Bazar nella capitale egiziana presumibilmente ai primi del '900 (Foto Getty)

Il ritratto

Fausta Cialente, infinito coloniale

Annamaria Guadagni

Gli anni avventurosi in Egitto. La vita da expat, le sue protagoniste così moderne. Dimenticate e oggi riscoperte

Trent’anni fa Fausta Cialente se ne andava in sordina a Pangbourne, in Gran Bretagna, dove aveva vissuto con la figlia Lili e con i nipoti. Entrare e uscire dall’oblio, essere dimenticata e poi riscoperta, è stata una delle sue specialità. Era una grande vecchia, nata nell’Ottocento come Karen Blixen, la scrittrice danese che aveva avuto una piantagione di caffè in Africa, ai piedi delle colline Ngong, e da quella esperienza aveva tratto un romanzo memorabile. Cialente era del 1898, più giovane di otto anni, ma aveva fatto in tempo a respirare la stessa aria: il disfacimento dei grandi imperi e gli ultimi bagliori della società coloniale, nel suo caso levantina, che aveva raccontato da un angolo visuale tutto suo, né romantico né mitico. 


Aveva una radice materna piantata a Trieste, nel cosmopolitismo austroungarico. Sua madre, la soprano Elsa Wieselberger, era cresciuta con le tre sorelle, figlie del direttore della Filarmonica, nel pittoresco disordine  di una città dove circolavano ebrei cacciati da Vienna, sloveni, croati e montenegrini, turchi e rumeli, ufficiali inglesi e re del cotone e dello zibibbo scesi dalle navi. Le ragazze Wieselberger avevano danzato con Ettore Schmitz senza sapere che sarebbe diventato Italo Svevo; e si ritrovarono tra le comparse nel suo famoso romanzo “La coscienza di Zeno”. Il signor Cialente era invece un ufficiale di fanteria abruzzese, uomo di difficile carattere e fedifrago a man bassa. Ai continui trasferimenti paterni si doveva la vita nomade della famiglia – Fausta era nata a Cagliari –  sempre in viaggio da una città all’altra, talvolta senza neppure lasciar finire ai figli l’anno scolastico. Il primogenito Renato rimase girovago da teatrante e fu uno dei migliori attori della sua generazione: morì a Roma nel 1943, dopo una rappresentazione dell’“Albergo dei poveri” di Gorkij al Teatro Argentina, investito da un’automobile delle SS lanciata a tutta velocità in una via del Corso semideserta

  

  
Quanto a lei, nel 1921 Fausta sposò a Fiume un uomo ricco e già padre di due figli, nati da un precedente matrimonio, e lo seguì ad Alessandria d’Egitto. Con Enrico Terni, musicista e compositore, ma anche dirigente di banca e agente di cambio ben inserito nella comunità ebraica alessandrina, si lasciò alle spalle la famiglia disfunzionale e sbarcò sulla “riva fatata”, dove dopo l’apertura del canale di Suez si erano trasferiti numerosi europei: ingegneri, uomini d’affari, commercianti, ebrei sfuggiti ai pogrom, e col tempo anche anarchici, comunisti e rifugiati di ogni genere…  Fausta Cialente rimase in Egitto ventisei anni: da agiata femme de lettres fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale, poi da militante antifascista, giornalista e voce di Radio Cairo. Ne nacquero i suoi romanzi coloniali: “Cortile a Cleopatra” (1936) e successivamente “Ballata levantina” (1961) e “Il vento sulla sabbia” (1972). 


Studi recenti di Francesca Rubini, e poi i saggi di Melania Mazzucco ed Emmanuela Carbé, e il libro di Maria Serena Palieri su Radio Cairo e l’avventurosa vita di Fausta Cialente in Egitto, hanno riacceso negli ultimi anni l’interesse attorno a lei, che è riapparsa. E ora quasi tutte le sue opere sono disponibili, ripubblicate da La Tartaruga e da Nottetempo, inclusi il romanzo d’esordio, “Natalia” (1930), un’audace storia di amore tra donne che incappò nella censura fascista, e “Un inverno freddissimo” (1966), con il racconto della vita durissima del Dopoguerra in una soffitta milanese, dove una donna provvede da sola a una complicata famiglia allargata. Le protagoniste dei libri di Cialente pensano con un anticipo di almeno vent’anni rispetto alla mentalità corrente, ma poi difficilmente riescono ad agire di conseguenza


In libreria, mancano ancora i racconti e il “Diario di guerra 1941-1947”, nove quaderni e più di 1.700 pagine che restano inedite e sono custodite da più di vent’anni al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Però, per chi ne ha voglia, davvero ce n’è abbastanza per regalarsi un tuffo estivo – se non l’avete mai fatto – nel mondo di questa scrittrice particolarissima: italiana – come diceva lei – forse soltanto per la lingua, che con la letteratura, la musica e le idee le ha fatto da patria in una vita da apolide.  Un buon percorso non può escludere il memoir “Le quattro ragazze Wieselberger” e i tre romanzi levantini, o almeno il più bello: “Cortile a Cleopatra”.

