Samuel Beckett (foto Ansa)

Catalogo dell'ira d'autore

Marco Archetti

Scrittori malpagati che sfogano manie di persecuzione, sospetti e risentimenti. Geni della letteratura che diventano odiatori seriali. Ogni epistolario è un capitolo della lagnanza  in tutte le sue forme

E meno male che odiava scrivere lettere. Nessun dubbio: lo scettro dell’incoerenza spetterebbe a Fëdor Dostoevskij, se solo Samuel Beckett non fosse il più grande scrittore (anche) di carteggi di tutto il Novecento e non lo surclassasse in cifre e contraddizioni: sessant’anni di dichiarato fastidio nello scriverle e quindicimila tra le sole reperite. Grandi numeri per entrambi, insomma – missive contenenti di tutto, letteratura, improperi, lamentele, strali. Per entrambi, dichiarata avversione alla sola idea di prendere la penna in mano.
Ma non tutti gli epistolari si costituiscono sulla negazione di sé stessi. Di solito, sulla negazione degli interlocutori. Perfino le lettere sentimentali dimostrano che ogni carteggio è un soliloquio. Pensiamo a quello tra Gabriele D’Annunzio e Eleonora Duse o a Ugo Foscolo quando scrive ad Antonietta Fagnani Arese, bella dama sposata con cui intrattenne una relazione tra il 1801 e il 1803 – è lei l’amica risanata, e pur vivendo nella stessa città la inonda di lettere. “Nel mio misero stato io non ho altro conforto che la tua vista; e quest’unico conforto m’è ancora rapito. Che inferno stasera! Io mi son prefisso di non turbare né i tuoi riguardi domestici, né la tua pace; e sfuggo di vederti quando Cecco è con te… e quando mai non è con te? Tu mi piangeresti se potessi immaginare quanto è doloroso per me questo sacrificio”.

“Non ammetto di far per lettera quelle confidenze che mai farei a voce”, ammetteva Alberto Moravia, in un carteggio col promettente titolo “Se questa è la giovinezza vorrei che finisse presto”, ribadendo implicitamente la prevalenza del mezzo sul destinatario. E quanto la lettera sia uno spazio autoriflesso. Chi scrive una lettera, a chi scrive? Non certo a colui al quale la invia. Spigolando gli epistolari più noti è evidente come per molti scrittori scrivere lettere sia un fatto personale, un modo per trasformare in concretissimi furori quelli astratti che non sempre hanno un nome; oddio, spesso ce l’hanno, e anche un cognome: Dostoevskij, per esempio, detestava Ivan Turgenev e una pletora di altri colleghi, colpevoli di essere pagati più di lui. Molto spesso il destinatario è uno specchio. Il 12 dicembre 1872 Friedrich Nietzsche scriveva all’amico Carl von Gersdorff: “Se ci ho messo tanto a risponderti, dipende da una cosa che volevo aspettare: mandarti la mia fotografia. La notte prima fui spaventato da un gran fuoco, e ho anche aiutato a spegnerlo per qualche ora. Si noterà dalla fotografia che la notte prima non avevo dormito”. Oppure è l’occasione per formalizzare propositi e affermare la propria devozione all’arte, come per Flaubert, che rampognava Maupassant appellandosi alla necessità di avere dei princìpi e ricordandogli che la Musa era l’unica ragazza che dovesse frequentare. Lo ammoniva: “State attento alla tristezza, è un vizio”. Qualche giorno dopo, proprio a Turgenev: “Sono pieno di feretri come un vecchio cimitero, ne ho abbastanza!”. Quasi sempre, in forza del silenzio del suo ascolto, una lettera è occasione per dettagliatissime autodiagnosi: di Anton Cechov, attraverso le lettere a Ol’ga Knipper, sappiamo tutto, dalle emorroidi ai polmoni (ma lui, al minimo borbottio della donna, spazientito rispondeva: “Perché brontoli sempre, vecchietta!”). Spesso, la lettera, data la sua natura – ogni corrispondenza è fatta da monologhi differiti –, offre a chi scrive un formidabile trampolino per sfoghi impetuosi, epici strali e aspre invettive. 

Lamentodromo e grande cerimonia querimoniale, ogni epistolario è un capitolo della lagnanza d’autore in tutte le sue forme: contro di sé per fannulleggiamento o contro il mondo colpevole di non comprendere; contro gli altri scrittori imbecilli e borghesi (“borghese è chi non ha le mie idee”, scriveva Jules Renard); contro la sorte e contro il passato; contro Gesù e contro Barabba. Rivolgendosi a Andrea Caffi, su carta intestata hotel Sulden-Solda, Alberto Moravia nel 1927 cantilenava: “Felice di fuggire da Roma e tutta la deplorevole psicologia di laggiù e già infelice al pensiero di dovervi ritornare. Le dirò che poco tempo fa avevo deciso di abbandonare dopo la pubblicazione del mio romanzo la letteratura e di decidermi a qualche occupazione meno artistica – quello che mi spaventava era soprattutto l’intellettualismo e gli intellettuali”.

