Lo studio di Jannuzzi, con un una foto che ritrae Ferrara e Cossiga, appesa alle sue spalle.

Biografia dialogata

Lino Jannuzzi, la vera storia del caso Sifar. Quarto episodio

Mattia Feltri

“Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: trentasei all’ombra”. Così comincia uno dei più devastanti articoli della storia repubblicana. Oggi Jannuzzi dice: “De Lorenzo golpista? Che sciocchezza”

Nel 1998 Mattia Feltri scrisse per il Foglio una lunga biografia dialogata, un longform in tema di giornalismo, politica e soprattutto vita avventurosa e ben malvissuta, di Lino Jannuzzi. Pubblicata a puntate e poi raccolta in un libro arricchito dalle vignette di Vincino, “Jannuzzi - Settant’anni di finzioni e di avventure”. Ripubblichiamo la quarta puntata. La prima, “Lino, finzioni e avventure”, è uscita sul Foglio di venerdì 9 agosto, la seconda, “Tra Napoli e la goliardia”, sul Foglio di sabato 10, la terza, “Da Mondadori a Scalfari”, sul Foglio di martedì 13.
 



Doveva essere il quarto o il quinto dibattito parlamentare su questa storiaccia delle schedature. Sui giornali, e in particolar modo sull’Europeo, era già finito il grosso, comprese le succulente storie d’alcova, molto apprezzate dai lettori. Tutti i cronisti, pronosticando che la seduta sarebbe stata straordinariamente noiosa, si applicarono in altre faccende, non escluse quelle voluttuarie. Lino – richiamato a Roma all’unico scopo di dare scacco alla concorrenza sul caso Sifar – non poté sottrarsi alla tortura. Sedette solitario mentre il psiuppino Luigi Anderlini, rivolto al presidente del Consiglio Aldo Moro, andava ripetendo i concetti ampiamente espressi dall’opposizione nei giorni precedenti: “Ah, presidente, che scandalo… le schedature… lo Stato di polizia… neanche nel Ventennio… ma ne dovrete rispondere…” – “Roba che mi poteva semmai conciliare il sonno”, ricorda Lino.

 

Sennonché, forse ingannato dal clima di generale torpore, Anderlini osò andare oltre: “Per non parlare, onorevole Moro, di quella famosa notte del 1964 in cui l’Italia ha corso, come lei ben sa, dei gravi pericoli”. Punto. Lino ricacciò lo sbadiglio e restò a bocca spalancata: “Mi chiesi che stesse dicendo, che fosse mai capitato quella notte e soprattutto a quale razza di pericoli stesse accennando”.
Lino lasciò finire. Per non dare nell’occhio agganciò Anderlini al banco del bar. “Lo conoscevo da anni, dai tempi in cui era socialista”. Lo salutò. Bevve un caffè. Abbozzò argomenti qualsiasi. Poi gli domandò il significato della misteriosa frase, benché fosse scettico visto l’andazzo di quei giorni. “Anderlini si schermì, disse che no… erano sciocchezze… cose fra di loro… nulla di particolare… ma che vuoi che sia e compagnia bella”. Lino spiega che avrebbe anche lasciato perdere se il suo interlocutore fosse stato qualcuno di meno familiare. Eppoi non sapeva dove sbattere la testa, e soprattutto s ’era fatta ora di cena. Invitò Anderlini in trattoria. “Lì continuai. Non ero molto convinto. Lo feci più per gioco. Cominciai a prendere Anderlini per il culo: ma che ti sei messo in testa ora dici cose prive di senso in Aula, castronerie sui pericoli del ’64, ma quali pericoli…”. Anderlini d’un tratto si accigliò: “Senti Lino, tu mi sfotti ma ci sono cose molte serie da tirar fuori su quella notte. Ci vediamo domani e andiamo da Parri”.
Ora Lino ci ride sopra: “Ma tu dimmi, eppoi la chiamano grande inchiesta. Avessi saputo tutti i guai che ne sarebbero discesi, i processi per diffamazione, le fandonie su Lino Jannuzzi legato ai servizi segreti e tutte ste sciocchezze, avrei lasciato Anderlini al suo caffè e io avrei imboccato la strada opposta… Ma quale grande inchiesta del cazzo, fu una gran botta di culo. State a sentire…”.


