Foto via archiviozeta.eu

Ombre tedesche

Viaggio al cimitero germanico della Futa, dove oggi vanno in scena Eschilo e Shakespeare

Cristina Marconi

A due passi da Firenzuola, in Toscana, il campo santo è stato trasformato in teatro dalla compagnia Archivio Zeta di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti: qui a parlare di guerra è lo stesso luogo, nel quale sono seppelliti i soldati caduti durante la Seconda guerra mondiale sulla Linea gotica

Verso la fine de La montagna incantata, quando al Berghof inizia ad aleggiare “una certa smania di risse”, nel sanatorio di Thomas Mann arriva un giovane bottegaio antisemita che si unisce con gusto al delirio collettivo, portando con sé la sua “giuliva fissazione” contro gli ebrei: si chiama Wiedemann, “cognome cristiano, non impuro”. Lo stesso di Helmut, ritrovato nel 2016 nei pressi del Monte Tronale e tra gli ultimi soldati tedeschi della Linea gotica a essere stati trasferiti nel cimitero militare germanico della Futa, a due passi da Firenzuola, spazio rimosso e grandemente unheimlich che delle ossessioni tedesche del Novecento rappresenta uno dei tragici punti d’atterraggio. Il soldato Wiedemann aveva 33 anni, il suo compagno di lapide 20, altri che dormono sulla collina appena 16.
  

Da più di vent’anni, la compagnia teatrale Archivio Zeta di Enrica Sangiovanni e Gianluca Guidotti usa la Futa come teatro naturale, lasciando parlare i luoghi e la tragedia che contengono per mettere in scena testi che, da Eschilo a Shakespeare a Karl Kraus, parlino di guerra ma non di quella guerra. “È un cimitero di giovani, come fossero un coro muto che dall’aldilà continua a parlarci e a impedirci di fare semplificazioni”, spiega Sangiovanni. Da ultimo hanno scelto proprio Mann, che manda il suo Hans Castorp, “schietto pupillo della vita”, a combattere e forse a morire, dopo “l’assordante scoppio dello sciagurato miscuglio di stupidità e irritazione, accumulato da molto tempo… un tuono storico, per dirla con attenuato rispetto, il quale scrollò le fondamenta della terra, per noi, invece, il tuono che spacca la montagna magica e mette bruscamente alla porta il dormiglione”.
 

Anche la montagna della Futa ha al suo centro una spaccatura. Il luogo di sepoltura di 30.683 soldati tedeschi, tra cui un pugno di austriaci, morti tra il 1944 e il 1945 è composto da una spirale di arenaria scura sormontata da una cupa pinna, o ala, o lama che dir si voglia, di pietra con intarsi marmorei altrettanto cinerei. Una costruzione che, nella sua trattenuta maestosità, invece di alzarsi verso il cielo porta i tratti dell’implosione, dell’affondamento.
 

Il lavoro è di Dieter Österlen, uno degli architetti più attivi nella ricostruzione della Germania e esponente di spicco di quella generazione che rifiutò di rimettere insieme i cocci del paese com’era, puntando su ricostruzioni che sapessero di memoria e di futuro. Per il Soldatenfriedhof Futa Pass il suo fu l’unico progetto, presentato nel 1960 e subito accettato. L’esperienza postbellica – di quella precedente preferiva non parlare – aveva insegnato a Österlen come dare solennità ai luoghi tenendoli saldamente al di qua di qualunque slancio celebrativo. In questo caso la diplomazia delle linee doveva permettere di aprire un varco in una zona, a pochi chilometri dal Monte Sole, che aveva sofferto in maniera atroce il passaggio dei soldati e l’applicazione minuziosa del diktat hitleriano secondo cui “dobbiamo essere crudeli, dobbiamo esserlo con tranquilla coscienza”.
  

    

Il problema del corpo del nemico esisteva da dieci anni. I caduti tedeschi in Italia erano stati 107.654, disseminati in quattromila luoghi di fortuna, spesso tenuti male, o in sepolture comunque sottoposte alle leggi locali, con rotazioni ogni 10 o 12 anni. Esistevano già cimiteri più organizzati, come quello di Cervia con le sue settemila tombe, che però dovevano fare spazio alla vocazione balneare, turistica e spensierata che la riviera romagnola stava inseguendo in quegli anni di boom. La guerra era una memoria viva e il nemico qualcuno da dimenticare e le sue spoglie mortali una questione da affidare al massimo a narrazioni edificanti. Una figura che aveva suscitato molta curiosità sia in Italia che all’estero è quella di una fruttivendola cinquantenne di Cava dei Tirreni, Lucia Pisapia in Apicella, che spinta da ideali cattolici e di carità e, pare, ispirata da un sogno in cui otto soldati tedeschi l’avevano implorata di riportarli a casa, si era messa a raccogliere i resti, le targhette, le ossa e gli averi dei giovanotti che fino a poco prima aveva visto marciare minacciosi, con uno sprezzo del pericolo su più livelli: c’erano mine e bombe inesplose, i corpi erano in condizioni pessime, i rischi sanitari enormi. Però lei, indefessa, era andata avanti al grido di Song’ tutt’ figl’ e mamma, fino a diventare una figura amatissima e riverita in Germania, dove la chiamavano Mamma Lucia o Mutter der Toten, “la madre dei morti”. Pio XII la ricevette in Vaticano e quando fu lei ad andarsene, novantacinquenne, dopo aver raccolto 700 resti di soldati di tutte le nazionalità, talvolta in scatolette di zinco, Sandro Pertini riconobbe la perdita di un simbolo di amore e di solidarietà, “valori fondamentali per l’edificazione dell’uomo”.
 

