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Penne ribelli

Il manuale di scrittura di M. John Harrison ha una premessa: il genere non conta

Giulio Silvano

Anarchico e polemico: l'autore inglese istruisce i giovani scrittori attraverso le sue esperienze personali, per portare alla luce opere autentiche e libere da ogni schematismo

È bizzarro scoprire uno scrittore attraverso le sue memorie – o antimemorie, come le chiama questo autore nello specifico – quando non si ha mai letto un suo libro. Ma le nuove case editrici servono anche a questo, a far scoprire al pubblico dei duri e puri che dietro alla letteratura fantascientifica, fantasy, horror o slipstream che sia, ci sono dei veri scrittori. La casa editrice Mercurio, appena nata – e che già sta facendo parlare di sé, anche solo per le feste al Salone di Torino – ha appena pubblicato “Vorrei essere qui” di M. John Harrison. Anziano, inglesissimo, Harrison ha scritto una decina di romanzi e vari racconti e ha vinto premi per le sue opere “new weird”. In Italia alcuni suoi libri erano usciti nella collana di Urania con quelle copertine terrificanti che piacciono tanto a Michele Mari. Un romanzo di Harrison era poi tornato in libreria grazie ad Atlantide: “Riaffiorano le terre inabissate”, che viene considerato il suo capolavoro. 


Tutti gli intellettuali inglesi che amano Harrison vogliono sottolineare che il genere non conta, che è irrilevante quando si è dei bravi prosatori – Harrison è stato chiamato “un maestro Zen della prosa”. Olivia Laing, di cui è appena uscito “Il giardino contro il tempo”, lo definisce l’anello mancante tra William Burroughs e Virginia Woolf. Un vero bastian contrario Harrison, anche solo nella scelta di firmarsi mettendo un punto solo davanti a uno dei suoi due nomi (la M di Michael). Uno scrittore anarchico, un anti tutto: oltre l’antimemoir anche la sua opera del ’74 “The Centauri Device” viene definita come un romanzo “anti-space” – l’eroe è passivo, l’universo non è antropocentrico, Hermann Göring viene ricordato come un artista. Ogni passo narrativo e stilistico sembra fatto per sovvertire qualcosa di preesistente. “Nel 1968 avevo già la nausea del ticchettio del metronomo strutturale, che teneva insieme la macchina narrativa e la spingeva in discesa verso Hollywood, in tutto ciò che guardavo, ascoltavo e leggevo”. E poi: “I concetti, le idee, li odio”. Perché “Vorrei essere qui” è anche un manuale di scrittura. “Avere un’idea non significa avere qualcosa da scrivere”, dice. “Mai privilegiare la fabula. Va bene l’intreccio ma la fabula è come l’agricoltura chimica. Portare a conclusione è sbagliato. È tossico”.

E scrivere del proprio passato diventa un modo per cercare di capire, arrivati alla vecchiaia, come è cambiato il proprio rapporto con la scrittura rispetto a quando si era ragazzini (se mai è cambiato). “Ero convinto che la scrittura fosse una via di fuga piuttosto che l’onesta ammissione di ciò che vedevo e vivevo”. E ancora: “Oscilli dall’essere sicurissimo di ciò che stai scrivendo all’esserne molto insicuro e, perciò, all’essere insicuro di tutto”. Ma dentro ci sono, anche in forma aforistica e diaristica, pensieri sul rapporto con la natura – Harrison si trasferisce nel Peak District, cammina tanto e fa arrampicata; momenti molto inglesi. Ancora polemico a 77 anni, intervistato di recente Harrison ha detto: “Voglio essere il primo essere umano a imitare perfettamente ChatGPT. Scommetto che ha già dei tratti imitabili”.

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