Un manoscritto di Immanuel Kant esposto al Palazzo Bellevue di Berlino (Foto ANSA)

Estate metafisica

La metafisica è una questione di metodo

Massimo Adinolfi

Quanti tentativi di salvare la metafisica dopo Kant. Molti si sono fatti abbagliare dal miraggio dell’immediatezza, ma logos e riflessione restano strumenti imprescindibili. Un pensiero del “come”

Massimo Adinolfi è professore di Filosofia teoretica presso l’Università Federico II di Napoli. Con Vincenzo Vitiello, dirige la rivista “Il Pensiero”. Si conclude con il suo articolo la serie del Foglio sulla metafisica, un percorso a tappe per affrontare i grandi temi della natura, della storia, della libertà e dell’arte dal punto di vista filosofico. Sono già usciti il 2 luglio “Un ponte tra l’uomo e il cosmo” di Michele Silenzi, il 9 luglio “Un magnetico avvenire” di Aldo Schiavone, il 16 luglio “Via la polvere dalla filosofia” di Rocco Ronchi, il 23 luglio “La forza selvaggia dell’essere” di Simone Regazzoni, il 30 luglio “E’ arte. Zeitgeist no, grazie” di Michele Dantini, il 6 agosto “Ritorno alla realtà” di Riccardo Manzotti, il 13 agosto “Giù il sipario sull’essere” di Carlo Lottieri.

 

Due secoli e mezzo fa – anno più, anno meno – Immanuel Kant sentì la necessità di spiegare il senso della “Critica della ragione pura”, appena pubblicata, in un breve saggio il cui titolo recita: “Prolegomeni a ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza”. Severa sobrietà prussiana: in verità, non si trattava di fornire solo qualche prudente avviso preliminare, qualche sagace accorgimento da tenere presente in futuro, per imbarcarsi ancora e nuovamente nell’impresa metafisica – la seconda navigazione a cui Platone aveva messo le vele, duemila anni prima. I prolegomeni avevano in realtà il senso di un congedo definitivo. Niente più dimostrazioni dell’esistenza di Dio, niente più dimostrazioni dell’immortalità dell’anima, più nessuna pretesa di pensare e conoscere l’ente nella sua totalità. Tutto questo non si può fare più, sentenziava Kant: la ragione umana non ne ha i mezzi. Alles zermalenden Kant, Kant grande distruttore della metafisica: così lo avrebbe quindi chiamato Moses Mendelssohn in quegli anni, cercando di tirarlo in ballo nel mezzo della controversia sull’ateismo e il materialismo della filosofia spinozista (e, indirettamente, su un possibile esito del pensiero moderno, da scongiurare con tutte le forze).

 


Kant non ha pronunciato l’ultima parola sulla metafisica, ovviamente, ma è altrettanto ovvio che, dopo di lui, non si è potuto fare come se i prolegomeni e la “Critica” non fossero mai stati scritti. Perciò si è dovuta prendere una di queste strade: modificare il concetto di scienza, di modo che non fosse la metafisica a non potersi presentare come scienza, ma la scienza a non avere titolo per sottomettere ai propri standard i tentativi metafisici della filosofia; rinunciare, puramente e semplicemente, a pretese di scientificità in filosofia, cercando di farsi andar bene altre, meno conclusive, forme di discorso; ridefinire il significato di metafisica, in modo da mantenere intatto il valore dell’argomentazione kantiana, circoscrivendone però la portata solo a quel genere di filosofia che si incaponisce a dimostrare l’esistenza di oggetti trascendenti; negare, infine, validità alla critica kantiana nel suo complesso, mostrandone i presupposti impliciti, e spesso giudicandoli a loro volta compromessi con un certo assetto metafisico ormai screditato.


