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Opera

Hofmannsthal o Mozart: a Salisburgo furoreggia il genio registico di Carsen

Alberto Mattioli

Nella “Clemenza di Tito” una Vitellia che sembra Meloni dà vita ad uno spettacolo d'impatto reinterpretata dalla mano sapiente di Robert Carsen, capace di infuocare la cornice del Festival di Pentecoste di Salisburgo

Com’è noto, a Salisburgo c’è di tutto, di più e talvolta perfino di troppo. Quest’estate, anche una specie di festival nel festival dedicato a Robert Carsen, senza se e senza ma il maggior regista d’opera del mondo. Oltre alla ripresa della Clemenza di Tito di Mozart già presentata a Pentecoste, gli è stato affidato anche Jedermann di Hofmannsthal, titolo feticcio di Salisburgo (lato prosa, però), rappresentato ogni anno sul sagrato del Duomo dal 1920, a maggior gloria di Dio e del Fondatore del festival. Sacra rappresentazione, mistico “mistero” rielaborato sulla base di un “morality play” medievale inglese, Jedermann viene concepito dal super esteta dopo la svolta cristiana d’inizio Novecento, quando Hofmannsthal è influenzato dal cognato pittore, ebreo convertito e fattosi prete. Lo Jedermann è Chiunque di noi quando la Morte, anzi il Morte perché in tedesco la parola è maschile e l’interprete, quindi, un attore, viene a portarselo via. Il ricco epulone si pente e spira cristianamente, accompagnato da Fede e Opere, mica vorremo passare per protestanti. Per Carsen, un invito a nozze: lo Jedermann (Philipp Hochmair, bravissimo) è un Briatore perfino più pacchiano, che entra in scena al volante di un’incredibile Mercedes dorata ed esibisce mazzette di banconote ai giornalisti che lo intervistano. Delizioso anche il finale, con lui che si accomoda direttamente nella tomba; e si rivede con piacere Andrea Jonasson, la vedova di Strehler, che fa la Madre. Successone nonostante il trasloco dal Duomo al Festspielhaus indoor causa pioggia (i tropici sono arrivati anche qui nella felix Austria: di giorno si soffoca e di sera si scatena il monsone).


La Clemenza è quella famosa o famigerata, se ne sono accorti perfino i giornali italiani, “della Meloni”. Infatti Vitellia, che ordisce complotti contro Tito che vuole sposare tutte tranne lei, somiglia pericolosamente al nostro presidente del Consiglio, benché sia vestita nel complesso meglio. Tito, peraltro, non è truccato da Mattarella. E la Roma dei Cesari diventa un’anonima sala riunioni contemporanea, tutta wifi e angolo caffè, ma con il Tricolore e la bandiera europea in bella vista (però, già che si parla di Senato, ci si poteva pure mettere Palazzo Madama, decisamente più elegante). Quando scoppia l’insurrezione contro il governo, i ribelli sono la feccia trumpiana all’assalto di Capitol Hill. Nel finale (spoiler!), Tito dovrebbe perdonare tutti in un eccesso di clemenza masochista; Carsen lo fa invece assassinare dal fidato Publio subornato e pagato da Vitellia, che così si installa finalmente sulla poltrona presidenziale. Spettacolo forte, coerente, moderatamente pretestuoso e tecnicamente fantastico: Robertino al suo meglio.


Gianluca Capuano dirige con energia e fantasia dei Musiciens du Prince semplicemente fantastici: davanti a me, una vegliarda ancora affezionata al Mozart coccodé “viennese” faceva salti sulla sedia a ogni botta dei timpani. Unico appunto: i recitativi secchi talvolta troppo veloci. La compagnia è ovviamente dominata da SCNSD (Santa Cecilia Nostra Sempre Divina, insomma la Bartoli) che, a trent’anni dall’incisione, è ancora il miglior Sesto mai ascoltato. Ma la Vitellia-Gggiorgia, Alexandra Marcellier, è una giovine grintosa da tenere d’occhio, mentre Daniele Behle-Tito ha una bella voce, un italiano incerto e pasticcia le agilità. Nel complesso, la parte musicale è al livello di quella scenica. Viene però un dubbio. Carsen denuncia giustamente la marea montante del populismo greve, sono vannacci nostri. Ma l’opera fu scritta per l’incoronazione a Re di Boemia, nel 1791, di Leopoldo d’Absburgo, il più chic dei radical chic, l’uomo che da Granduca di Toscana aveva abolito per primo la pena di morte: e fratello della povera Maria Antonietta che a Parigi, in quei mesi, iniziava a non passarsela più tanto bene. Ma allora l’ultima ora della monarchia illuminata equivale alla fine della nostra democrazia con uso di Ragione, sovvertita dai nuovi sanculotti in rivolta contro le élite e il congiuntivo? Tutti a difendere la Bastiglia.

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