“Mi chiesi che stesse dicendo, che fosse mai capitato quella notte e soprattutto a quale razza di pericoli stesse accennando”.
Lino lasciò finire.

Ferruccio Parri e Lino si conoscevano da tempo. Anzi, avevano proprio simpatizzato e Lino  collaborava ad Astrolabium, malgrado fosse una rivista un po’ melanconica, proprio come lo stesso Parri, che la dirigeva. Per queste ragioni Anderlini non dovette investire troppe energie nell’opera di convincimento: Parri acconsentì e si appartò con Lino. Nel giro di pochi minuti gli illustrò gli avvenimenti di quel luglio del 1964: “Vedi Lino, furono giorni in cui si corsero rischi spaventosi. Il presidente della Repubblica” Antonio Segni, e il generale dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo, si erano accordati per neutralizzare eventuali sommosse dei partiti progressisti. Come ricorderai, il governo di centrosinistra traballava a causa delle richieste dei socialisti che la Dc non voleva soddisfare. Segni aveva deciso, in caso estremo, di ricorrere a un esecutivo di salute pubblica, sostenuto dal Movimento sociale. Ma temeva si ripetessero i disordini di quattro anni prima, quando i moti di piazza fecero cadere Tambroni. Insomma, in tutta questa storia delle schedature non s’è ancora parlato della lista degli enucleandi, la lista di quelli che dovevano essere arrestati. Di più non ti dico perché di più non so. Ma presto ti farò parlare con chi conosce tutto per filo e per segno”.
Poche giorni dopo l’Espresso avrebbe pubblicato la sua copertina più celebre: “Il colpo di Stato”.


“Il 14 luglio del 1964 fu la giornata più calda dell’anno: trentasei all’ombra”. Così comincia uno dei più devastanti articoli degli ultimi cinquanta anni. È datato maggio 1967, ventesimo numero del tredicesimo anno dell’Espresso. La firma è di Lino Jannuzzi. Eugenio Scalfari fu il primo a leggere il pezzo, e lo lesse con gli occhi fuori dalle orbite e la bava alla bocca. Quando ebbe finito era un direttore felice. Si concesse un estremo scrupolo: “Lino, sei proprio sicuro?”. “Sicurissimo” “Allora lo pubblichiamo. Tu non dire nulla a nessuno”. Seguirono giorni di fermento e di riunioni dal sapore carbonaro. Scalfari, terrorizzato all’idea che redattori infedeli si vendessero alla concorrenza, allestì una copertina falsa e routinaria. II giornale fu chiuso e nottetempo riaperto da Scalfari, Jannuzzi, Carlo Gregoretti e pochi altri. Venne sostituito un servizio sulle vacanze intelligenti, o roba simile, e tirata fuori dal cassetto la copertina autentica. In alto vi era uno strillo sulla testimonianza di Svetlana Stalin: “Così morì mio padre”. II resto era esclusivamente dedicato allo scoop di Lino; il titolo costruito in questo modo: prima riga: “Segni e De Lorenzo”.

La firma è di Lino Jannuzzi. Eugenio Scalfari fu il primo a leggere il pezzo, e lo lesse con gli occhi fuori dalle orbite e la bava alla bocca. Quando ebbe finito era un direttore felice.

Seconda riga: “preparavano”. Terza riga (stampata a caratteri che si possono riduttivamente definire cubitali): “il colpo di Stato”. Attorno a una lucerna da carabiniere con fiamma e pennacchio correva un sommario: “Finalmente la verità sul Sifar. 14 luglio 1964. Complotto al Quirinale”. Poi due brevi sintesi. La prima: “Due generali di divisione, undici generali di brigata e mezza dozzina di colonnelli, in piedi, stipati nella stanza del comandante generale dei carabinieri, aspettavano gli ordini”. La seconda: “De Lorenzo disse: ’Stiamo per vivere ore decisive. La nazione, tramite la più alta autorità, ha bisogno di noi. Dobbiamo tenerci pronti per gli obiettivi che ci verranno indicati». Il periodico fu venduto nelle edicole al prezzo di centocinquanta lire il 14 maggio 1967. Quella mattina successe il finimondo.


Ecco che cosa era capitato. II 3 maggio 1967, alla Camera, l’onorevole psiuppino Luigi Anderlini arringò i pochi presenti riferendosi al 14 luglio 1964 e alludendo ai gravi pericoli corsi dal paese quella notte. L’accenno non fu colto e non incise sulla fiacchezza della seduta. Solo Jannuzzi lo coltivò. La sera stessa incalzò e bonariamente irrise Anderlini, inducendolo a fare il botto.
La mattina del 4 maggio il deputato condusse Jannuzzi da Ferruccio Parri. Questi raccontò che il presidente della Repubblica, Antonio Segni, e il comandante del Sifar e generale dei carabinieri, Giovanni De Lorenzo, nel ’64 avevano predisposto misure eccezionali, tanto eccezionali da prevedere l’arresto di uomini dell’opposizione; il piano era stato studiato per neutralizzare eventuali e probabili rivolte alla formazione di un governo di centrodestra.
Il pomeriggio del 4 maggio, Jannuzzi fu messo in contatto con Pasquale Schiano. Costui (il romanzesco Pasquale ’o spione della Napoli del Dopoguerra) era stato confidente antifascista degli americani, agente dei servizi segreti, deputato, poi sottosegretario alla Marina militare nel primo ministero De Gasperi, per il quale, come scrisse Lino, “pose mano alla riorganizzazione democratica delle forze armate…”. Schiano disse a Lino quel che sapeva: Segni, i primi mesi del 1964, era tormentato dall’atteggiamento dei socialisti, i quali minacciavano di piantare in asso il gabinetto di Aldo Moro qualora non fossero state attuate la legge urbanistica e quella sulle regioni. Erano riforme previste nei programmi della maggioranza, ma i democristiani temporeggiavano, credendo di colpire con la legge urbanistica l’economia di mercato e lo Stato unitario con le regioni. Segni temeva che cedere al Psi significasse condurre l’Italia fuori dalla Cee e dal Patto atlantico; era dunque pronto a sostituire il partito di Pietro Nenni col Movimento sociale di Giorgio Almirante. Ma, ricordando le disavventure del breve esecutivo di Fernando Tambroni (abbattuto quattro anni prima dalle furibonde manifestazioni dei comunisti, indignati dal ritorno al governo dei fascisti), volle tutelarsi e incaricò i servizi segreti di organizzare la repressione. Il pomeriggio del 5 maggio, Lino incontrò a piazza del Popolo due colonnelli dei carabinieri. La sera di sabato 6 maggio, un generale. Ebbe i particolari. Seppe che De Lorenzo aveva persuaso Segni sull’opportunità di escludere la Polizia dal piano, per evitare lotte intestine. Lino seppe tutto, e lo scrisse.


Scrisse di Nenni, che la sera del 14 luglio s’addormento su di una panchina di Villa Madama; era reduce da due settimane di estenuanti negoziati per la ricostituzione del governo di centrosinistra, rovesciato alla Camera il 25 giugno; aveva deciso di appoggiare Moro, recedendo dalle iniziali pretese, e confesso: “Ho paura. Ho imparato in cinquant’anni di lotte ad aver paura della destra”. Pochi gli diedero peso, perché pochi sapevano quel che sapeva lui. Poi Lino fece un passo indietro; scrisse che il primo luglio, malgrado i gruppi della maggioranza l’avessero indicato come successore di se stesso, Moro non era ancora stato convocato al Quirinale. Stranamente. Scrisse della dichiarazione di un oscuro deputato missino successiva a un incontro con Segni: “Tutti, dal capo dello Stato all’ultimo lavoratore, sono convinti che il governo Moro sia il più disastroso che l’Italia abbia avuto…”.