Ma non bastava certo. Nel dicembre del 1955, finalmente, era stato firmato a Bonn un accordo che poneva le basi per una soluzione più strutturata, dando spazio alla possibilità di costruire cimiteri o sacrari per i caduti. Già dopo la Grande guerra, la questione dei morti tedeschi era stata gestita dalla Volksbund Deutsche Kriegsgräberfürsorge, VdK per brevità, equivalente tedesco e privato – lavora con le donazioni, oltre che con le sovvenzioni statali – al nostro Onorcaduti. Dal 1919, con il sostegno dei pacifisti, si era occupata di dare alle numerose vittime una sepoltura considerata degna secondo i parametri di una cultura che ritiene massificante la sepoltura in cripta e contempla come ideale quello del bosco sacro degli eroi. Per anni VdK ha avuto il volto dell’energico architetto progettista Robert Tischler, che si occupò della progettazione di una serie di memoriali per i caduti della Prima guerra mondiale, sviluppando poi, secondo la moda dei tempi negli anni Trenta hitleriani, memoriali di stampo trionfalistico, i cosiddetti Totenburg, come quello del Pordoi e quello di Quero. Hitler e il suo architetto Albert Speer avevano dei progetti per i caduti tedeschi: scolpire i loro nomi nell’arco di trionfo della Nuova Berlino. Allontanarsi da questo ideale diventa quindi cruciale nel secondo dopoguerra. Anziano, stimato ma troppo legato al nazismo e alla sua estetica, Tischler non era più un interlocutore accettabile. Con un’umiltà diversa rispetto al passato, fece solo due richieste, ossia che i cimiteri fossero lontani dai centri abitati, forse per limitare gli atti di vandalismo, e che ci fosse un rapporto con la natura, con materiali legati al territorio e una oculata scelta della vegetazione da inserire.
 

Per questi memoriali in sordina, di bassissimo profilo, erano stati individuati alcuni luoghi in tutta Italia come Motta Sant’Anastasia, Cassino, Pomezia, Costermano sul Garda, ma restava da cercare una soluzione per i tanti soldati della fascia centrale, la Linea gotica, dove il fronte si fermò per quasi un inverno. Non era facile. Si discusse a lungo, la memoria delle 1830 vittime di Marzabotto era troppo fresca, a Bologna anche la Chiesa si rifiutò di fare spazio al corpo del nemico. Alla fine si scelse la Futa, a due passi da Monte Sole, a un’altitudine di mille metri, lontano da tutto, di proprietà privata. La morte di Tischler, nel 1959, facilitò le cose, e con la promessa di non erigere un Totenburg, un castello della memoria, e con l’accordo dell’Onorcaduti, si diede il via libera al progetto, di difficile realizzazione per le condizioni del terreno: c’erano le mine, pioveva, nevicava. Era il 1963, la costruzione durò sei anni.
 

Il cimitero voluto da Österlen è abbracciato da un muro alto un metro e 80 che, dal cancello d’ingresso, si snoda intorno alla montagna per due chilometri salendo verso il centro e il suo pinnacolo di 16 metri. Il muro di arenaria locale, scura, è rischiarato dal verde acceso dei licheni e ha preso il colore della natura, quasi potesse a un certo punto venirne riassorbito. I terrazzamenti sono cinque, i campi di sepoltura 72 e le lapidi 15 mila: ognuna ha nome e cognome, date di nascita e di morte e ruolo del defunto, in tedesco. Su qualcuna ci sono fiori di plastica, omaggi di longevità sintetica e sentimentalismo stridente. Le croci sono poche, disseminate lungo il muro, emergono dalla pietra senza trionfalismi, ma per salire ci sono anche tre percorsi di scale, in verticale, che si arrampicano verso il pennone sotto cui c’è una cripta scura con dentro una corona di spine d’acciaio. Alcuni specchi d’acqua rotonda per l’acqua piovana sono circondati da antiestetiche ringhiere di sicurezza che Österlen difficilmente avrebbe approvato. È arioso e terso, di una violenza domata, e solo il piccolo ingresso con le foto e le notizie riporta la dimensione umana, che subito risveglia la paura che l’esemplare equilibrio del cimitero si incrini, lasciando trapelare qualcosa che a questo luogo è proibito suscitare: la nostalgia.

   
  

L’apertura del cimitero della Futa, sebbene fosse il più grande d’Italia, ebbe pochissima eco, come fosse finita al centro di una rimozione collettiva. All’inaugurazione, il 28 giugno del 1969, non venne nessun ministro, c’erano solo l’ambasciatore tedesco, il console, il rappresentante presso la Santa Sede, un esponente della Dc, Giuseppe Vedovato, e il sindaco di Firenzuola. Era un anno teso in Italia e la “ritirata aggressiva” tedesca, anche a distanza di un quarto di secolo, se la ricordavano tutti. Solo la Nazione di Firenze mandò qualcuno a raccontare delle “varie migliaia di congiunti” che “sono arrivati dalla Germania federale, vecchie madri ancora piangenti sotto un tragico temporale”, dello snodarsi di una lunga fila di pullman sotto un freddo gelido inusuale per la stagione, accolti da un atteggiamento freddo della popolazione locale, che però, vedendo questa processione di genitori ormai anziani e ingobbiti, si ammorbidì un po’. “I cimiteri di guerra sono i grandi predicatori della pace”, recita una frase di Albert Schweitzer all’ingresso del cimitero. E così è stato.
 

Negli anni Settanta e Ottanta è un fiorire di viaggi organizzati dalla Germania, di pellegrinaggi e altre iniziative per andare a salutare un giovane parente morto ma anche visitare gli ultimi luoghi in cui era stato vivo. Si contavano anche 400 mila visitatori all’anno, qualcuno pure prima che il cimitero fosse completato, durante l’estate i ragazzi vengono mandati a fare lavoretti di manutenzione nell’ambito di progetti come “Lavoro per la Pace, riconciliazione sulle tombe”, questo pezzo di Germania tra Firenze e Bologna era una tappa frequente nelle vacanze italiane. Nel libro degli ospiti qualcuno lascia commenti ambigui, ma la Futa non segue il destino di altri luoghi di sepoltura, non diventa un sacrario per nostalgici. A differenza di Costermano dove sono sepolti i gerarchi e criminali nazisti i cui nomi erano presenti anche nei libri d’onore collocati nel cimitero, con tanto di grado, qui riposano per lo più soldati semplici. Alla Futa una scritta proibisce di portare “simboli anticostituzionali” e nella versione italiana qualcuno ha cancellato la parola, senza sforzarsi di cercare l’equivalente tedesco. Un piccolo sfregio lasciato intatto.
 

Con gli anni il numero di visitatori scende, mentre aumentano i tedeschi che vanno sulla Futa spinti da altro, da un desiderio di capire meglio la tormentata storia nazionale recente. Nora Krug, celebrata autrice di graphic novel, nel suo bellissimo “Heimat” racconta di un viaggio di famiglia in Italia, tra mare e gelati, e di quella fermata alla Futa, con il padre che si avventura assorto tra le lapidi e, quando la figlia gli chiede che cosa stia facendo, risponde: “Cerco mio fratello”. Oggi si trovano turisti locali, in piccoli gruppi o con la famiglia, il VdK continua ad organizzare viaggi, ad aiutare chi vuole partire e soprattutto a raccontare i ritrovamenti, che continuano come dimostra il caso di Helmut Wiedemann. Il fatto che sia una delle tappe della Via degli Dei, la Firenze-Bologna a piedi, insieme all’attività di Archivio Zeta, ha rimesso la Futa sulla mappa.
 

“Rifuggiamo l’idea della splendida cornice, si viene qui per un rito culturale, per fare dei ragionamenti”, spiega Enrica Sangiovanni, sottolineando come le lapidi di ragazzi non permettano divagazioni né abbellimenti, né moralismi facili. Il VdK ha dato loro il via libera, ma vogliono essere rassicurati sui contenuti, devono gestire sensibilità disparate. L’impressionante versione della “Montagna incantata” messa in scena da Archivio Zeta suddivide l’opera in tre parti. Le prime due sono state rappresentate all’Ospedale Ortopedico Rizzoli di Bologna, nuova location della compagnia, il sanatorio-mondo che il protagonista Castorp lascia dopo sette anni per tornare nei grandi scenari del mondo impazzito. “È la pianura, è la guerra. E noi siamo timide ombre lungo la via, vergognose nell’ombra, al sicuro, senza nessuna voglia di vanterie e spacconate, condotti qua dallo spirito del racconto per cercare tra i grigi camerati che escono a frotte dal bosco, correndo, cadendo, incalzati dal rullo del tamburo, uno che conosciamo, il compagno di viaggio di tanti annetti, il bonario peccatore, del quale tante volte abbiamo udito la voce, e guardarlo ancora una volta nel viso schietto, prima di perderlo di vista”, scrive Mann. E dopo il tuono, e il frastuono realissimo delle cose, si resta a contemplare questo cimitero in altura, una spirale nera che sale e non va da nessuna parte, torna nella terra, trascinando con sé i Castorp di questo mondo.

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