Gianluca Terranova nei panni di Enrico Caruso (foto ANSA)

Lirica

Una “Bohème” for dummies: un formato ridotto per la generazione TikTok

Alberto Mattioli

In arrivo un esperimento che comprime l'opera di Puccini per renderla più fruibile ai nativi digitali: non una dissacrazione della lirica, piuttosto un tentativo (sui generis) di diffonderne la bellezza fra coloro che la evitano per noia o timore. Un modo per umanizzare l'arte, ed esaltarne la viva importanza

Siamo alle solite: qualcuno in Italia fa qualcosa di curioso, se ne accorge un giornale straniero, la notizia rimbalza e diventa subito una bella polemica estiva. In questo caso, il qualcuno è il tenore Gianluca Terranova, noto soprattutto per aver impersonato Caruso in una fiction televisiva, e il qualcosa è la sua iniziativa “Operacorto”, le opere liriche tagliate e rimpicciolite per renderle appetibili, o almeno digeribili, ai mitici “gggiovani”, la cui soglia d’attenzione, com’è noto, non supera i dieci minuti. In particolare, Terranova ha deciso di sezionare La Bohème, ridotta da due ore e 40 a circa 90 minuti, insomma a livello di “TikTok attention”. E qui subentra l’inglese perché chi ne ha scritto è Philip Willan sul Times. Naturalmente, bisognerebbe aspettare il debutto, il 13 settembre al Morlacchi di Perugia, ma intanto se ne parla. Terranova anticipa che per legare insieme gli scampoli di Bohème userà un narratore, anzi una narratrice, visto che si tratta di Musetta. Poi spiega che agli ascoltatori interessa passare da una romanza popolare all’altra “with a minimum of delay”, che i tempi moderni sono frenetici e incompatibili con quelli dilatati della lirica e che o hai avuto un nonno che te l’ha spiegata da piccino o se ti accosti da grandicello non ti ci raccapezzi. Insomma, a parte “quando cantano non si capiscono le parole”, i luoghi comuni sull’opera ci sono tutti. 


Il collega del Times ha chiesto un parere anche all’indegno sottoscritto, che non si scandalizza per niente, figuriamoci per il Puccini for dummies. E poi i bignamini al liceo li abbiamo usati tutti, nei paesi anglosassoni si pubblicano “letture facilitate” dei classici (anche Agatha Christie, occhio, non I fratelli Karamazov) e anni fa ascoltai alla Bbc non ricordo quale mammasantissima del teatro britannico spiegare che bisogna tradurre Shakespeare in inglese corrente, altrimenti il pubblico non capisce più le parole. I ritmi del teatro classico, parlato o cantato non importano, sembrano in effetti troppo dilatati per chi è abituato alla narrazione convulsa modello videoclip o videogioco. Insomma, non è il pubblico che deve innalzarsi al capolavoro, ma il capolavoro abbassarsi al pubblico più cheap (curioso però che si inizi con Puccini, autore immediato – benché raffinatissimo, e cinico – se ce n’è uno e tutt’altro che prolisso: con Wagner che facciamo, allora?). E’ la stessa logica di chi vuole al potere “uno di noi” e non, magari, qualcuno meglio di noi, come alla fine erano, poniamo, Camillo di Cavour o Alcide De Gasperi, e con risultati, direi, non disprezzabili. 


Lasciamo perdere il fatto che, se c’è un’opera perfetta, è appunto Bohème, dove non c’è una nota da aggiungere o da togliere. Il vero problema non è cosa si fa, ma come. Se porto un normale ventenne a vedere uno spettacolo tuttora venerato dalle care salme come un classico paradigmatico, quello di Zeffirelli tuttora ostenso alla Scala, e interpretato dai soliti panzoni che fanno le solite scemenze senza senso dei cantanti d’opera, il quidam si darà alla macchia, e giustamente. Se lo porto a vedere la produzione di sir Graham Vick, che Dio l’abbia in gloria, dove la bohème della jeunesse parigina del 1830 diventa quella della generazione Erasmus di oggi, tutto uguale, ma con gli abiti e le mosse e l’aspetto dei giovani veri, capirà subito che quelle storie e quella musica non sono un reperto museale di una civiltà estinta, ma la carne e il sangue di cui siamo fatti. E che il teatro, da duemila e cinquecento anni, è lo specchio ustorio che ci racconta per come siamo, senza infingimenti né scappatoie. Infatti alla fine di quella Bohème del Comunale di Bologna, la più infedelmente fedele che io abbia mai visto, la ragazza ventenne o giù di lì seduta accanto a me, al suo primo Puccini, capì che si parlava di lei, di noi, e scoppiò in un pianto clamoroso e liberatorio, sfrenato e dolcissimo. Dando una volta di più ragione al vecchio Gianandrea Gavazzeni quando insegnava che in Bohème non si piange di commozione estetica ma, semplicemente, perché Mimì muore. 

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