Biografia dialogata
Lino Jannuzzi, dolce vita e fieste mobili. Quinto episodio
Gli anni magnifici e spericolati del re dei salotti romani che dava del tu ad Andreotti (con scorno di Bocca). Il Jazz in America e “l’amico” Duke Ellington, a Pamplona con Hemingway
Nel 1998 Mattia Feltri scrisse per il Foglio una lunga biografia dialogata di Lino Jannuzzi. Pubblicata a puntate e poi raccolta in un libro arricchito dalle vignette di Vincino, “Jannuzzi - Settant’anni di finzioni e di avventure”. La prima, “Lino, finzioni e avventure”, è uscita venerdì 9 agosto, la seconda, “Tra Napoli e la goliardia”, sabato 10, la terza, “Da Mondadori a Scalfari”, martedì 13, la quarta, “La vera storia del caso Sifar”, mercoledì 14 agosto.
Ora va specificato, assolutamente, che il valore dello Jannuzzi giornalista, per quanto straordinario, non è affatto paragonabile a quello, inestimabile, dello Jannuzzi tenutario di salotti. “Ah sì, non c’è dubbio. Specie negli anni Sessanta ero un vero fenomeno”, dice lui. A Roma, di salotti ne fiorirono a dozzine, ma pochi furono capaci di attraversare l’intero decennio senza perdere né prestigio né ospiti, semmai acquistandone. “Arrivava la gente più varia: cronisti, attori, musicisti. Gli sportivi no, non venivano, che il loro mondo non mi ha mai intrigato. Mi pare che una sera sia stato da me un calciatore della squadra nazionale (Marco Tardelli, ndr), ma soltanto perché il marito di una cara amica, la giornalista Stella Pende”. Intanto, alla preparazione della cena si dedicava la signora Jannuzzi Mariolina, cuoca di prodigiosa abilità. E non è poco, dice Lino, poiché nei salotti si mangia una chiavica quando ai fornelli si mettono i cuochi assoldati dalla padrona di casa, non parliamo di quando ci si mette la padrona di casa in persona. Poi, non mancavano le attrattive; straordinaria era quella costituita da Salvatore Lauricella, demartiniano infiltrato in una casa di manciniani, il quale si produceva in zuffe memorabili con Italo Viglianesi, “l’uomo che coi soldi dei sindacati americani finanziò Saragat per la scissione di palazzo Barberini”. Lauricella era in odore di mafia – ma nessuno dimostrò mai nulla – e di conseguenza si guadagnò l’immediata simpatia di Jannuzzi, anche per via del curioso soprannome: “Ministro dei Lavori pubblici di Favara”.
Intanto, alla preparazione della cena si dedicava la signora Jannuzzi Mariolina, cuoca di prodigiosa abilità. E non è poco, dice Lino, poiché nei salotti si mangia una chiavica quando ai fornelli si mettono i cuochi assoldati dalla padrona di casa, non parliamo di quando ci si mette la padrona di casa in persona.
Sui divani di Lino sedeva spesso Giulio Andreotti. La circostanza mosse a sdegno Giorgio Bocca e lo persuase a buttar giù un aspro commento, pervaso di disgusto per il fatto che Andreotti e Jannuzzi, un leader politico e un inviato, si davano del tu. Jannuzzi non se ne ebbe a male, ancora oggi ribadisce la sua stima per Bocca e sottolinea le differenze nello stile di vita: “In fondo io e Giorgio continuiamo ad avere vent’anni: lui è sempre un partigiano incazzato e asserragliato sulle montagne di Cuneo, io sempre un napoletano al night coi soldati americani…”. Andreotti era sovente accompagnato da Franco Restivo, ministro dell’Interno, e ci fu una sera – Lino aveva appena scatenato il putiferio del Sifar e l’altro argomento del giorno era il putsch in Grecia – in cui Restivo se ne uscì con una considerazione che allora sembrò priva di senso, ma oggi sensatissima: “Anche a noi toccheranno tempi bui come quelli della Grecia, temo. Noi, però, non dovremo vedercela coi colonnelli, bensì coi magistrati”. Lino giura che Restivo disse proprio così. E difatti, spiega, si iniziò tutta una discussione da cui si autoescluse la maggior parte dei presenti, convinti che l’alcol avesse ormai preso il sopravvento sul buonsenso. “Chiaro, mancava un quarto di secolo a Mani pulite, di Antimafia si sapeva nulla”. Insomma, partì questa discussione e anche Restivo concordo con Jannuzzi, che sceneggiò la tipica evoluzione del tipico magistrato siciliano, il quale non appena s’arricchisce di due lire compra l’aranceto e dentro all’aranceto per custode ci mette un mafioso, che è meglio del migliore degli antifurti.