Come proseguire? Perché è chiaro che tutte le strade indicate possono essere, per vari motivi, promettenti; quel che però di sicuro non è promettente è che si tratti solamente di scegliere fra di esse. Una volta che per esempio si sarà mostrato che la critica kantiana poggia su certi presupposti, come sfuggire a una perniciosa generalizzazione, del tipo: tutti i discorsi poggiano, inevitabilmente, su certi presupposti? Se così è, non ne viene che si tratta allora di prendere quello che più ci aggrada, o, detta con più solennità, di scegliere il demone che regge i fili della nostra esistenza? Così la metteva Max Weber, traendo dagli esiti della filosofia moderna (leggasi: Nietzsche) una conclusione nichilistica. Ma già Fichte non aveva, subito dopo Kant, sospettato che tutto dipende da che tipo di uomo uno sia? Dimmi che metafisica adotti e ti dirò chi sei, e viceversa. Si salva allora la metafisica, nel senso che se ne può sposare una, ma allo stesso modo in cui si possono salvare le preferenze estetiche, oppure i regimi alimentari: non un gran risultato, dopo più di due millenni dall’accensione del fuoco metafisico.

 


Oppure si può mettere a tema proprio questa situazione, cioè il senso di una filosofia riconsiderata come visione del mondo – come Weltanschauung, diceva criticamente Heidegger. In questa maniera, si può forse ritenere di avere perlomeno salvaguardato il peso culturale di certi insiemi di idee – come nel concetto di metafisica influente fatto proprio da Karl Popper: anche lo scienziato ha certi pensieri per la testa, concedeva il grande filosofo della scienza, e sono quelli, sensati o no che siano, a orientarne lo sguardo. Solo prima, però, che si cominci a far sul serio, con i numeri e le misure, i protocolli e gli esperimenti. Conseguenza non irrilevante di una simile impostazione è che saranno i tratti storico-culturali dell’epoca ad avere l’ultima parola: ben lungi dall’essere il proprio tempo appreso in pensieri, come voleva Hegel, la filosofia viene ad essere interamente assorbita entro l’orizzonte della storia, come mero deposito culturale al quale si scopriranno appartenere certe sue idee potenti. In realtà, nessun sistema metafisico è mai sorto a questo scopo, di fornire apprezzati sfondi concettuali a chi poi dovrà far scienza, o politica, o altro ancora. Un simile riutilizzo non è infrequente, è vero, ma non è per questo che Platone ha filosofato sulle idee o Leibniz ha postulato un universo di monadi.


Si provi allora un’altra strada, mettendo in discussione il concetto kantiano di esperienza, su cui poggiava la sua critica. La conclusione dell’analitica trascendentale suonava infatti così: spiace per il loro significato trascendentale, ma i concetti dell’intelletto non hanno un uso valido se non entro l’ambito dell’esperienza. Cosa appartiene, però, all’esperienza? Non ci sono forse terreni che Kant non ha esplorato, ai quali abbiamo accesso e sopra i quali sarà quindi possibile costruire una nuova prospettiva metafisica? Ed ecco allora arrivare in soccorso il corpo, oppure l’immagine, o l’esistenza d’altri, o la vita stessa del linguaggio. Kant ha trascurato le ragioni del corpo, oppure la potenza metafisica dell’immagine, o l’infinito del volto dell’altro, o il profondo radicamento dei concetti nel limo della lingua.


Si vede subito di quanto ha potuto ampliarsi la curvatura dell’esperienza, grazie a queste e ad altre nuove esplorazioni. Resta però il fatto che la critica kantiana poneva l’esigenza di misurare quella curvatura, di tracciarne l’arco, di determinarne il raggio. Perché vi sarà pure molta più verità nei recessi del corpo, negli enigmi del volto, nell’aura dell’immagine o nella sterminata antichità delle parole – una vita più profonda, una realtà più autentica, una forza più aurorale – ma per la filosofia non è soltanto questione di verità, ma sempre anche di metodo, cioè del modo in cui avere accesso ad essa. Il ricorso di Kant all’esperienza è effettivamente troppo angusto, ma siamo per ciò stesso autorizzati a dare autorità all’appello di qualunque altra istanza? 


