facce dispari

Quell'"attore brillante" che ha rimesso in scena Gilberto Govi. Intervista a Tullio Solenghi

Francesco Palmieri

"Mentre il teatro di Eduardo ha una valenza anche senza di lui, la drammaturgia interpretata da Govi non avrebbe avuto uguale successo con un altro protagonista. Questione di umori, toni, musicalità dialettale, sicché mi sono detto: per restituirlo al pubblico non lo copio, lo clono"

Dice Wikipedia: “attore, comico, imitatore, conduttore televisivo, regista teatrale e doppiatore italiano”. Tanta roba, ma dovendo stringere Tullio Solenghi preferirebbe un sostantivo e un aggettivo: “attore brillante”. Bisogna aggiungerci: genovese. Al Teatro Stabile della sua città comincia, diciassettenne, l’avventura, e a Genova è tornato con una ispirazione artistica covata da tempo: rimettere in scena Gilberto Govi. Lo ha fatto in questa stagione con la commedia ‘Maneggi per maritare una figlia’; replicherà la prossima con ‘Pignasecca e Pignaverde’, e intanto è tornato a proporre lo spettacolo dedicato al collega concittadino Paolo Villaggio.

Due appuntamenti attendono Solenghi nei prossimi giorni: quello privato sono le nozze d’oro con Laura il 31 agosto; l’altro è la conduzione, per la ventunesima volta, del Premio Le Maschere del Teatro Italiano il 5 settembre al Teatro Argentina.

Quest’anno ci sono tre premi speciali: a Pierluigi Pizzi, a Daniela Bortignoni e uno internazionale intitolato a Maurizio Scaparro conferito all’autore spagnolo Juan Mayorga. È preparato all’evento?

Sono un veterano della conduzione a braccio e con qualche sfumatura di panico, sempre necessaria perché la nave arrivi in porto. Mi sento un maestro di cerimonie a casa propria perché sono felice quando si omaggia il teatro. In altri paesi, come la Francia, è molto più celebrato.

 

Esordì con Brecht, ma il grande pubblico la conosce più nei ruoli comici e per il Trio con Marchesini e Lopez.

Debuttai con Lina Volonghi e regia di Luigi Squarzina, ho recitato con nomi famosi, ma se fossi costretto a citarne uno solo direi Alberto Lionello. Un grande attore brillante, connotazione che non s’usa più ma con cui mi identifico. Quando recitavo in spettacoli drammatici, poi ne facevo la parodia nel foyer. Levità irrinunciabile. Al primo provino allo Stabile di Genova mi presentai con ‘A Silvia’, ma invece che “alla Gassman” la declamai con accento dialettale, perché suppongo che Leopardi leggesse le sue poesie con inflessione recanatese, ossia maceratese. Per mia fortuna Squarzina si sbellicò.

Lei è rinomato per le imitazioni. Quale la diverte di più?

Giampiero Mughini: mi c’immergo, un transfert spontaneo e affettuoso, difatti siamo molto amici.

Qual è il tratto della comicità genovese?

La sobrietà. Non è strillata, non si autorappresenta ma neanche va confusa con l’umorismo inglese. Un esempio: tempo fa, su via XX Settembre, a un signore cade un foglietto dalla tasca. Lo raccolgo e glielo porgo. Mi fa: ‘Vabbè la ringrazio, ma tanto l’avrei buttato’. Ribatto: ‘Poteva anche essere una banconota da 50 euro’. E lui: ‘Se mi cadevano 50 euro li avrei sentiti…’.

Una risposta alla Govi. Qual è stata la difficoltà di riportarlo in scena?

Mentre il teatro di Eduardo ha una valenza anche senza di lui, la drammaturgia interpretata da Govi non avrebbe avuto uguale successo con un altro protagonista. Questione di umori, toni, musicalità dialettale, sicché mi sono detto: per restituirlo al pubblico non lo copio, lo clono. Come si fa con una maschera, con Arlecchino. Il gradimento è stato straordinario anche oltre la Liguria.

La comprensione del dialetto ha importanza relativa?

Ho imparato da Lionello: quando rappresentammo ‘I due gemelli veneziani’ di Goldoni all’Old Vic, in sala c’era Laurence Olivier che dopo lo spettacolo si andò a complimentare con lui. In vari teatri esteri, dopo una ventina di minuti, il pubblico si toglieva le cuffie per la traduzione e rideva ugualmente.

Cos’è che il Trio Lopez-Marchesini-Solenghi non è riuscito a fare?

Il nostro sogno era una parodia della Bibbia, ma i tempi non lo permettevano. Beninteso, l’intenzione non era irridere la religione quanto giocare su un testo di cui tutti conoscono l’originale, come fu per ‘I promessi sposi’. Di questi tempi non rifarei piuttosto lo sketch sull’ayatollah Khomeini che irritò gli iraniani. Per una settimana fummo sotto scorta, poi per fortuna non se ne parlò più.

Non pensavate al cinema?

C’era un’idea con Cecchi Gori. Il film doveva intitolarsi ‘La cicogna strabica’: una coppia non può avere figli e invece che a una inseminazione ignota pensa al vicino di casa. Io e Anna Marchesini la coppia, Massimo il vicino. Una commedia attuale. Ettore Scola ci aiutò per la sceneggiatura. Purtroppo il progetto sfumò.

Come intercettavate i temi su cui imbastire i testi?

Non c’era una strategia. Sono sempre stato lettore di giornali, Anna di libri, Massimo invece completamente avulso. Tre gradi di intuizione che venivano rielaborati assieme. Perciò il nostro pubblico era trasversale per età e condizione. “Nazionalpopolare” per me non ha accezione negativa. È troppo facile fare programmi di nicchia.

Oggi la vostra comicità funzionerebbe?

Non so, era molto ragionata, ora sarebbe condizionata dai tempi del web, un mordi e fuggi con risata sul nanosecondo. C’è roba buona, c’è Zalone, ma nella media c’è un affollamento di comici che bisogna vedere se durano.

Più difficile emergere o durare?

Un tempo entrambi. Oggi emergere è più facile grazie alla rete, durare è complicato. Chissà quanti tra vent’anni faranno lo stesso mestiere.

Non usa i social?

Come un amanuense del dodicesimo secolo, ma ho una collaboratrice che cura l’account Instagram. Mi considero modestamente contemporaneo.

Cos’è stato il Trio?

Una mini compagnia. Perciò non ebbe un nome come La Smorfia o I Gufi, perché replicavamo la tradizione delle compagnie che si chiamavano coi cognomi dei capocomici. La mia natura torna sempre lì: al teatro.

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