II salotto ebbe fra gli ospiti anche Scalfari (“Ma lui ad Andreotti gli dava del lei”), Gregoretti, Vittorio Gorresio. Quest’ultimo, però aveva il vizio di sbagliar sempre data e di suonare all’uscio di Lino la sera in cui non erano previsti banchetti; la sbadataggine non finiva per nuocere, almeno a Gorresio, perché Mariolina non aveva cuore di rimandarlo indietro digiuno. Difficilmente mancava un emergente democristiano, Ciriaco De Mita, né, ogni qual volta si trovava a Roma, Bernardo Valli, caro amico di Scalfari. Enzo Bettiza era un habitué, e si portava appresso le sue svariate donne (“ne ebbe di bianche, di nere e di altri colori ancora”). Un posto a tavola era riservato all’ambasciatore cinese (“Ah, non chiedetemi il nome”) e un altro a quello cubano ( “in realtà non ricordo neanche il suo; ricordo, però, che mi portava i suoi stupendi sigari”). L’intera dolce vita transitò dal sublime appartamento di Lino a piazza di Spagna. Siccome era amico di Ennio Flaiano, ebbe a tavola Federico Fellini e Giulietta Masina. Viglianesi, di suo, era intimo di Dino De Laurentiis e De Laurentiis si accompagnava con Silvana Mangano, donna di bellezza struggente e malinconica. Francesco Rosi era sodale di Lino sin dagli anni della Napoli liberata; e Rosi si portava appresso Monica Vitti oppure Claudia Cardinale, dolcissima, che ancora oggi, appena può, telefona a Lino e Mariolina per fissare una serata in compagnia.
L’intera dolce vita transitò dal sublime appartamento di Lino a piazza di Spagna. Siccome era amico di Ennio Flaiano, ebbe a tavola Federico Fellini e Giulietta Masina. Viglianesi, di suo, era intimo di Dino De Laurentiis e De Laurentiis si accompagnava con Silvana Mangano, donna di bellezza struggente e malinconica.
Poco a poco seguirono tutti gli altri: Eduardo De Filippo, e la sua dittatoriale presenza escludeva quella di Peppino, che Jannuzzi frequentò soltanto a Napoli; Adriano Celentano e Claudia Mori, bellissima e invisa alle altre per il carattere brusco; Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Sergio Corbucci…
Sofia Loren era il pezzo da novanta di parecchi dei conviti. Lino la conosceva da tempo, dai primissimi anni Cinquanta. La ricorda diciassettenne e prosperosa: “Già bella, ma non ancora bellissima come sarebbe presto diventata”. Lino era nel pieno delle sue glorie universitarie, lei, la signorina Scicolone, una delle più ambite ragazze di Pozzuoli. Lino andava spesso a Pozzuoli, ma non vuole sentir maldicenze: ci andava a caccia di straniere e anche solo per trascorrere qualche ora fuori da Napoli; Sofia era niente più che un’amica. In ogni caso, Lino la portava a ballare e a bere gin and tonic al Serapide, un night coi fiocchi. Poi la perse di vista ma, appunto, la ritrovo a Roma. Lei non si chiamava più Sofia Scicolone e non ancora Sofia Loren: era Sofia Lazzaro, star dei fotoromanzi. Entrò nel giro del poker di Lino, e vi resto a lungo, nonostante giocar con lei fosse una pena: “Nell’azzardo è un po’ tignosa: a casa sua si era stabilita la regola per cui a parole si puntavano mille lire, ma nei fatti cento. Cosicché, quando vincevi per una notte intera, portavi a casa sì e no trentamila lire”.
Lino andava spesso a Pozzuoli, ma non vuole sentir maldicenze: ci andava a caccia di straniere e anche solo per trascorrere qualche ora fuori da Napoli; Sofia era niente più che un’amica. In ogni caso, Lino la portava a ballare e a bere gin and tonic al Serapide, un night coi fiocchi.
A proposito di Sofia Loren, Lino definisce indimenticabile una sera con lei e Liz Taylor. Tutti i commensali erano incantati. Liz era a Roma per un film col marito del momento, Richard Burton. “Aveva incredibili occhi viola, incredibili…”. Lino le sedeva accanto, ma la conversazione era impossibile: lui non parlava inglese, lei non parlava italiano. Allora si sorridevano bevendo Martini, che piaceva molto a entrambi.
