Foto Getty  

Fotografia

Il cuore del mondo, a colori

Luca Fiore

“La vera sfida di oggi è toccare le questioni del presente senza appiattirsi sugli slogan”: chiacchiere newyorchesi con Mitch Epstein, che a ottobre sarà a Torino con la grande mostra “American Nature”

È la metà di maggio. A New York è primavera, sempre che questo termine abbia ancora un senso, visto che non ci sono più le mezze stagioni. Il clima è frizzante, la Grande Mela è reduce dall’occupazione della Columbia University, con gli studenti che chiedono che l’ateneo prenda le distanze dallo stato di Israele. In città non si parla d’altro. Sono stato convocato da Mitch Epstein, uno dei grandi nomi della fotografia americana, nello studio della pluripremiata video editor australiana Kate Williams, con la quale sta ultimando l’opera che chiuderà la grande mostra “American Nature”, in programma a ottobre alle Gallerie d’Italia, la sede espositiva di Intesa Sanpaolo a Torino. Dico “convocato”, perché dopo l’intervista del giorno prima, nel suo studio nel Lower East Side di Manhattan, nello stesso isolato in cui si trova il New Museum, Epstein mi aveva detto: “Se vuoi capire, devi vedere questo video”. Non mi faccio pregare, e il giorno dopo salgo in questo appartamento in un palazzone all’inzio della Quinta Avenue, a pochi passi da Washington Square. Epstein mi accoglie e mi presenta la Williams. C’è anche Susan Bell, sua seconda moglie, con la quale da trent’anni si confronta in modo serrato, che è pronta a fare le ultime osservazioni su un’opera a cui l’artista sembra tenere molto.

Nella stanza si spengono le luci e Kate fa partire un video a tre canali realizzato da Epstein nell’ultimo anno, durante il quale è tornato nello stesso bosco per registrare l’esuberanza visiva della natura e provare a comunicare le sfumature emotive che ha  hanno attraversato mentre la contemplava. Si intitola “Forest Waves”. È un viaggio lirico, pensato come conclusione di una mostra che si annuncia a forte impatto, se non politico, almeno civile. A Torino, infatti, arriveranno due celebri serie di immagini: “American Power” e “Property Rights”. La prima è un viaggio, realizzato tra il 2003 e il 2008, che racconta il modo in cui l’energia viene prodotta e utilizzata nel paesaggio americano e il modo in cui essa influenza la vita degli americani. La seconda, invece, iniziata nel 2017 e conclusa nei mesi precedenti alla pandemia, si concentra sulle proteste per le confische, da parte del governo di Washington, di terreni di alcune comunità di nativi americani. A queste si aggiunge l’ultima, “Old Growth”, terminata grazie al sostegno di Intesa Sanpaolo, che mostra gli alberi secolari del continente nordamericano: pini bianchi, sequoie, cedri coperti di muschio, cipressi calvi e pini silvestri. Vecchi saggi che sfidano la hybris degli uomini di ieri e di oggi, appiattiti sulla dimensione del presente. Quando si riaccendono le luci nello studio sulla Quinta Avanue, Epstein mi guarda per capire la mia reazione. Mi anticipa Susan che, senza peli sulla lingua, elenca due o tre passaggi che non la convincono. Lui sembra non prenderla bene. Per lui il lavoro era concluso. “Sei tu che mi chiedi il parere, non ti puoi lamentare se poi quello che ti dico non ti piace”. Lui lo sa e alza le spalle con un sorriso.

 

Non capita tutti giorni di scendere nella sala macchine del processo creativo di un artista di questo calibro. Nato 72 anni fa a Holyoke, Massachusetts, Epstein è approdato a New York a vent’anni per frequentare la scuola d’arte alla Cooper Union, dove è stato allievo del leggendario Garry Winogrand che, insieme a Diane Arbus e Lee Freedlander, era stato protagonista qualche anno prima di “New Documents”, la mostra seminale al MoMa, curata da Johnn Szarkowski. “È stato lui a consigliarmi di usare la pellicola a colori. Disse di andare, scattare, e non pensare al colore”. Allora, nel mondo della fotografia non commerciale, che fosse fotogiornalismo o ricerca artistica, era inconcepibile uscire dalla strada sicura del bianco e nero. Un po’ perché la tecnologia non era ancora pronta, un po’ perché ai dogmi è difficile rinunciare. Fatto sta che oggi, insieme a nomi come William Eggleston, Joel Meyerowitz e Stephen Shore, Epstein è considerato uno dei pionieri dell’uso del colore. E con grande semplicità, anche lui usa l’argomento classico di chi difende questa scelta: “È il mondo che è a colori”


