(1935-2024)
Alain Delon, il "monumento" che avrebbe potuto essere un attore ancor più grande
Sguardo purissimo, bocca carnosa e imbronciata, quell’aria da angelo caduto: per molti era il miglior rappresentante della mascolinità. Ma c’è una ragione se pochissimi di noi riescono a ricordare più di tre o quattro dei film della sua ricca cinematografia
Si può dire di un uomo che abbia sfruttato la propria bellezza per fare carriera senza doverne ammortizzare preventivamente la spregiudicatezza e l’ambizione con l’uso di iperboli tanto grandiose quanto inutili? Possiamo dire di Alain Delon, scomparso oggi a ottantotto anni dopo quel genere di malattie che temeva (“non temo la morte, ma spero di andarmene senza soffrire”, aveva detto moltissimi anni fa alla Rai che lo intervistata, non è stato accontentato) che la piena coscienza della propria, incommensurabile, attrattività fisica, lo rendeva un attore meno spontaneo e meno interessante di quello che avrebbe potuto essere se i registi non si fossero sentiti sempre obbligati e riprenderlo di tre quarti, o da sotto in su, o dopo un rapido dietrofront, per valorizzarne lo sguardo purissimo, intensamente blu e magnetico, la bocca carnosa e imbronciata, e quell’aria da angelo caduto, profondamente corrotto ma intatto, che Luchino Visconti avrebbe continuato a cercare per tutta la vita senza incontrarlo mai più e certamente non in Helmut Berger?
Si, è stato un “monumento”, Alain Delon, come si è affrettato a dichiarare le président de la République Emmanuel Macron, che non si lascia mai sfuggire l’occasione di applicare il termine a qualsiasi espressione di francesità appena degna di nota gli passi sottomano, benché in questo caso avesse più di una ragione per farlo. Ma c’è una ragione se pochissimi di noi riescono a ricordare più di tre o quattro dei film della sua ricca cinematografia, e quasi nessuno, per esempio, il debutto con René Clement.
Per il mondo, non solo italiano, Delon continua a essere il miglior rappresentante della mascolinità, l’ex militare ribelle in Indocina, undici mesi di galera per insubordinazione su cinque anni di permanenza, che i costumisti adoravano vestire e dai quali donne e uomini, pariteticamente, avrebbero amato farsi svestire. Se per gli Stati Uniti, l’uomo degli Anni Cinquanta è Marlon Brando con la t shirt di “Fronte del Porto”, per l’Europa dei primi Sessanta l’uomo nuovo indossa le canottiere di Rocco Parondi, la redingote attillata di don Tancredi, principe Falconeri del “Gattopardo”, il cappotto beige di Daniele Dominici, gli infiniti trench che su scena sembrava scambiarsi con il suo eterno rivale, Jean Paul Belmondo, che pure non avrebbe mai potuto raggiungerne il gradiente divistico spettacolare, tutto concentrato attorno a quello sguardo, a quella faccia perfetta in ogni inquadratura, a quell’infinita serie di donne che per i media francesi avevano perfino una definizione collettiva da corpo di ballo: le “delonnettes”.
Come tutti i grandi divi, nell’immaginario popolare Delon, l’alter ego maschile di Brigitte Bardot perfino nell’amore per gli animali (nel suo giardino, a Douchy, sono seppelliti cinquanta cani, una volta chiese di essere tumulato fra di loro, chissà se lo accontenteranno), non è mai invecchiato, non è mai diventato l’uomo al tempo stesso tenero e disincantato che nel 2019 le telecamere del Festival di Cannes ritraggono mentre mostra la Palma d’oro sbuffando platealmente, per ricacciare indietro le lacrime: è sempre il bello d’estate della “Piscina”, dove impose la fidanzata Romy Schneider nel ruolo che era stato pensato per Monica Vitti con la quale, però, si stava cordialmente antipatico; il bellissimo professore della “Prima notte di quiete” di Valerio Zurlini, il miglior interprete possibile di “Borsalino”, dove accenna quel gesto preciso per raddrizzarsi la tesa che oggi infiniti epigoni imitano nei balletti su TikTok sfoggiando Stetson sui quali è peraltro impossibile farlo, l’uomo favoloso che nemmeno si accorge della presenza di Mick Jagger imbronciato, con due brutte scarpe ai piedi e ridicoli jeans rosa, perché ne sta seducendo la fidanzata Marianne Faithfull con uno dei suoi sguardi in tralice in una foto che in queste ore rimbalza sui social con l’unica didascalia possibile (“quando tu sei Mick Jagger, ma l’altro è Alain Delon”).
Nessuno ricorda però i suoi “polar”, i polizieschi dei quali fra gli Anni Ottanta e i primi Novanta diventò anche produttore e pur mediocre regista. Eppure, se non fosse stato per quella favolosa bellezza ad offuscare la scena e a ottenebrare le menti, avrebbe potuto essere un grandissimo attore, spiritoso anche, come vedemmo in una delle sue ultime apparizioni cinematografiche, nel ruolo molto appropriato di Giulio Cesare in “Asterix alle Olimpiadi”. Sono pochi minuti nei quali guarda in camera come si guardasse allo specchio, in un fantastico e inatteso epitaffio di sofisticata ironia: “Cesare ha conquistato tutto, è riuscito in tutto. Non deve niente a nessuno: né ai suoi fratelli, né al clan dei Siciliani. E’ un gattopardo. Ave moi”. Quel dommage, aver conosciuto così poco quel Delon lì.
Universalismo individualistico