A notte fonda, Duke Ellington fece rimbombare la sua voce nel vuoto di piazza di Spagna. Il senatore Lino Jannuzzi applaudì. Gli altri, i pochi che avevano retto al sonno e all’alcol, ascoltarono in silenzio. Il giorno successivo, Lino andò all’aeroporto a salutare Duke e tutti i ragazzi dell’orchestra. Si diedero pacche sulle spalle e appuntamenti generici. Duke sarebbe morto pochi anni dopo, nel 1974, e lui e Lino non si sarebbero più rivisti. Si erano conosciuti nel 1966. “O forse era il 1967”. Quell’anno, qualunque fosse, Lino aveva trovato il modo di viaggiare e di coltivare la passione per il jazz senza tirare fuori una lira. Anzi, intascandone. L’idea gli balenò ascoltando Charley Parker al grammofono. “O forse era Dizzy Gillespie”. In ogni caso a Lino gli venne quest’illuminazione e ne mise subito a parte Eugenio Scalfari, per averne la benedizione. Voleva, in definitiva, volare in America per redigere una lunga inchiesta sui maestri del jazz, di cui in Italia si conosceva nulla fuorché il talento. L’Espresso, ai tempi ancora in bianco e nero, offriva ai lettori un inserto illustrato a colori, sovente monotematico; Lino si offrì per curarne uno. Scalfari disse di sì pure se a Lino servì di essere accompagnato da una giovane collega bilingue, essendo lui in possesso di un inglese buono al massimo per ordinare al ristorante.
Dunque partì per New York. “Sapevo che per quella stagione dovevano passare tutti di lì”. Così fu, infatti. Lino stette a New York un paio di settimane. Incontrò Miles Davis, Sonny Rollins, John Coltrane, Gerry Mulligan, Chet Baker. Erano interviste coi fiocchi, e lo dicono quelli che furono deputati a impaginarle. “Volevo rientrare in Italia, ma un po’ l’America non mi dispiaceva affatto, un po’ ero spesato dal giornale, un po’ mi mancava il più grande, Duke Ellington… Insomma, decisi di rimanere aspettando che Ellington si facesse vivo”. Nessuno, però, sapeva con precisione quando sarebbe successo. Lino si mise dunque di casa dalla sorella di Duke – con la quale aveva simpatizzato – nel senso che vi indugiava da mattina a sera. Lei raccontava di Duke e preparava da mangiare e garantiva a Lino la buona riuscita del servizio: “Non sono soltanto sua sorella, ma anche il suo impresario. Vedrai…”. Duke rincasò all’improvviso e di interviste non ne rilasciò nemmeno mezza. Organizzò, al contrario, pranzi e cene e bagordi d’ogni sorta, ed eran l’occasione per suonare, bere e far capire al reporter italiano quale aria tirasse da quelle parti. Si può immaginare l’inchiesta che ne uscì, memorabile.
Quando Duke arrivò in Italia per un concerto al Sistina, Lino era già stato eletto senatore. S’era candidato per sfuggire alla reclusione con la quale avrebbe dovuto espiare gli articoli sul Sifar, magistrali, eppure giudicati delittuosi. Il senatore Jannuzzi andò a Fiumicino ad abbracciare Duke. Prima di dare fuoco alle polveri, dal palco del Sistina Duke salutò il “vecchio amico Lino Jannuzzi”, e Lino rispose senza enfasi agli sguardi d’ammirazione dei vicini di posto. Finito lo spettacolo, Duke e gli altri andarono da Lino e Lino giura che la serata fu eccezionale specie per i piatti cucinati dalla moglie Mariolina. C’erano gli amici intimi, e si tirò avanti sino all’alba. Erano tutti sbronzi. Erano sbronzi anche Duke e quelli dell’orchestra, ma con strumenti d’emergenza improvvisarono un paio di pezzi. “Fu la fine del mondo”, dice Lino. Poi Duke partì.