Scrisse di Nenni, che la sera del 14 luglio s’addormento su di una panchina di Villa Madama; era reduce da due settimane di estenuanti negoziati per la ricostituzione del governo di centrosinistra, rovesciato alla Camera il 25 giugno.

Scrisse di come le trattative procedessero faticosamente, anche in ragione di velleitari attentati dinamitardi attribuiti ai fascisti. Scrisse che l’esecutivo era stato abbattuto mentre s’ apprestava a varare i provvedimenti anti­congiunturali, e si prevedeva, pertanto, una drammatica crescita della disoccupazione e dei malumori. Scrisse delle tesi espresse da un giornale di destra a proposito dell’utilità dei carrarmati in operazioni meno ordinarie della cattura di ladri di galline. Scrisse di Palmiro Togliatti, e di un suo comizio in piazza San Giovanni in cui si ventilava l’ingresso dei comunisti nel gabinetto prossimo. Scrisse di tutte le angosce di Segni e di come procedevano frenetici i preparativi di De Lorenzo e dei suoi: il punto numero uno consisteva “nell’occupazione delle sedi dei partiti e nell’arresto degli esponenti politici, e nel loro concentramento in alcune  località predeterminate”. Scrisse che non successe nulla perché Nenni temporeggiò, accettò compromessi e infine cedette su tutta la linea nella notte fra venerdì 10 e sabato 11 luglio; poi il segretario socialista, sull’Avanti, commentò: “Si sente rumore di sciabole…”.
“Scalfari fu straordinario”, dice oggi Jannuzzi. “Pensate, io gli porto un articolo in cui sostengo che il presidente della Repubblica e il più alto ufficiale dei carabinieri avevano progettato un golpe. Lui mi chiede a quali fonti abbia attinto, e io rispondo di potergli fare soltanto i nomi dei civili, cioè di Anderlini e Parri. Quanto ai militari, spiego, ho promesso di svelare la loro identità soltanto in un’aula di tribunale. Ebbene, Scalfari ci pensa su due minuti, e decide di farci la copertina. Davvero, tanto di cappello”.


Non va taciuto, osserva Jannuzzi, che Scalfari ne aveva fin sopra i capelli di ricevere settimanali lezioni dall’Europeo, capace di infilare sul Sifar un’esclusiva dietro l’altra, e la prospettiva di restituire ogni umiliazione in un colpo solo – e che colpo – lo rese temerario.
Poi l’articolo uscì pure con qualche imprecisione perché, per esempio, Parri combinò una gran babele e confuse gli “schedati” con gli “enucleandi”, ma la portata della denuncia non ne fu intaccata: “Successe l’iradiddio, successe”. Figurarsi, non era ancora accaduto nulla in Cile e i colonnelli s’erano presi il potere in Grecia soltanto il mese prima. La notizia apparve sulle prime pagine del mondo intero, malgrado in Italia tutti avessero già smentito tutto e avessero proceduto con le querele per diffamazione. Le opposizioni approfittarono per esprimere duramente il loro sommo sdegno e per montare – è il 1967 – il dilagante malcontento. Jannuzzi e l’Espresso non si fermarono. Pubblicarono altri particolari e persino le liste di chi era in procinto di finire in gattabuia. Scalfari sciorinò editoriali dei suoi: “Ora tocca al Parlamento. Non c’è più un minuto da perdere né una sola valida obiezione. La magistratura, per quanto le compete, sta facendo il suo dovere. Direi che in questo momento è il solo organo dello Stato che sta dando buon esempio di sé rinsaldando la scossa fiducia dei cittadini…”.


“Successe l’iradiddio, successe”. Figurarsi, non era ancora accaduto nulla in Cile e i colonnelli s’erano presi il potere in Grecia soltanto il mese prima.