Ribollono gli anni Settanta. Fuori dalla Cooper Union c’è New York, la città più fotogenica del mondo. Il giovane fotografo carica il suo apparecchio con diapositive Kodakchrome e si mangia la Grande Mela. La vita, gli incontri, le piccole assurdità quotidiane, i dolci miracoli ordinari, le epifanie laiche. Spediva i rullini via posta e gli ritornavano sviluppati. E la notte guardava le centinaia di scatti proiettati su una parete del suo appartamento sulla Bowery. Oggi quel lavoro è raccolto in “Reacreation” e “Silver+Chrome”, entrambi pubblicati da Steidl. Negli anni successivi, la voracità visiva porta il fotografo lontano dagli Stati Uniti e dalla sua New York. “Uno dei grandi doni che ho ricevuto dalla vita”, racconta, “è stato quello di frequentare da giovane fotografo prima l’India e poi il Sudest asiatico, sopratutto il Vietnam. Questo mi ha permesso di prendere le distanze da molte cose che, fino ad allora, avevo dato per scontate. È stato un grande passo per la mia crescita come artista ed essere umano. È stato un processo di decostruzione e ho dovuto imparare a disinparare. Pensavo di sapere qualcosa sulla fotografia, ma non era vero”. Questa, per l’artista, è stata la grande lezione di Winogrand: “Il punto è ricominciare ogni giorno da capo, uscire dalla propria testa, dal groviglio di idee che abbiamo dentro, per rimanere aperti”. Quella stagione, degli anni Ottanta e Novanta, è atterrata sulla carta stampata con “In Pursuit of India” (Aperture, 1987), “Vietnam: A Book of Changes” (W. W. Norton & Company, 1996) e “In India” (Steidl, 2022). Poi lo sguardo del fotografo è tornato a rivolgersi verso casa sua, e l’ultima ventina d’anni è tutta dedicata al paesaggio americano, una nuova cavalcata approdata a “Old Growth” e “Forest Waves”.

“Uno dei grandi doni che ho ricevuto dalla vita”, racconta, “è stato quello di frequentare da giovane fotografo prima l’India e poi il Sudest asiatico, sopratutto il Vietnam. Questo mi ha permesso di prendere le distanze da molte cose che, fino ad allora, avevo dato per scontate. È stato un grande passo per la mia crescita come artista ed essere umano. È stato un processo di decostruzione e ho dovuto imparare a disinparare. Pensavo di sapere qualcosa sulla fotografia, ma non era vero”.


Epstein mi mostra la piantina delle Gallerie d’Italia con lo schema della mostra. Poi chiede a Ryan Spencer, il suo storico assistente, di farmi vedere un altro video che sarà posto all’ingresso dell’esposizione. Si tratta di una sequenza mozzafiato di immagini di Darius Kinsey, fotografo che nella prima metà del Novecento ha documentato il disboscamento nelle regioni del nord ovest degli Stati Uniti. Le piccole figure dei boscaioli sono contrapposte all’enormità dei tronchi delle centinaia di migliaia di sequoie abbattute. Quelle che allora doveva sembrare la celebrazione dello spirito di conquista, oggi ci appaiono come la registrazione di una sorta di olocausto boschivo. Eppure ciò che prevale, al di là delle retoriche di ieri e di oggi, è un misterioso senso di stupore reverenziale, per la bellezza della natura da una parte, e per l’ambizione dell’uomo dell’altra. Per il fotografo, il lavoro sulle foreste americane è un lavoro che si inserisce nella tradizione fotografica che ha indagato il tema, tutto americano, della wilderness. Termine intraducibile, che indica la realtà del territorio incontaminato delle pianure, dei canyon e delle foreste dove gli artisti ritrovano il senso del sublime. “Non sono un ecologista, né uno scienziato, né un politico. Ma sono capace di ascoltare e guardare. Vedo le sfumature, vedo l’importanza della wilderness e il bisogno che di essa abbiamo”. Spencer srotola una delle grandi stampe realizzate per Torino e la appende con dei magneti alla parete. E’ stata scattata nel 2021 a Patriarch Grove, un antica foresta di pini setolosi nel  nord della California. La fotografia mostra un tronco striato e ritorto, liscio come se fosse stato lavorato da un falegname. All’eleganza del fusto nudo si contrappone il disordine selvaggio dell’intrico di rami che da esso si sviluppano. Osservando meglio, si ha l’impressione che le strisce nere che attraversano il tronco potrebbero essere state causate da un fulmine e che ciò che vediamo sia, in realtà, un organismo ferito che resta in vita traendo energia da chissà dove. 