Prima di dare fuoco alle polveri, dal palco del Sistina Duke salutò il “vecchio amico Lino Jannuzzi”, e Lino rispose senza enfasi agli sguardi d’ammirazione dei vicini di posto
Lino andò a Pamplona dopo aver conosciuto Ernest Hemingway. Lo incontrò a Venezia, e non si lasciò scappare l’occasione di stringergli la mano. Lino sapeva “Fiesta” per filo e per segno, così parlarono di corride, di matador, di vino, di Pamplona. Hemingway fu amabile. Disse che stava partendo per Pamplona. Sarebbe stata la sua ultima fiesta, perché aveva combattuto coi repubblicani e sentiva ostile la Spagna di Franco. Aveva con sé un autista e un secchio di bottiglie di Valpolicella, e manifestava il proposito di scolarsele prima di giungere a destinazione. “Io andai a Pamplona l’anno dopo. Doveva essere il ’54 o il ’55. La mia prima fiesta di san Fermin. Poi divenne un’abitudine. Figli miei, poteva cascare il mondo, ma il 7 di luglio io dovevo essere a Pamplona. Per venti anni di seguito”.
Da Napoli a Pamplona ci sono duemila e duecento chilometri. Lino partiva da Napoli verso Roma, percorreva la costa laziale, quella toscana, la Liguria da levante a ponente, la Costa Azzurra che lasciava, grossomodo, dopo Saint Tropez. Attraversava le Alpi, magari fermandosi a Carcassonne o a Tolosa o a Lourdes. Ridiscendeva a Biarritz, passava la frontiera, toccava San Sebastian e infine ecco Pamplona. Tutto al volante di sfreccianti automobili sportive, che Lino, spesso in ritardo, spremeva al punto da mettere a repentaglio non solo l’efficienza delle parti meccaniche, ma anche l’incolumità propria e dei passeggeri. Con un’Austin Healey – muso lungo, cromature, splendida – uscì di strada all’alba di uno di quei 7 di luglio: “Per un vero aficionado perdere la prima corrida è mancanza imperdonabile”, spiega Lino.
Aveva dormito qualche ora in macchina, poi era ripartito di gran carriera lungo queste mulattiere di montagna. Era l’alba. Piovigginava e c’era nebbia. Lino imboccò una curva con eccessivo ottimismo, e d’un tratto gli si parò davanti un camion di quelli colossali. “Per evitarlo mi buttai su un lato, naturalmente non quello del burrone, e feci un gran volo che si interruppe, povero me, soltanto contra un albero”. Sfasciò l’auto ma conservò la salute. Il camionista – “Dio gli renda merito” – non soltanto si fermò per prestargli soccorso, ma si offrì anche di accompagnarlo al paese più vicino. Jannuzzi noleggiò un’altra spider che riconsegnò una settimana dopo, a fiesta conclusa. Nel frattempo gli avevano accomodato l’Austin, meno malconcia di quanto avessero denunciato le apparenze.
Piovigginava e c’era nebbia. Lino imboccò una curva con eccessivo ottimismo, e d’un tratto gli si parò davanti un camion di quelli colossali. “Per evitarlo mi buttai su un lato, naturalmente non quello del burrone, e feci un gran volo che si interruppe, povero me, soltanto contra un albero”.
A Pamplona, in quei giorni, arrivavano baschi da tutta la regione, aficionados da Madrid, da Barcellona, dal sud della Francia. Richiamati dal mito di Hemingway, erano molti i giovani scrittori, accompagnati da americane bellissime; altre arrivavano sole, attirate specialmente dal fascino dei tori, delle danze, del vino, e alla fine cedevano anche a quello degli uomini. Del resto l’alcol aveva preso il sopravvento sulle altre attrattive, compresa la corrida, che a Pamplona si tiene in condizioni orribili. Tanto per cominciare, proprio intorno alle cinque del pomeriggio prende a scendere dalle montagne un’infame brezza, e la corrida non ha nemico più temibile: il gioco sta tutto negli abili e lentissimi movimenti del polso con cui il torero sposta la muleta da un occhio all’altro del toro. Ma se è il vento, e non il braccio, a dirigere il drappo rosso, tutto va a farsi benedire. “Questo per quanto riguarda l’arena. Per quanto riguarda il pubblico non ne parliamo, perché è il pubblico più indisciplinato e meno competente che si possa incontrare nella Spagna intera”. Sono tutti ubriachi fradici. Applaudono quando non c’è motivo di applaudire. Gridano quando non c’è motivo di gridare. Fischiano quando non c’entra niente. Vomitano sulle gradinate perché non reggono alla vista del cavallo straziato dal toro, oppure perché non reggono più il vino. Poi suonano, ed è più fracasso che musica. Ogni contrada ha una banda e ogni banda vestiti e colori tradizionali, ma soprattutto un repertorio e ritiene l’arena il luogo ideale per sfoggiarlo da cima a fondo. Chi non suona, canta e balla. In quella baraonda si sono visti i migliori matador rimediare la figura dei dilettanti e tori maestosi lasciarsi vincere come vitelli.