Scrittori che si lamentano, che (se la) cantano ad alta voce, cercando un acuto che, una volta lanciato, li identifichi. Un principium individuationis sulle ali del reclamo universale: prendono carta e penna e, quanto più lo fanno, tanto più ribadiscono che non vorrebbero.

Ma prima di cimentarci nelle citazioni, invochiamo Madame de Sévigné. Più di mille le lettere scritte, chi meglio di lei può essere la santa patrona di tutti i mittenti? E partiamo da un fuoriclasse, Fëdor Dostoevskij. Che non indietreggia mai e lo ricorda costantemente all’interlocutore: caro amico ti scrivo, ma non mi distraggo nemmeno un po’ dal fatto che non vorrei farlo. “Caro Miša”, scrive al fratello il 13 gennaio 1856, “mi limito a questo unico foglietto”. Seguono nove facciate senza andare a capo. Lettera che esordisce con una paternale in piena regola, tutta epistolocentrica: “Bisogna ammettere che l’anno scorso non hai risposto quasi niente, non hai risposto nemmeno ad alcune mie domande da cui aspettavo da te una risposta dettagliata. Non so cosa ti abbia trattenuto: gli impegni? Eppure non esistono impegni tali da non avere un minuto libero”. Oppresso da angosce e dalla necessità di esprimerle, anche quando ringrazia non ringrazia. “Vi ringrazio, mio inestimabile amico, per avermi aiutato”, scrive a A. E. Wrangel nel settembre del 1865 da Wiesbaden. “Tuttavia i vostri cento talleri mi sono stati d’aiuto molto relativamente. (...) Questi dieci giorni li passerò in uno stato febbrile. Ho scritto a Katkov chiedendogli 300 rubli in anticipo. La cosa che sto scrivendo ora è la migliore che abbia mai scritto, se mi daranno il tempo di finirla. Oh amico mio! Non potete credere quanto sia tormentoso scrivere su commissione. Ma cosa devo fare? Ho un debito di 15.000 rubli”. Debiti, debiti, debiti: togli quelli e l’epistolario di Dostoevskij avrebbe una foliazione amélienothombiana. “Appena arrivato a Pietroburgo un mese e mezzo fa ho ricevuto un vostro versamento”, si giustifica, nel 1865, con I.L. Janyšev della rivista Russkij vestnik. “Speravo di andare a Mosca due settimane e lì ricevere altro denaro, ma poiché, arrivato a Pietroburgo, ho visto gli orfani di mio fratello vivere in una condizione di enorme povertà, ho disposto dei vostri soldi contando sul denaro che avrei ricevuto a Mosca. Mi sono messo a scrivere di fretta e con gran foga, e sono ripresi gli attacchi. Quattro attacchi in un mese e mezzo e sto ancora male”. Le lettere di Dostoevskij sono un monumento alla lamentela elevata a genere letterario. Pullulano di considerazioni amare, trafitte da sospiri e punti esclamativi. Rigurgitano di considerazioni involontariamente comiche (“Perdonate l’incoerenza di questa lettera, ma del resto in una lettera non si riesce mai a scrivere niente”, dice a un editore dopo sette facciate scritte fitte) e imperversano asserzioni tragiche tipo “il mio destino è lavorare per soldi, nel senso più imbarazzante della parola”, come annota in un post scriptum nel 1858. Le allusioni ferali sono il suo mestiere (“non so cosa sarà di me nei prossimi tre mesi”) e i propositi deliranti il suo pane (“voglio scrivere in quattro mesi 30 fogli per due romanzi diversi: uno lo scriverò la mattina e l’altro la sera”). Abbondano anche le mitomanie, tra maldicenza e melodramma: “Sono convinto che non ve ne sia uno tra i letterati che sono esistiti e che ancora vivono, che abbiano scritto nelle condizioni in cui scrivo io costantemente; Turgenev ne morirebbe al solo pensiero”. Numerosi i cazziatoni al figlio Pavel, che lo tenne tutta la vita sulla corda: “Ti penso e sono così in apprensione che non so dove mettere le mani. Avveleni la mia vita con la tua disobbedienza e mi impedisci di vivere. Tu te ne infischi della mia angoscia”. Di lettera in lettera, ci si imbatte in istruzioni strazianti. “Per prima cosa bisogna riscattare l’orologio, poi pagare l’hotel, poi il viaggio”, farnetica da Hombourg nei terribili giorni del maggio 1867, quando la fortuna al tavolo da gioco arrideva sempre a qualcun altro e lui vagava disperato per le vie della città aspettando riaprisse il Casino per recuperare ciò che aveva perso il giorno prima, e ovviamente non succedeva mai. Arrivò a promettere alla moglie Anna di tornare, ma solo dopo aver sperimentato un metodo infallibile che aveva messo a punto. Il metodo era: “Se si gioca con sangue freddo, con calma e calcolo, non c’è alcuna possibilità di perdere. Mandami subito, non appena riceverai questa lettera, 20 imperiali. Liberami da questo supplizio, mandameli al più presto”.

Di diverso tenore l’epistolario di Samuel Beckett pubblicato in due saporiti tomoni da Adelphi. Di squisita altezza letteraria e non meno interessante per la ricostruzione delle sue furenti idiosincrasie, lo scrittore non imponeva l’attesa di Godot a chi corrispondeva con lui, anzi, era sollecito e puntuale. Si profondeva spesso su quando fosse oneroso scrivere e tuttavia lo faceva con precisione e scrupolo, in tre o quattro lingue e con una pessima calligrafia – curiosità: propose un saggio proprio su Dostoevskij a Charles Prentice, editore di Chatto & Vindus, che mai vedrà la luce. E’ proprio nei giudizi sugli scrittori che raggiunge grandi vette di sarcasmo e lamentela. “L’origine della specie di Darwin è una sbobba scritta male”. Ribattezzò ‘Punto contro Punto’ di Aldous Huxley “Peto contro peto”. Nessuna tenerezza verso Proust, di cui pure si occupò. “Contemplare le sue sedute al cesso per sedici volumi” non era proprio il massimo. La sua scrittura? Il “lacrimoso gloglottio con dentiera di un ventre colicoso che evacua”. Spietato anche con Balzac: “Le sue cadute di stile e di tono sono tali che mi domando se scriva sul serio o stia facendo una parodia.” Qualche giorno dopo: “Ho terminato ‘La cugina Bette’, incomprensibilmente”. Ai suoi destinatari dichiara senza mezzi termini: “Perdona e dimentica questa lettera pestilenziale, mi sento svuotato.” Ma quando divaga è sempre capolavoro: “Mi sentirò una fricatrice, una vera fricatrice in bicicletta, piatta come un’asse da stiro che pedala sempre più svelta per salvarsi la morte, bocca socchiusa e narici dilatate.” Oppure: “Parigi mi fa venire le convulsioni ed è l’ultimo posto al mondo dove voglio andare. Non ho idea di quando me ne andrò o se lo farò mai. Detto niente a Ruddy – l’antica viltà di tenere la mano lontana dal futuro. Troppo stanco o troppo povero di palle o di qualunque altra cosa per dare una destinazione al vecchio cadavere, comprare il biglietto e fare i bagagli”.

In una lettera del 1931, al poeta Thomas McGreevy, dando forma a un omerico malumore, scrive: “Non ho fatto niente, a parte zittirmi il cuore a suon di sbronze e traversare al galoppo l’Odissea di Bérard. Domenica dublinese più implacabile del solito. Foschia e pioggia e campane e astinenza alcolica. Perlorson dice di capire Rimbaud che scriveva poesie camminando. Ma in me, quando cammino, la mente ha un’andatura claudicante, è un carrefour di ricordi, ricordi d’infanzia per lo più, moulin à larmes. Ma tutto gocciola. Non c’è niente da fare e nessuno cui fare visita. Non riesco a scrivere niente, proprio niente, nemmeno a concepire la forma di una frase o prendere appunti né a capire le cose che leggo. Speravo di andare via per Natale ma insomma, con la sterlina e i debitucci non lo credo fattibile. Sarò reincaricato per due anni e mi adagerò nell’incompetenza professorale”.
A Georges Duthuit, scrittore e critico d’arte, nell’agosto del 1948 elargisce un’indimenticabile e malmostosissima recensione. “Di ritorno a casa dopo un’esposizione di arte viva: Manet una crosta, Derain inconcepibile, Renoir un vomito, Matisse consì consà...”. E qualche giorno dopo: “Io sono soltanto la minima parte di un essere, vestigia che si odiano, resti di una voglia antica, quando ero piccolo, di diventare un cerchio perfetto.” Infine uno spiraglio sull’interlocutore, ineluttabile riflesso. “Lei non mi disprezzerà, io la scioccherò spesso ma lei sarà con me. Di amici ne ho altri sì, ma un solo Georges Duthuit. Lo sento. Lo so”.

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