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Storie dalla seconda guerra mondiale

Il generale alla fine cedette: disobbedì all'ordine assurdo e Parigi non bruciò

Marco Mondini

Dal 25 agosto del ’44 ai crimini di guerra di oggi: ritratto di Dietrich von Choltitz, controverso generale della Wehrmacht che salvò il cuore della Francia dalle furie naziste

“Sono ordini e io non li metto in discussione” afferma il generale Dietrich von Choltitz all’alba del 25 agosto 1944. “Ma se l’ordine fosse assurdo?”, replica il console svedese Raoul Nordling

Forse questo scambio di battute non è mai avvenuto. Perché la camera dell’hotel Le Meurice dove avviene il confronto tra i due è il set di un film del 2014, Diplomatie. E a pronunciarle sono due attori francesi, Niels Arestrup che interpreta l’ultimo governatore tedesco di Parigi, e André Dussolier, che veste i panni del diplomatico che Parigi, probabilmente, in quelle ore la salvò. E poi quell’adattamento è solo l’ultimo dei racconti di quella notte di ottant’anni fa in cui Parigi avrebbe potuto bruciare, secondo i folli ordini che Hitler in persona aveva emanato affinché della ville lumière, il suo bottino di guerra prediletto, non restasse di fatto pietra su pietra. Chissà quante parole di fantasia sono state aggiunte da romanzieri e registi. Di certo, sappiamo che i ponti sulla Senna erano stati minati, e la loro distruzione avrebbe causato un’onda di piena che avrebbe sommerso mezza città. Il Louvre, Les Invalides, l’Opera, la tour Eiffel, l’Arco di Trionfo, le stazioni ferroviarie, sarebbero state disintegrate subito dopo. Dovevano rimanere solo macerie popolate di morti. Una stima di quanti abitanti sarebbero stati schiacciati dalle rovine, bruciati dai roghi o affogati dalle acque non è mai stata nemmeno tentata. Militarmente parlando, non aveva alcun senso. La seconda divisione blindata del generale Lecrerc distava pochi chilometri e avanzava senza più ostacoli, e gli uomini e le donne delle Forze dell’interno, la Resistenza francese, erano insorti il 19 agosto, respingendo i tedeschi, casa per casa e strada per strada. Se l’ordine fosse stato eseguito, il massimo risultato sperabile sarebbe stato rallentare gli Alleati per qualche  settimana, impegnandoli in una massiccia operazione di soccorso ai parigini superstiti. Ma la Francia, e la guerra, erano ormai perdute. Nessun sacrificio avrebbe potuto impedirlo. Parigi poteva bruciare, certo. Ma sarebbe stato solo l’ennesimo crimine imperdonabile, per i tedeschi tutti, oltre che per il generale al comando.


Almeno, questo è quanto avrebbe sostenuto von Choltitz nelle sue memorie, “Soldat unter Soldaten“ (Soldato tra soldati) pubblicate pochi anni dopo la liberazione dalla (relativamente breve) prigionia alleata.  L’aura di “salvatore di Parigi” l’avrebbe accompagnato per il resto della sua vita, tanto che al suo funerale, nel 1966, avrebbe presenziato una delegazione ufficiale dell’esercito francese. E lui, l’ex rampollo di una nobile famiglia slesiana che nel 1914 aveva combattuto sulla Marna e a Ypres e nel 1939 si era quasi fatto ammazzare in Polonia, sarebbe passato alla storia come il militare tutto d’un pezzo, pronto a morire per il proprio paese, ma che fedeltà e patriottismo non avevano “né corrotto né reso disumano”, per dirla con Primo Levi. Col tempo, e l’emergere delle fonti dagli archivi, la figura di von Choltitz si è rivelata più controversa. Lui stesso avrebbe ammesso durante la cattività di aver partecipato (“con ripugnanza”) ad almeno un massacro di ebrei durante la campagna di Russia. E il fatto di essere sopravvissuto alla feroce purga della Wehrmacht voluta da Hitler dopo l’attentato del 20 luglio 1944 suggerisce che non veniva considerato un generale esattamente antinazista. Eppure. Eppure resta il fatto che von Choltitz quell’ordine non lo diede mai. Forse, davvero, non lo fece perché sapeva di non poterlo eseguire. Non aveva più le truppe e i mezzi per dare corso alle fantasie da crepuscolo degli dei del suo Führer. Forse non lo fece perché, in fin dei conti, preferiva dare una possibilità ai propri uomini (e a se stesso) di sopravvivere alla sconfitta senza venire giustiziati sul posto.

Resta il fatto che scelse di disubbidire. Dimostrando in un solo momento l’inconsistenza dell’eterna giustificazione di ogni criminale di guerra in uniforme: “Obbedivo solo agli ordini”. L’avrebbero sostenuto i generali tedeschi a Norimberga, e ripetuto Herbert Kappler o Erich Priebke processati per strage. O, quel Rodolfo Graziani, futuro presidente onorario del Msi e già noto come il “macellaio del Fezzan”, che prima di sterminare civili in Etiopia nel 1937 si era fatto le ossa conducendo una spietata controguerriglia in Libia. E probabilmente, se mai compariranno davanti a un tribunale o a delle telecamere, lo ripeteranno anche i militari russi responsabili del massacro di Izyum del 2022. Dietrich von Choltitz, che nell’esercito tedesco militava da quarant’anni e i suoi codici (scritti e di onore) li conosceva bene, disse di no. Così il 25 agosto 1944 divenne anche il giorno in cui fu chiaro che per un ordine assurdo, come avrebbe sostenuto il suo quasi amico Nordling, non c’erano e non ci saranno mai giustificazioni possibili.