“Quello che non succede nell’arena, succede per strada”. Patti gravissimi, dice Lino. Perché di solito i tori vengono portati sul posto della corrida la sera prima, dopo essere stati allevati in tranquillità assoluta e in praterie sterminate: “Sono bestie particolari, sorvegliate da lontano, scrupolosamente cresciute fino ai tre-quattro anni”. Praticamente, vedono l’uomo per la prima volta quando s’apre il cancello e irrompono nell’arena. A Pamplona no. A Pamplona la gente va a visitarli a ogni ora del giorno e della notte, e li tocca, e li valuta, e Ii tormenta coi bastoni e con gli strilli. Alle sette della mattina, poi, ha inizio la celebre corsa – l’encierro – in una viuzza transennata: il toro la percorre furibondo, cozzando contro le protezioni metalliche, cercando di incornare questi sconsiderati brilli e vocianti che gli corrono attorno per mostrare il loro valore. Cosicché la bestia arriva al combattimento esausta, spaventata, ammaccata. “Riesce tutto scombinato”, dice Lino. Comunque l’encierro non se l’è mai perso: “Da spettatore, naturalmente. Sono mai stato abbastanza robusto né abbastanza sbronzo per competere in vigoria con un toro”.
Stanno tutti aggrappati alle transenne, accaldati, urlanti, spurganti fiati intollerabili. Vedono il toro, se lo vedono, per pochi secondi. Lino no. Lino aveva stretto amicizia con don Pepe, cioè Jose Azkarte, uno degli uomini più in vista della città, restauratore rinomato e richiesto dai principali musei del paese. Aveva casa sulla via dell’encierro, con un balcone che pareva di stare a teatro: Lino, don Pepe e pochi altri seguivano la corsa conversando, fumando sigari e bevendo sherry. Chi vuole dormire un po’, a Pamplona, deve dormire da mezzogiorno alle cinque del pomeriggio.
È un memento di calma, per quanto relativa. Il più delle volte Lino si svegliava alle quattro per aspettare ai tavolini dei bar che cominciasse la corrida delle cinque. Il compito d’annunciarla spettava alla banda, cui ci si accodava per entrare nell’arena col passo doble. Durante la corrida si beveva birra fresca, quella locale, ottima perché furono i mastri birrai di Pilsen a insegnare ai baschi a produrne. Terminata la corrida si tornava alla plaza del Castillo, a bere altra birra e a mangiare gamberetti. Intanto le bande delle contrade confluivano in piazza e nelle vie attorno, e la gente dietro ballava. Quelli della banda non se ne andavano sinché chi era seduto ai tavolini oppure sui balconi non faceva due passi di riau-riau, la selvaggia danza locale. Lino non poteva sottrarsi. “El periodista italiano, el periodista italiano”, gridavano. Lino, svezzato dal boogie woogie, se la cavava egregiamente. Poi beveva altra birra. Poi passava un’altra banda. Lino danzava. Poi beveva altra birra… Si cenava al Rey noble. Questo, almeno, era il nome scritto sull’insegna, ma il ristorante era noto come “las pocholas”, le piccoline; era gestito da otto sorelle, tutte solteras, zitelle. Il ristorante girava attorno a un bancone, dove ci si sedeva bevendo Fundador, brandy o vino; al banco lavoravano grandi barman, arrivati per l’occasione da Madrid e da Barcellona, quando non da Parigi; seguivano i loro facoltosi clienti, e preparavano i loro sublimi cocktail. Intanto i camerieri apparecchiavano la tavola.
Le zitelle cucinavano merluzza fritta, tonno, il buon pesce spada del golfo di Biscaglia. Oppure si mangiavano gli hors-d’oeuvres: due piatti di carne, uno di pesce, uno di verdura, uno d’insalata, uno di frutta, uno di dessert. Si beveva soprattutto vino francese. Poi si tornava in strada. I contadini cuocevano merluzze o carne di cavallo sui marciapiede. Erano così ubriachi che ormai parlavano solo basco, incomprensibile. Di nuovo ballavano il riau-riau porgendo ai passanti otri colmi del loro passabile vino rosso. Il vino si beveva tenendo gli otri col braccio teso, e lasciando che il getto disegnasse una parabola perfetta verso la bocca. I contadini regalavano l’otre a chi riusciva a vuotarla. Lino ne ebbe molte. (5 - continua)