  
A guardare le fotografie, Fausta Cialente ha qualcosa della volpe. Non nel senso della furbizia o dell’astuzia, la sua è una ineffabile grazia volpina, bionda e appuntita, con gli occhi che scintillano d’intelligenza. Molti anni fa ho avuto occasione di incontrarla. Giulio Goria, allora direttore di Paese Sera, mi aveva  mandata a intervistarla in qualità di curatrice della memoria e delle carte di Sibilla Aleramo, che era stata sua amica. Cialente aveva allora settantotto anni e aveva vinto da poco il Premio Strega con  “Le quattro ragazze Wieselberger” (1976, ripubblicato da La Tartaruga). Mi ricevette nel giardino di un villino di Monteverde, a Roma; a me poco più che ventenne, nell’insicurezza spavalda dei ragazzi, sembrò vecchissima. Ma sapevo di parlare con una leggenda.

 
Non era per lo Strega, che aveva perso una volta per un solo voto con “Ballata levantina” – nel 1961 era arrivata seconda e il premio era andato a “Ferito a morte” di Raffaele La Capria – e che poi l’aveva tardivamente canonizzata, ma per la sua straordinaria storia. Era una che da bambina aveva imparato a guardare le cose da straniera in qualunque posto, un punto di vista quasi incomprensibile ai sedentari, e che poteva sempre andarsene senza lasciare traccia “con un senso di colpevole leggerezza”. Era dotata di inguaribile entusiasmo per la scoperta, sempre in viaggio verso un’altra terra, aveva imparato precocemente a vivere altrove, da expat: gente irregolare, con un motivo o almeno con un desiderio di fuga più o meno confessabile. Conosceva l’intima crudeltà della società coloniale e, col mondo in fiamme, aveva smesso di scrivere per arruolarsi nell’antifascismo internazionale, aveva collaborato con Noi Donne, il settimanale di cui ero allora una giovane redattrice… Essendo nata con la valigia e passata per l’Africa, avrei voluto chiederle, ma non lo feci: “Si guarisce? Prima o poi ci si radica da qualche parte?”. La sua generazione aveva creduto di potersi ancorare alle idee, la mia nemmeno quello, ma allora non l’avevo ancora scoperto.  

 

Il cortile di una casa al Cairo, Willem de Famars Testas, 1868 - 1881 
 
A queste inquietudini così presenti nel nostro mondo globale, Fausta Cialente ha risposto nei suoi libri, dove i protagonisti non arrivano mai a capire chi sono veramente e spesso si eclissano senza poterlo scoprire. E allora ecco il cortile di un povero caseggiato ai margini di una città trionfalmente segnata e poi dimenticata dalla Storia. Un bel ragazzo che seduce con naturalezza e poi fugge da vagabondo che non può legarsi a nulla, dorme sotto un fico, è figlio di un italiano e di una greca. Con questi ingredienti Fausta Cialente costruì “il più bel romanzo italiano degli anni Trenta”: così Melania Mazzucco nel saggio introduttivo alla nuova edizione di “Cortile a Cleopatra” riproposto da La Tartaruga. E non so se nella sua classifica ideale rientri “Gli indifferenti” di Moravia perché fu pubblicato nel 1929, ma certo siamo lì. Solo che allora – era 1936 – nessuno si accorse della forza e della modernità del libro di Cialente, che introduceva il mai visto in un romanzo italiano:  il “punto di vista mobile” e una figura di fanciullo “chiamato all’altrove come Rimbaud”, scrive ancora Mazzucco, “cresciuto da un uomo, senza madre, innamorato del padre e libero come una stella”.

 
Emilio Cecchi se ne accorse diciassette anni più tardi, nel 1953, quando il libro fu riproposto da Sansoni, ma allora il mondo di quel romanzo non esisteva già più. Cleopatra era stato uno scalcinato sobborgo di Alessandria d’Egitto dove abitavano artigiani e piccoli commercianti italiani e greci, ebrei, armeni e numerosi incroci di umanità mezzosangue simile a quella ribollente nei vicoli delle città mediterranee con un grande porto. Già qui c’è uno scarto: nessun esotismo di cartone, il mondo coloniale è visto dal basso. Gente povera e rissosa si affaccia intorno a quel cortile dove tutto ha inizio con una scimmia che, dall’alto di un albero, sorveglia il sonno del ragazzo e se ne sta “seduta come una donna, i gomiti sulle ginocchia”, finché lascia cadere un fico sulla testa del dormiente.