“Non sono un ecologista, né uno scienziato, né un politico. Ma sono capace di ascoltare e guardare. Vedo le sfumature, vedo l’importanza della wilderness e il bisogno che di essa abbiamo”.


Epstein mi spiega che, poco dopo aver iniziato il lavoro sugli alberi secolari, ha letto “The Overstory” di Richard Powers (tradotto in italiano da La Nave di Teseo con il titolo “Il sussurro del mondo”), romanzo Premio Pulitzer che racconta dell’intreccio tra la vita dei personaggi e le vicende dei grandi alberi. “Toccava molti temi che mi interessavano. Powers è riuscito a creare un’opera di finzione calandola completamente nella nostra realtà presente, raccontando fenomeni molto complessi, mettendoli in relazione a vicende personali, e creando un romanzo che ha un respiro lirico”. Un’altra lettura è stata “Wild Trees” di Richard Preston, che racconta la vicenda di alcuni studenti degli anni Ottanta e Novanta interessati agli alberi secolari e che, arrampicandosi su di essi, hanno scoperto che tra le chiome di questi immensi esseri viventi esiste un vero e proprio mondo botanico inesplorato. Quando Epstein si trova al cospetto di quegli stessi alberi si chiede: “Qual è il modo di fotografarli senza essere didascalico?”. È una domanda che gli fa tornare in mente le immagini e le parole di Robert Adams, uno dei maestri della fotografia americana, uno capace di riconoscere il legame biunivoco tra la tutela del creato e la salvaguardia della propria umanità. Senza l’una, manca l’altra. E viceversa. Dice: “Nella prateria c’è talvolta una quiete così assoluta che consente di ricominciare, di amare il futuro”. Bob, come lo chiama Epstein, non prospetta il ritorno a un utopico ritorno alla wilderness dei Gran Canyon fotografati dal suo quasi omonimo Ansel Adams. Il punto è riconoscere la forza irriducibile della natura e della sua bellezza, anche là dove essa è stata intaccata dell’opera dell’uomo. Ed è proprio la frizione tra natura/inquinamento, bene/male che accende la poesia delle immagini e mette alla prova la speranza di chi le guarda. 


Non è semplice stare a quel livello. Ma il parallelo con Adams, fa pensare che il titolo della mostra di Torino, “American Nature”, possa essere letto sia in modo letterale, con riferimento alla dimensione meramente paesaggistica, sia dal punto di vista etico, come critica al comportamento ostinatamente irresponsabile del popolo americano. “Io non sono uno che vuol fare proselitismo rispetto ai temi ambientali. Non sono nemmeno così ingenuo da immaginare che occorra rinunciare al progresso. Però penso che, una volta che si è preso coscienza di un problema, come ad esempio il rischio che scompaiano certi alberi che sono un patrimonio inestimabile, ci si impegni a che questo non accada. Ma come artista, la vera sfida è toccare le grandi questioni del presente senza essere didascalici o appiattirsi sugli slogan. Io vorrei, rispetto a questo mio ultimo lavoro, comunicare il mio stupore, il mio sentirmi piccolo, la mia emozione per il solo fatto di essere in presenza della natura, un sentimento che va al di là della mia comprensione”. Epstein desidererebbe accendere in chi guarda, quella stessa stessa esperienza che è un insieme di meraviglia e umiliazione. Ma come si fa? Sarebbe più semplice fare una campagna di sensibilizzazione. “Non sono nemmeno sicuro che sarebbe davvero utile alla causa dell’ambiente. Quanto sono utili, a fermare la violenza, le immagini che ci arrivano dall’Ucraina o da Gaza? Ma una ricetta non c’è. Non so che cosa davvero si possa fare. Ma io seguo la mia strada, che è quella di fare di tutto per non allontanarmi dalla complessità di ciò che abbiamo davanti”. 

Di più su questi argomenti: