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Luoghi che cambiano la vita /4

Sognando l'Autostrada del Sole

Pierluigi Battista

I tempi eroici della Bianchina sulle statali a 70 all’ora, da Roma al Trentino. Poi l’invenzione che cambiò la villeggiatura

Continua con l’articolo di Pierluigi Battista la serie “Luoghi che cambiano la vita”. “Dal paese a Napoli, tutta un’altra vita”, di Ester Viola, è uscito sul Foglio di lunedì 8 luglio, “Il miracolo delle pietre nere”, di Giuseppe Sottile, sabato 3 agosto e “Sognare una vita nuova”, di Camillo Langone, lunedì 12 agosto.


  

Il luogo che mi ha cambiato la vita è stato l’Autostrada del Sole, addirittura prima che fosse inaugurata. Era, per un ragazzino nato nel 1955 in epoca immediatamente pre-boom, il miraggio di un’Italia percorribile con la macchina in tempi che non fossero disumani. Era il futuribile che stava per diventare presente. Il sogno di un viaggio da Roma al Trentino che non durasse due interi giorni (e due notti in alberghi di fortuna) stipati in una Fiat Bianchina (“Panoramica”, leggermente più spaziosa di quella di Fantozzi), con sopra montagne di bagagli e di bauli tenuti insieme da appositi ganci elasticizzati, che nel nostro lessico famigliare, non saprei altrove, venivano chiamati, per la loro conformazione ed estrema estensibilità, “ragni”.

“L’Autostrada è in costruzione”, esclamava mio padre con trepidazione, pronto a raggiungerci in Trentino ad agosto. Nei tempi eroici con una 1100 blu munita di cambio al volante com’era all’epoca e poi, ad Autostrada appena costruita, con una Taunus grigio topo che mi sembrava immensa e immensamente lussuosa, mentre noi eravamo partiti all’inizio di luglio con la prospettiva di tornare a fine settembre, perché allora, centralisticamente, le scuole cominciavano inesorabilmente il primo ottobre, e soltanto tre giorni dopo era già festa per merito di San Francesco. Non c’era ancora l’Autostrada del Sole, e nemmeno le regioni così come le conosciamo. C’era però la “villeggiatura” (tre mesi). C’eravamo noi, alla vigilia dell’Autostrada del Sole (e poi, a seguire, quella del Brennero). Mia madre al volante, accanto una ragazza che con molta fatica e un’immaginazione sfrenata potremmo chiamare “tata”. Sul sedile posteriore, costretti in uno spazio che oggi apparirebbe risibile pure in una Smart Forfour, io, cioè il terzogenito, la mia sorella maggiore e il mio fratello maggiore. Dietro, al posto del bagagliaio (ovviamente comunicante con il resto dell’abitacolo, altrimenti sarebbe stato infanticidio), segregata in una sia pur confortevole carrozzina, la mia sorellina all’inizio neonata e poi più grandicella, ma sempre segregata. Sul tetto una quantità esorbitante di bagagli, che praticamente, incolonnandosi verso l’alto, raddoppiava il volume dell’automobile. Era il viaggio pieno di incognite, quello che si poteva provare alla vigilia dell’Autostrada del Sole, il luogo che avrebbe cambiato la mia vita, l’evento che separava, mentre l’Italia viveva freneticamente il suo miracolo economico, un prima e un dopo.

Senza muovere le mani dal volante, afferrato con una fermezza così ferocemente determinata che ancora oggi non riesco a spiegarmi il perché, alla solita velocità di crociera di circa 70 chilometri orari per coprire i 650 che ci separavano dalla meta, di tanto in tanto mia madre, gli occhi puntati sullo specchietto retrovisore, dopo ore di viaggio, chiedeva a noi tre imperiosamente: “Guardate se la bambina respira”. Ci giravamo disciplinatamente, tre teste voltate all’indietro in perfetta sincronia a guardare la sorellina e in coro: “Sì, respira!”. Mi sono sempre chiesto cosa avrebbe fatto mia madre se avessimo risposto: “No, non respira!”. Anzi, una volta, molti anni dopo, glielo chiesi. “Mi sarei fermata”, fu la surreale risposta. In realtà non si fermava mai, nei viaggi più fantasticamente scomodi che abbia mai compiuto (ne avrei giovanilmente compiuti altri, ma con volontarietà para-fricchettona, quindi meno psichicamente onerosi).

 

 

Si partiva in piena notte, circa le quattro, ritirando dal garage vicino casa la Bianchina già onusta di ragni bloccanti. Partenza leggermente ritardata per abbracci e baci con il padre commosso (“ci vediamo tra un mesetto”), e poi via con l’anabasi. C’erano a bordo panini, borracce e thermos perché quasi non esistevano autogrill o similia (vedere il coevo “Il sorpasso” per credere) e le trattorie non erano fatte per i bambini. Se scappava la pipì te la dovevi “tenere” (questa era l’ingiunzione) fino al primo benzinaio sulle strade statali del Lazio, dell’Umbria, della Toscana, dell’Emilia su su fino al Trentino, benzinaio che allora chiamavamo confidenzialmente “Agip”: “deve esserci un Agip da queste parti”. Quando arrivava il caldo erano dolori veri, senza aria condizionata, in sei in un abitacolo minuscolo, a 70 all’ora, con il bollore che penetrava dai finestrini (soltanto due, davanti) e si infiltrava attraverso il deflettore, ossia, per i più giovani ignari, uno specchietto triangolare costruito nella parte anteriore del finestrino che oggi non esiste più e non ho mai capito che funzione avesse, a parte quella di gettare più agevolmente fuori la cenere (una volta però mio padre sbagliò mira e per via del vento un mozzicone ardente gli si infilò nella camicia facendolo ululare di dolore prima di trovare il modo per accostarsi e liberarsi del tizzone).

   

Alla minima pendenza i 70 chilometri orari della Bianchina diventavano 60 e forse 50. Sul Passo della Futa tra Firenze e Bologna, ossia la Prova Suprema, lo spauracchio del viaggiatore in èra pre autostradale, si crollava sui 40. Ricordo vividamente, mani incollate sul volante, la spinta dondolante e frenetica di mia madre (“andiamo, andiamo!”) per cercare di spronare la Bianchina sfiancata. Ricordo la nostra ansia che si trasmetteva fino a mia sorella segregata nella carrozzina con urla che erano la versione terrificante di un normale pianto infantile. Ricordo soprattutto i ruoli invertiti nell’eterna battaglia sulle corsie uniche in salita tra camion e automobili: di solito si diceva e si dice “oddio, c’è un camion davanti”, sulla Futa i camionisti dicevano: “oddio, c’è una Bianchina”. L’inizio della targa della macchina era Roma D10, e capisco bene che l’1 potesse sembrare una I maiuscola e lo zero una O maiuscola. E perciò ricordo il grido minaccioso di un camionista in sorpasso che blaterava “Roma DDDIIIOOO” con un’inflessione che conferiva all’esclamazione una certa, inequivocabile affinità con la bestemmia.

  

Mia madre non rispondeva mai agli improperi, perché era una donna refrattaria alla maleducazione in ogni sua forma. Una sola volta la ricordo un po’ stizzita perché, fatta tappa per la notte a Venezia, voleva lasciarci qualche ora con la tata per andare al Casinò, ma le nostre proteste glielo impedirono. Era una donna molto intraprendente e avventurosa, decisamente in contrasto con la sua professione di notaio (con la “o”, se usavi la “a” ti fulminava, donna immersa nel Novecento) che poi dovette abbandonare con l’arrivo del terzo figlio, che poi sarei io: me ne rammarico molto e detesto chi, maschio come me, rimpiange le famiglie numerose di una volta, dove tanto si sapeva chi avrebbe rinunciato al lavoro. Mia madre era anche molto creativa nell’esigere durante il viaggio la disciplina della tribù. Qualche volta era rozza e autoritaria, specie quando, esasperata, staccava una mano dal volante e faceva mulinare il braccio punitivo in direzione dei sedili posteriori da dove veniva un fracasso eccessivo, colpendo il primo bersaglio (la maggior parte delle volte innocente) che le capitasse a tiro. Altre volte era geniale. Per esempio dopo due giorni ininterrotti di viaggio si arrivava di notte sui tornanti del Trentino imboccati a 25 all’ora o poco più e noi eravamo esausti, prossimi alla rivolta. Ma ecco mia madre: “Silenzio che ci sono i terroristi altoatesini”. In quel tempo erano infatti all’offensiva i terroristi della banda Klotz che rivendicavano l’indipendenza del Sud Tirolo a suon di esplosivi piazzati sui tralicci. L’esortazione di mia madre ci rendeva muti all’istante e a ogni profilo di traliccio che si stagliava nelle tenebre il mutismo veniva alimentato da un terrore primitivo, arcaico, infantile appunto. Ma alla fine si arrivava in un posto stupendo della Val di Fiemme che si chiama Bellamonte, con una vista portentosa sulla catena delle Pale di San Martino, la meraviglia delle Dolomiti con la sua sagoma unica, speciale.

  

 

Ecco, finalmente la distanza, con una fatica superlativa a furia di spinte, e vasini dove vomitare se del caso, era stata colmata. Molto presto dovetti accorgermi che oltre alla distanza fisica si imponeva anche quella lessicale, antropologica in senso lato, perché eravamo al Nord e già si sentiva aria di ostilità per Roma ladrona e scansafatiche (vedere Gassman con Sordi nella “Grande guerra”, 1959). Una volta, quando nel cuore agonistico di una partita tra ragazzini mi venne da apostrofare positivamente un avversario che aveva fatto un prodigioso dribbling con un “ammazza che fijo de ‘na mignotta che sei”, il mio avversario mi si avventò contro, paonazzo in volto, minacciandomi di severe ritorsioni se, “romano di merda”, avessi ancora una volta osato insinuare qualcosa sull’irreprensibilità di sua madre. Dovetti faticare molto per scusarmi e per spiegargli che, con una certa inflessione e con modalità discorsive appropriate e in certi contesti amicali e confidenziali, quella esclamazione potesse suonare a Roma addirittura come un complimento. Alla fine diventammo amici, ma fu solo grazie all’Autostrada del Sole che imparai che il viaggio avrebbe potuto non essere la fatica massacrante di prima. E che si potesse arrivare alla meta più velocemente, più comodamente, con un sacco di Autogrill e di benzinai a proteggerti e a soccorrerti (consiglio uno straordinario libro di Enrico Menduni sull’importanza dell’Autostrada nel consolidarsi delle nuove abitudini degli italiani in marcia con la motorizzazione di massa, “L’Autostrada del Sole”, Il Mulino). Strade lineari, illuminate anche di notte, dritte, a due corsie. Certo, perdevi il gusto del piccolo borgo di provincia da attraversare con lentezza o il romantico attraversamento del Mincio, ma chissenefrega, diciamocelo, guadagnavi la possibilità di arrivare dovunque in un tempo decente.

L’Autostrada del Sole, e poi a seguire quella del Brennero, fece da spartiacque nella mia vita. Per me, da quel momento, l’importante era arrivare, il traguardo, e la vindice Autostrada me ne dava la possibilità. Da quel momento ho accolto con insofferenza e stizza tutti gli elogi della lentezza, gli inviti alla Bruce Chatwin all’irrequietezza del viaggiare, molto più elettrizzante, dicono, della meta raggiunta. No, per me, scottato da quella parodia on the road su una Bianchina panoramica, l’arrivo dell’Autostrada del sole suonò come una rivincita. Quella grande e benedetta opera che cambiò il profilo stesso dell’Italia fu come la scoperta del treno nell’epoca delle carrozze a cavallo. A me piace camminare, ma per andare a zonzo, senza una meta, per il solo gusto di passeggiare. Se invece ho una meta, se devo arrivare in qualche posto, allora lo spettro pre autostradale della Bianchina panoramica, della macchina a 25 all’ora sulle salite, dei camionisti del Passo della Futa che ti maledicono, mi spinge subito a guardare l’orologio, a controllare quanto manca. Se passeggio su un sentiero, posso starci anche ore. Ma se, come è avvenuto nelle mie estati giovanili in montagna, dovevo arrivare in qualche rifugio sul Pordoi, sul Catinaccio, sul Sella, nel giro delle Pale di San Martino di Castrozza, dovevo camminare veloce in salita, sfiancarmi, arrivare in cima, o quella che allora consideravo fosse la mia cima che poi, per effetto ottico o forse per stanchezza, più si avvicinava e più sembrava lontana. E anche oggi è così. Se il Frecciarossa da Milano a Roma si ferma a Bologna o a Firenze Santa Maria Novella non c’è problema, ne prendo un altro che arriva direttamente, che non mi fa perdere tempo, che non deve affrontare come una tormentata avventura il Passo della Futa che divideva come due mondi separati Firenze e Bologna, città che grazie all’Autostrada del Sole sono divise al massimo da un’oretta di viaggio.

  

   

O meglio: sarebbero. Non si può più dire: sono. Purtroppo. Code pazzesche, cantieri infiniti, incidenti e tamponamenti che si moltiplicano con il sempre crescente numero di veicoli e di mastodontici Tir che ne intasano il percorso facendoti sembrare braccato come in “Duel” di Spielberg, autogrill che sono diventati luoghi infernali nei periodi di vacanze, hanno snaturato l’Autostrada delle origini, la mia Autostrada, quella che mi consentiva finalmente di attraversare mezza Italia in un numero ragionevole di ore e non in due giorni di viaggio senza poter fare pipì tutte le volte che ti scappava, e alla fine con il terrore delle bombe sui tralicci. Ora preferisco il treno, anzi preferirei, perché anche lì oramai sono più le ore di attesa che quelle di viaggio effettivo. Idem per l’aereo, che oramai ho deciso di usare solo per i viaggi all’estero o per raggiungere (impresa sempre più difficile) la Sicilia o la Sardegna. Ma rimane il fatto, l’Evento esistenziale: il gigantesco ostacolo che nella mia infanzia sembrava insormontabile si è sbriciolato grazie a quell’invenzione geniale che è diventato il luogo della mia vita e ci ha dato la possibilità di unire due luoghi, quello di partenza e quello di arrivo, con una certa lineare uniformità (c’è chi dice che l’Autostrada sia un non-luogo: ma questo per me è il suo bello). Poi ci sono tornato per vedere com’era, questo benedetto e maledetto Passo della Futa, un dolce declivio che vivevo da bambino come fosse l’Everest da scalare. Un attimo di insana nostalgia. Ma poi mi sono affrettato: dovevo seguire le indicazioni per il casello autostradale più vicino.

  

 

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