Quella di Scalfari, purtroppo, era fiducia malriposta: in capo a pochi mesi lui sarebbe stato condannato a un anno di reclusione e Jannuzzi tredici mesi. Eppure Lino si presentò alla corte col piglio di chi ha l’asso nella manica: depose dalla mattina fino a sera, illustro gli stratagemmi studiati coi militari per appuntamenti che non dessero nell’occhio, tenne tutti sul filo profondendo minuzie, strappo stupefatti mormorii pronunciando i nomi sconosciuti anche a Scalfari. Altre prime pagine, altre indignazioni. Ma in generale i colonnelli tirati in ballo testimoniarono e confermarono le parole di Lino, e vi aggiunsero del loro sbugiardando chi, sino a quel momento, era cascato dalle nuvole. Il processo divenne terreno di battaglia per due rivaleggianti fazioni dei carabinieri, e se le diedero di santa ragione: regolarono vecchi conti mettendo in piazza le rispettive malefatte, e più erano meschine più erano dettagliate.
Seguirono scandali e drammi. Articolesse, opinioni, vesti strappate. Qualcuno spifferò a Lino che un’indagine interna all’Arma confermava le denunce dell’Espresso; allora Lino chiese la parola: “Signor presidente, vorrei segnalarvi…”. Agenti di polizia giudiziaria si precipitarono a prelevare quel rapporto, e tuttavia prima d’arrivare in tribunale fu dichiarato coperto dal segreto. La corte lo riebbe mutilato da settantasette omissis attribuiti ad Aldo Moro in persona. “Come al solito furono la rovina di chi ce il mise; perché uno si chiede: che c’era dietro i settantasette omissis? Credetemi, c’erano settantasette stronzate”. Inviati talentuosi, tuttavia, ci ricamarono sopra per settimane. In questo quadro c’è da aggiungere che De Lorenzo era difeso dall’avvocato Franco De Cataldo, radicale e amico di Lino. De Cataldo chiamò Lino e lo informò. “Io non mi opposi, perché sapevo De Cataldo un uomo coraggioso e integerrimo. E immaginavo che Pannella ci tenesse, in omaggio alla tradizione laica radicale”. De Cataldo, superato l’imbarazzo, a Lino lo fece una pezza: “Mi coprì di contumelie: non si sono mai lette, disse, tante corbellerie in un articolo solo. E mi convinse”.

Qualcuno spifferò a Lino che un’indagine interna all’Arma confermava le denunce dell’Espresso; allora Lino chiese la parola: “Signor presidente, vorrei segnalarvi…”. Agenti di polizia giudiziaria si precipitarono a prelevare quel rapporto, e tuttavia prima d’arrivare in tribunale fu dichiarato coperto dal segreto


Ecco come finì, infatti: Lino, a dibattimento concluso, si produsse in una dichiarazione spontanea: “Mi corre il dovere di dire al tribunale che, se riscrivessi oggi l’articolo, preciserei quanta segue: Segni era stato mandato al Quirinale per vigilare sull’andata al governo dei socialisti, che non portasse il paese fuori dall’orbita atlantica; quindi si industriò per evitare un nuovo caso Tambroni, il cui esecutivo, legittimo, fu illegittimamente mandato gambe all’aria da sommosse di piazza; De Lorenzo, eroe della Resistenza, cercò di mettere in piedi una strategia come si deve; l’errore di Segni fu di non informare i ministri dell’Interno e della Difesa. Non è mancanza da poco, anzi, gravissima. E andava raccontata. Ma si può parlare di colpo di Stato fino a un certo punto”. Il pm Vittorio Occorsio – che verrà assassinato anni dopo dal neofascista Pierluigi Concutelli – chiese l’assoluzione. La corte condannò.


Lino, oggi, continua a frequentare i tribunali. Un po’ perché scrive le cose come stanno, e scrivere le cose come stanno e pericoloso. Un po’ perché è il testimonio preferito dal figlio di De Lorenzo, il quale querela chiunque sostenga che suo padre fu un golpista. Molti lo scrivono, pensando si tratti di una verità acquisita. Tutt’altro. E per dimostrarlo, il giovane De Lorenzo si avvale delle deposizioni di Lino. Ogni tre per due va a prenderlo sotto casa, si scusa per la solita scocciatura e lo accompagna a Palazzo di giustizia; Lì, Jannuzzi dichiara: “De Lorenzo golpista? Ma che sciocchezza. E se lo dico io, che fui all’origine di tutti i suoi guai…”. (4 - continua)