Fateci caso, poi: tutte quelle proposte che si affannano a riscoprire questo o quell’ambito del reale hanno quasi sempre un carattere regressivo, e puntano semplicemente a recuperare qualcosa di perduto, o di trascurato, o di violentato dalla furia cieca e astratta (e capitalistica) dei tempi moderni.
In realtà, non è colpa della modernità, né del suo primo filosofo, Cartesio (che, peraltro, nel suo “Discours de la méthode” una metafisica ce l’ha pur sempre infilata). Una questione di metodo c’è già in Parmenide, e cioè: fin dall’inizio. Il sophòs, l’uomo che giunge a cospetto della dea, che ha visto e sa, non procede certo a casaccio ma segue una via, e raccoglie grazie al logos i semata, i segni della verità che non trema. La methodos degli antichi non è il metodo dei moderni, certamente, ma non è meno necessaria alla filosofia per costituirsi come un sapere.
Volete dunque una metafisica? Datevi innanzitutto un metodo per essa. Datevi una logica. Hic Rhodus, hic salta. Tutti i grandi tentativi speculativi che sono venuti dopo Kant, d’altronde – la scienza dialettica hegeliana, l’intuizionismo bergsoniano, la fenomenologia ermeneutica di Heidegger – non hanno mai pensato di opporre seccamente i due termini: o metodo o metafisica; o scienza o filosofia; o concetto o esistenza. Hanno se mai provato a dare loro un senso nuovo, non già a contrapporli.


Ma soprattutto, caro Lettore che vorresti abbeverarti alle fonti stesse dell’Essere e riempirti la testa di idee profondissime e originali, quando è sempre meglio avere una testa ben formata  di una testa tutta piena di cose che non si sa come ci sian finite dentro e per far che – diceva saggiamente Montaigne – diffida, o Lettore, di tutti quei tentativi che arrischiano la traversata nel deserto dei nostri tempi miserandi, poveri di dèi, forti soltanto di un insopprimibile bisogno di filosofia. La metafisica non può essere un desideratur. Un bisogno non è ancora la sua soddisfazione. C’è un mucchio di discorsi belli e nobili, in giro, ma che purtroppo non sono nient’altro che questo, belli e nobili (a volte, in realtà, anche poco nobili). È bello ripetere, per esempio con Schopenhauer, che l’uomo è un animale metafisico, che anzi è l’unico animale che si arrovella sull’origine e il destino di tutte le cose, sul nulla, sul tutto, sulla morte, sulle grandi domande dell’esistenza, ma pure queste domande vanno istruite, scandagliate, smontate e solo poi, forse, rimontate. Né il filosofo si riconosce dal fatto che le solleva, altrimenti vale quanto scriveva l’indimenticabile Riccardo Pazzaglia di “Quelli della notte”, con il suo immancabile brodo primordiale da cui tutto deriva. Se mai, il filosofo si riconosce da come solleva quelle domande – e, a volte, se ne solleva. La filosofia, spiegava Husserl, è la scienza del come, e se dunque non vi trovate posta la questione: “Sì, ma come?” – sì, ma come il fenomeno è incontrato? Sì, ma come l’ente è dato? – potete star sicuri che non è filosofia. O almeno: non è buona filosofia.


