovevano aver seguito le indicazioni espresse da un Pannunzio morente, e forse delirante; oppure che qualcuno potesse aver colto l’occasione per sferrargli un colpo basso. “Ma le cose stanno come ho detto, e probabilmente Pannunzio esagerò”, osserva Jannuzzi.

 

Furono anche i buoni uffici di Pannunzio, al contrario, a favorire il passaggio di Lino all’Espresso. Benedetti lo ingaggiò che ancora non aveva redatto un solo articolo di rilievo. Fu Scalfari a fargli firmare il primo contratto. Scalfari era infatti in amministrazione dove, lesinando sulle matite, conseguiva risultati stupefacenti. Aveva pure arruolato il padre in qualità di correttore di bozze. Poiché sposo la figlia del direttore della Stampa, “Ciuffettino” De Benedetti, tutti lo canzonavano: “Aspetti la successione?”. Scalfari sorrideva con l’aria di chi si diverte poco. “Il senso dell’umorismo non l’ha mai avuto. Ha sempre messo tutto sul tragico”, dice Lino, che parla di una compunzione provvidenziale, perché senza quell’indole Scalfari non avrebbe mai raggiunto i successi editoriali ed economici che oggi fanno di lui un totem.


“La società civile è buona, il palazzo è fetido”, diceva Scalfari, allora  divulgatore di cronache economiche  


Gli si deve anche la nascita dell’Espresso. L’incarico di volgarizzatore di cose finanziarie per il Mondo - dove aveva da vedersela con l’ostilità di Pannunzio – lo avviliva, per quanti consensi riscuotesse. Così, quando Benedetti lasciò il prestigiosissimo Europeo in polemica con Rizzoli, a Scalfari scattò la scintilla. Fu lui a portare il trentenne Carlo Caracciolo da Adriano Olivetti e a illustrare il progetto d’un settimanale ispirato al Mondo, ma più popolare, più vasto, meno paludato. Olivetti acconsentì. Per la direzione fu contattato Benedetti, cui non parve vero di rimettersi subito in pista e dichiarar guerra a Rizzoli. Si portò appresso Camilla Cederna e assoldò, fra gli altri, Sergio Saviane e Carlo Gregoretti. Scalfari ebbe in gestione il settore economico e, come detto, l’amministrazione. Olivetti mollò ben presto. Quando se ne andò, regalò le proprie quote a Caracciolo e a Benedetti, ma una piccola parte la riservò a Scalfari, riconoscendogli il ragguardevole merito dell’idea e dell’iniziativa.

 

La prima incombenza di Lino fu di bazzicare in Parlamento e di raccogliere quante più notizie possibili per poi girarle ai notisti, che le avrebbero utilizzate per i loro resoconti. Non ci volle molto perché Lino i resoconti se li facesse da sé, e meglio dei predecessori. “Scuola Orefice, del resto”, precisa. Poi passò alle inchieste e i cronisti d’oggi dovrebbero leggersele e prenderle a esempio: sull’università, sulla mafia, le tangenti in Sicilia, il sacco dell’Inps. Fino al capolavoro del 1967: lo scoop dello scandalo Sifar, forse il più grande colpo giornalistico del Dopoguerra in Italia.

 

Era da tempo che l’Europeo infilava una copertina dietro l’altra sulle schedature dei servizi segreti; gli spioni avevano raccolto una quantità di informazioni su una serie di personaggi di rilievo: attività collaterali, frequentazioni sospette, militanze pericolose; col tempo non si poté che finire sul pecoreccio, e al capitolo amanti scattarono i ricatti e le tragedie. Lino ricorda che il lavoro dell’Europeo fu magistrale: “Noi cercammo di replicare, ma, chissà come, quelli dell’Europeo sapevano e scrivevano le cose sempre per primi: formidabili”. Ogni settimana il povero Scalfari (che nel frattempo aveva scalzato Benedetti) cascava dalla poltrona, sopraffatto dal dolore per l’ennesima disfatta. Preoccupato che la vicenda cominciasse a incidere sul prestigio quanto sulla tiratura, Scalfari decise di ricorrere a Jannuzzi.

 

Come sovente gli capitava quando non attendeva alle vicende parlamentari, Lino si trovava in Sicilia; nella circostanza indagava su certe questioni edilizie, evitando, innanzitutto, di farsi prendere dalla foga. Anche perché s’era trovato per consulente l’avvocato Sorgi, padre del futuro direttore della Stampa, il quale non soltanto sapeva come districarsi in quel garbuglio di leggi, concessioni e ricorsi, ma possedeva anche una villa incantevole; lì organizzava apprezzati ricevimenti con ospiti che Lino ricorda deliziosi quasi quanto il pesce spada e le cassate, preparate con rara maestria dal cuoco domestico.
Del giro era anche Leonardo Sciascia, con il quale Lino trascorreva le serate discorrendo della guerra di Spagna, della criminalità organizzata e della ventresca di tonno. Era maggio. Lavorare in quelle condizioni risultava particolarmente gratificante. Poi, però, arrivò la telefonata di Scalfari, e Lino piantò tutto a metà, malvolentieri, e fece ritorno nella capitale. (3 - continua)

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