 
Il racconto del disfacimento della società coloniale borghese alla vigilia della Seconda guerra mondiale lo si trova invece in “Ballata levantina”, tornato da Nottetempo e che uscì dopo un silenzio durato ben venticinque anni. Anche qui c’è un adolescente in cerca di identità, che non può trovarsi: è una ragazza, un’orfana affidata alle cure della nonna cui le compagne di scuola della buona società alessandrina mettono in tasca caricature della vecchia signora, rugosa e cadente, mentre balla con l’ombelico dipinto di rosso. La nonna infatti era stata una famosa ballerina della Belle Époque, che non ce l’aveva fatta a farsi sposare dal suo ricco amante e a dare a sua figlia il cognome del padre. Era rimasta una ricca mantenuta con una bambina illegittima, in una società di caste etniche, in cui le donne solo con il matrimonio transitavano da una casta all’altra. E in cui i domestici – nel lessico coloniale, gli indigeni – erano ancora servi che godevano del privilegio anticamente riservato agli schiavi: la cura del corpo dei loro padroni.

  
“Ballata levantina” non così bello come “Cortile a Cleopatra”,  ma le prime cento pagine – in cui giganteggia la nonna con il suo mondo – sono di grande fascino. Su questo la critica fu quasi unanime, compreso Pietro Citati che, sul resto del romanzo, affondò la lama: “Il mondo moderno non le dice nulla: lo registra, lo racconta per un inutile scrupolo di fedeltà”. La modernità, nel romanzo, arriva con la trasformazione della ragazza orfana in una donna affrancata dall’obbligo matrimoniale; con i suoi viaggi in Italia da parente povera (la borghesia levantina tornava per le vacanze e le signore più ricche andavano a rifarsi il guardaroba a Parigi); con la sua formazione politica … Ora è la Storia a dettare i tempi: con l’avvento del fascismo e l’orrore di Guernica, con l’inizio della persecuzioni antisemite e la guerra in nord Africa. L’eco di quello che era successo intorno a Fausta dalla fine degli anni Trenta, il grande incendio che le aveva cambiato radicalmente la vita.  

 
Già alla fine degli anni Trenta il circolo culturale alessandrino di Enrico Terni e Fausta Cialente, l’Atelier, si era trasformato in un’aggregazione politica antifascista. Ma fu nel 1940 che Fausta fu reclutata dal colonnello C. J. M. Thornhill per diventare la voce italiana di Radio Cairo al servizio di sua maestà britannica. Si spese generosamente come altri intellettuali e scrittori che scelsero di battersi contro l’Asse, lo fece “con devozione triste e disinteressata”, e ogni sera parlava ai nostri soldati in nord Africa e agli italiani del sud. Fu in Palestina, allora ancora protettorato britannico, per mettere in piedi un’altra radio. Conobbe Freya Stark, che aveva compiuto spericolati viaggi in medio oriente già negli anni Venti; strinse amicizia con Laura Levi, che poi divenne una celebre etnologa, con Renato Mieli, futuro fondatore dell’agenzia Ansa, e con la sua prima moglie Isa Blattner. 


Era diventata comunista e lo rimase limpidamente. Dopo il 1943 lasciò Radio Cairo per fondare Fronte Unito, una rivista destinata agli italiani detenuti dagli inglesi nei campi di prigionia in Africa, India e medio oriente. E, per tornare alla domanda che avrei voluto farle da ragazza, non guarì. L’expat è una figura liminare, che resta sul bordo tra due o più mondi. L’innesto in Italia alla fine della guerra, dopo la separazione dal marito,  non riuscì. Negli anni Cinquanta Fausta Cialente continuò a scrivere per i giornali, poi tornò alla letteratura e alle traduzioni (Louisa May Alcott, Lawrence Durrell, Henry James). Non si integrò nella società letteraria e riprese a viaggiare con la figlia Lili, che aveva sposato un alto funzionario del British Council. Fu in Siria, in Iraq, nel Kuwait e visse la sua lunga vecchiaia tra l’Inghilterra e una villa sul lago di Varese, dove aveva cominciato ad andare con sua madre, l’ultima delle quattro sorelle Wieselberger.  

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