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Trionfo rossiniano. “Ermione”, titolo presunto ineseguibile. Ma la messa in scena a Pesaro è all'altezza

Alberto Mattioli

Michele Mariotti dirige un’eccellente Orchestra sinfonica nazionale della Rai in dinamiche amplissime, contrasti di colori, minuzie di fraseggio. Un'opera che rivendica definitivamente la grandezza del capolavorissimo

Questa volta la prevenzione non è cieca e non delude la ragione. Doveva essere lo spettacolo dell’estate, e così è stato. L’“Ermione” del Rossini Opera Festival, Rof per noi rossiniani talebani, rivendica definitivamente la grandezza del capolavorissimo: la si era sempre capita ma mai verificata “sul campo” con questa evidenza rivelatrice. Michele Mariotti dirige un’eccellente Orchestra sinfonica nazionale della Rai in dinamiche amplissime, contrasti di colori, minuzie di fraseggio, ma insomma che sia “il” direttore rossiniano di oggi non lo scopriamo certo adesso. Giganteggia però anche il concertatore, che ha fatto con i cantanti un lavoro certosino sui recitativi, fantastici. Non c’è una battuta che non sia studiata, scavata, illuminata. Solo un esempio: quando Ermione nel primo atto declama “Vendetta io bramo: ultrici / Idee sol volgo in mente” passa improvvisamente a un piano sottilissimo benché furibondo, perché in effetti è un soliloquio, l’idea del crimine che per la prima volta le balena in capo (en passant, quando la smetteremo di parlare male dell’abate Tottola?). Semplicissimo, certo: ma bisogna pensarci e saperlo fare. Certo, ci vuole una compagnia all’altezza del titolo presunto ineseguibile, e per una volta c’è. Questa produzione segna la consacrazione di Anastasia Bartoli, voce ampia, sonora, benissimo proiettata, fisico imponente e interprete di meravigliosa intensità, furia, eumenide, menade folgorante e furiosa ma anche donna ferita e dolente, carnefice e vittima insieme. Bartoli è capace di volgere a fini interpretativi anche le diseguaglianze e le asperità della voce, ed è un’altra delle lezioni che questo spettacolo memorabile ci consegna. Anche perché Enea Scala fa lo stesso, nella parte, se possibile, ancora più impossibile di Pirro. Se le note, su e giù nell’ottovolante di due ottave abbondanti, ci sono tutte, sono anche tutte espressive. Invece Juan Diego Flórez, Oreste, sembra sempre il bambino cui hanno rubato il pallone anche nei suoi parossismi omicidi, però continua a cantare da padreterno, acuti compresi (magari è di troppo, e in ogni caso è troppo tenuto, quello nel finale). Victoria Yarovaya è un’Andromaca di gran voce non troppo rossiniana, un po’ tinca in scena; buono il Pilade di Antonio Mandrillo e da tenere d’occhio Michael Mofidian, finalmente un vero basso, eccellente Fenicio.

 

Johannes Erath mette in scena una corte d’Epiro decadente e debosciata, da Elektra espressionista. Tragedia di amori non corrisposti, in questa “Ermione” la danza macabra è guidata da un Eros in carne, ossa e frecce come nelle “Nozze di Figaro” di Guth, alla fine sconfitto e ucciso. Erath ha delle idee e riesce a far recitare (quasi) tutti, quindi le ripetizioni e simmetrie rossiniane, così apparentemente insensate, acquistano valore drammaturgico. E poi: luci splendide e video in bianco e nero sulla perduta età dell’innocenza di questi adulti travolti e stravolti dalle passioni. Naturalmente si può non essere d’accordo, e rimpiangere i pepli. Però è curiosa, in Italia, la cronica e anche un po’ comica incapacità di valutare l’aspetto tecnico delle regie, come se un direttore d’orchestra si giudicasse solo dall’idea che ha della partitura e mai dalla sua capacità di realizzarla. Finisce con la Vitrifrigo Arena (si chiama così, giuro, e per inciso stupisce che il principale festival musicale e la civilissima Pesaro, in 45 anni, non siano stati capaci di costruire un teatro vero, come hanno fatto a Glyndebourne, Aix, Salisburgo, Wexford…) in delirio, autentico delirio. E vorrei pure vedere.