Non lo è, per dirne una, se riformula la domanda così: “Com’è dato questo singolo ente?” senza nemmeno accorgersi che non è per nulla come “singolo” che si incontra originariamente l’ente, che per pensarlo come singolo lo hai già fasciato di parole e di concetti, e che quindi tutto lo sprofondamento negli abissi insondabili di questa presunta singolarità dell’ente che una metafisica vera e concreta dovrebbe provare ad acciuffare è come agitarsi affannosamente temendo, però, di annegare in uno stagno; è, insomma, una vertigine di cartapesta (ed è pure, detta in termini critici, l’inavvertita teologizzazione monoteistica dell’ente in quanto tale).
Ci vuole, dunque, un logos. Quel cane morto di Hegel avrà forse esagerato con la sua scienza della logica, ma, per erigerla, ha fatto valere un principio di cui è ben difficile sbarazzarsi: non è possibile escludere la riflessione – cioè, poi, l’elemento logico, das Logische – dal vero. La stupidaggine di bollare il sistema hegeliano con una brutta parola, panlogistico, coniata apposta per dire che Hegel ficcherebbe ovunque i suoi concetti – anche là dove invece la vita (o la storia, o chissà cos’altro) preme con irruenza – lasciamola alle banalizzazioni da manuale scolastico (cattivo, perché invece ce ne sono di buoni) e proviamo piuttosto a domandare se non avesse ragione il filosofo di Stoccarda quando diceva che, dopo Kant (eccolo di nuovo), l’ontologia è pensabile solo come logica, solo cioè dentro una coscienza della commettitura di parole e concetti che struttura il “come” dell’ente (il come l’ente è incontrato, il come se ne possa avere esperienza, il come possa comunicarsi).


C’è bisogno di filosofia, di vera filosofia, di una filosofia ambiziosa, che non si limiti a ripetere il gesto critico di Kant, che non ne resti prigioniera, che non si limiti neppure a sterili manovre ritorsive, di critica della critica, che ripensi dunque il piano dell’esperienza (il “come”), ben oltre le coordinate del trascendentale kantiano, ma poi bisogna fare attenzione. All’alba del Novecento un incendiario Giovanni Papini pubblica, nell’anno di nascita del “Leonardo”, un saggio dal titolo “La filosofia che muore”, in cui si presenta come “un laudatore del passato non per impotenza, ma per troppa potenza”. Non c’era ancora l’Anvur, né i congressi mondiali di filosofia, ma già si lamentava la pletora di pubblicazioni, di tesi, di cattedre: “Parrebbe di essere in un momento di prosperità speculativa, in un’età d’oro del pensiero”, quando invece non c’è nulla del genere.  Al contrario, “l’anima, la vita, l’ardore mancano. I filosofi son morti e non son rimasti che gli scrittori di filosofia”. E continuava, Papini, dando maramaldescamente addosso ai piccoli e prudenti filosofi, ai paurosi, agli impiegatizi, ai frigidi, ai filistei (e a Kant, il campione di tutti loro): “Voglion fare la filosofia meno filosofica che sia possibile […] smorta come una vergine invecchiata”. Con prosa baldanzosa e tonitruante, Papini invitava a ritrovare il coraggio e, con il coraggio, le seduzioni del mito, la ricchezza del contenuto fantastico, e una autentica poesia di concetti: “Perché volerla cacciare a forza nel confessionale della scienza?”, perché preferire i sillogismi alle leggende? 


Già, perché? Forse perché è vero: la filosofia non può essere mai interamente sobria, mai solo libresca, mai con indosso solo la modesta marsina del vecchio professore di Königsberg. Ma non può neppure assecondare l’impaziente ebbrezza del giovane Papini, ovunque essa porti – all’inferno o su colli fatali – e trarsi d’impaccio con uno sfrontato “non so che rispondere” quando gli si chiede: “Come?”, quando lo si invita, cioè, a quell’antico esercizio del “logon didonai”, del dare e rendere ragione, che Socrate portava in piazza, con tutta la pazienza e la determinazione necessaria. Se la metafisica è passione per il reale, essa è più di una mera inclinazione naturale piantata nel cuore dell’uomo, come invece voleva Kant, ma solo se, oltre a impiantarla nel bel mezzo della realtà, la si lascia crescere e sviluppare razionalmente, secondo un logos, in una commettitura di parole. E dove naufragheranno le parole, come inevitabilmente accade, lì si potrà almeno dire che optime navigavit.

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